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    ECUMENISMO

    500° della Riforma

    a cura di Domenico Segna - Il Regno

    500anni

    La riforma attende tutti

    Intervista al teologo valdese Sergio Rostagno

    La ricorrenza del Cinque-centenario della nascita della Riforma, che culminerà con una serie di appuntamenti e una celebrazione ecumenica cui parteciperà papa Francesco in Svezia a Lund il prossimo 31 ottobre, è l'occasione per ripercorrere il cammino sia delle Chiese sia del movimento ecumenico. Inauguriamo con un'intervista a Sergio Rostagno, emerito di Teologia sistematica alla Facoltà valdese di teologia con sede a Roma, un percorso di dialoghi e approfondimenti sul tema (D. Sala).

    Il 31 ottobre del 1517 il monaco agostiniano Martin Lutero affisse – almeno così vuole la tradizione – le sue 95 Tesi redatte in latino: qualcuno le lesse, le tradusse in tedesco e la Riforma ebbe inizio, senza che il loro autore immaginasse d'innescare una vera e propria rivoluzione. Sono ormai trascorsi quasi 500 anni da quel fatidico giorno, cosa hanno ancora da dirci quelle proposizioni che attaccarono l'uso di cui all'epoca si fece delle indulgenze, soprattutto il fatto che generassero una generale falsa sicurezza, una securitas, una parola che Lutero usa quasi sempre in senso negativo?
    «Mi permetto d'iniziare dalla famosa frase che la tradizione vuole sia stata pronunciata da Lutero alla Dieta di Worms il 18 aprile 1521: "Qui sto io. Non posso altrimenti". In realtà furono presentati a Lutero una ventina di suoi scritti il mercoledì 17 aprile ed egli chiese un giorno per riflettere. Nel pomeriggio del 18 comparve di nuovo davanti all'imperatore Carlo V e alla Dieta e fece un discorso.
    Così gli chiesero una dichiarazione più semplice: ritrattava o no? Fu allora che rispose nettamente che non poteva in coscienza ritrattare le cose che aveva scritto. Carlo V gli convalidò il salvacondotto per tornare a Wittenberg. Sulla via del ritorno Lutero gli scrisse una lettera di tre pagine (tuttora conservata) per ringraziarlo e spiegare perché non poteva ritrattare.
    Le parole che la tradizione gli ha attribuito sono in sostanza esatte. Worms chiude il primo periodo della ricerca luterana. Da lì in poi i suoi argomenti diventano un fatto pubblico. Le parole dette a Worms appartengono allo spirito europeo e costituiscono una delle chiavi per comprenderne la natura.
    Ma che cosa c'era di tanto speciale nelle idee del professore wittemberghese? Lutero aveva proposto tutta una nuova catena di significati che si potevano agganciare al messaggio cristiano. La teologia moderna del suo tempo (già allora esisteva la teologia "moderna") era ottimista sull'uomo e a suo avviso Dio in fondo confermava questo ottimismo. Lutero fu contrarissimo e cercò una via diversa. Benché restasse incomprensibile ai più, la proposta di Lutero era molto avanzata e fondava in maniera diversa il rapporto tra uomo e Dio».

    Liberare Lutero

    – In Italia Lutero è ancora, in larga parte, conosciuto solo dagli addetti ai lavori; la statura teologica di Lutero suscita, al contempo, dibattiti e luoghi comuni duri a morire. Di recente lei ha pubblicatopresso Claudiana un suo studio su il grande Riformatore tedesco dal titolo Doctor Martinus, proponendo un'originale lettura dell'opera La libertà del cristiano. Cosa l'ha indotto a tornare a riflettere su questa capitale opera di Lutero?
    «Lutero è vittima dei contrasti originati dalla sua teologia e dalla sua geniale fermezza nel sostenerla. Dobbiamo liberare Lutero dalle polemiche confessionali e rileggerlo come professore. Certo non è facile. Bisogna superare lo scoglio di cinquecento anni di evoluzione, periodo in cui la nostra cultura è diventata prima illuminista poi esistenzialista poi pluralista e così via.
    Ma nel XX secolo riprende la lettura di scritti di Lutero, anche sulla scorta del lavoro archivistico paziente di molti ricercatori che rimettono in circolazione testi noti e pubblicano inediti sconosciuti. Filosofi, come Husserl o Heidegger, o teologi come tutti quelli che hanno insegnato in Germania nei tempi burrascosi del nazismo e delle guerre, sono ripartiti da Lutero, dalla negatività per esempio, per poi passare a considerazioni più distese.
    Ora alcuni filosofi, come Slavoj Žižek tra gli altri, riscoprono il cristianesimo e ci insegnano vecchi e nuovi significati. Conviene che lasciamo indietro il linguaggio delle condanne clericali e anticlericali. Questo non vuol dire appiattire, ma venire a discutere di problemi.
    Che cosa mi ha condotto a rileggere La libertà del cristiano con scrupolo filologico e insieme interesse di merito? Volevo capire come si potesse esprimere il fondamento dell'essere umano (fondare il soggetto trascendentale, per dirla con Husserl) e nello stesso tempo tenere in onore la alterità o quella che Husserl chiama intersoggettività.
    Mi pare che Lutero abbia sfruttato il linguaggio cristiano per mettere in equilibrio le due istanze. Egli lega la prima alla libertà e alla fides, la seconda alla caritas. Questi concetti sono ora svuotati, banalizzati. Occorre prima di tutto comprenderne il significato. Lutero ha tentato il fondamento del soggetto fuori dalla morale e ha sfruttato in pieno il linguaggio cristiano per farlo. Sullo stesso livello ha messo la fides e la caritas, ma ha distinto fortemente le due nozioni, il che implicava una polemica con chi le confondeva. Non ho scoperto nulla di nuovo: ho soltanto sottolineato tali punti».

    Papa Francesco crede nell'ecumenismo

    Papa Francesco si recherà in Svezia dove prenderà parte a una cerimonia congiunta fra la Chiesa cattolica e la Federazione luterana mondiale, in programma a Lund il 31 ottobre, per commemorare l'anniversario della Riforma. Su II Foglio Giuliano Ferrara si è chiesto quanto sia «luterano» il pontefice venuto dalla fine del mondo, citando Giovanni Miegge e Jacques Maritain. Quali sono le questioni ecumeniche che meritano di essere affrontate in occasione del cinquecentenario?
    «Papa Bergoglio di luterano non ha proprio nulla e il suo richiamo a Francesco parla da sé. Ma il suo pontificato può contribuire a soddisfare un lontano e antico auspicio di tante menti cristiane, che il papa possa abbandonare la politica di potere, difendere l'autonomia della parola di Dio nella Chiesa ed essere nello stesso tempo garante di unità e di pluralità. Fino a che punto il papa può considerare la sua Chiesa alla pari con altre Chiese alla luce di un universalismo ancora da scoprire? A metà del XX secolo esisteva il movimento ecumenico, di cui il papato, nell'opinione dei più, ha ora assunto l'eredità. Non avrebbe senso non accorgersene».
    Quanto ha influito nel Novecento e in questi primi decenni del nuovo secolo la Theologia Crucis di Lutero su quella cattolica?
    «Vorrei fare un discorso più generale sulle teologie e sul loro sviluppo nei cinquecento anni che ci separano dalla Riforma. Pur tenendo conto dell'esistenza di varie compagini ecclesiastiche organizzate nei modi più diversi (il protestantesimo ha un suo buon campionario in merito), le grandi questioni e le grandi correnti di pensiero sono quelle che ci possono ancora interessare veramente.
    Qui le divisioni sono molto meno nette. Credo che sia utile uscire dalle contrapposizioni che la storia e la natura umana hanno esagerato, uscire dalle reciproche accuse, e infine considerare il tempo storico come un processo di rinnovamento inarrestabile. Questo spirito mi sembra tanto più necessario oggi, in quanto il cristianesimo nel complesso è confrontato con problemi immediati e immensi.
    La croce è per tutti un segno di contraddizione, ma anche di riconciliazione. I due concetti sono avvicinati in maniera suggestiva in vari testi biblici (Antico Testamento compreso). Molte espressioni degli scritti cristiani del I secolo, al di fuori di ogni tormento esegetico e di ogni posizione politica, sembrano oggi parlanti e vitali. Occorre rifletterci.
    Nello stesso tempo non posso nascondermi la diversità dei metodi con cui i problemi sono affrontati. Nel cattolicesimo intelletto e volontà inclinano obiettivamente verso la verità o sono forzati a farlo; nel protestantesimo sono strumenti per il pensiero, ma non sono adatti a fondare il soggetto e si evita di sottoporre quest'ultimo a una costruzione mentale deliberata da altri esseri umani (come Lutero spiegava inutilmente a Carlo V nella sua lettera!)».

    Un cristianesimo al tramonto

    Per Sergio Rostagno, teologo valdese, che cosa ha rappresentato il «servo arbitrio» luterano? Che cosa significa avere fede in Cristo in un'età completamente secolarizzata dove, almeno in Europa, il cristianesimo sembra un eone al tramonto?
    «Mi schiero dalla parte di Lutero pur senza condividere ogni singola asserzione. Il principio del nascere umano non sta in una legge da adempiere; sta in un annuncio di libertà da porre a monte di ogni fondamento e azione. Se c'è qualcosa da adempiere, Cristo lo ha già del tutto adempiuto.
    Paradossalmente è Lutero e non Erasmo che rivendica la libertà come inizio e in fondo il motivo è lo stesso di quello che troviamo già ne La libertà del cristiano, la fondazione meta-morale del soggetto. Il dibattito quindi verte sul concetto di libertà. Il fatto che sia legato al problema dell'inizio di tutto e che questo inizio sia collocato in una decisione di Dio non mi turba. Credo anzi che non sia possibile pensare l'inizio che come decisione. Quel che non ammetto invece è la specificazione pratica di questa decisione in una scelta arbitraria addirittura tra uomo e uomo.
    Questo slittamento ebbe conseguenze tragiche e vergognose per le nostre culture. La rivendicazione dell'universalità del peccato e della grazia produsse poi quattro secoli fa uno scontro tra i canoni del calvinismo ortodosso e più blande e apparentemente più aperte posizioni.
    Tali canoni sono duri ma preziosi se non si vuole che il soggetto cristiano parta "lancia in resta" a vantare la sua capacità di realizzare la legge. Ma sono sovente questioni difficili che dovrebbero essere affrontate da persone mature.
    Plaudo alla formula "eone al tramonto". La parola «eone» rinvia a un'epoca intera del mondo che si apre e poi tramonta e si chiude. Sì il cristianesimo è finito, in un certo senso.
    Forse siamo all'inizio di un nuovo Medioevo fatto di frammenti e spezzoni più che di pensieri unitari e definitivi. Tuttavia in esso potrebbe darsi che un legame segreto e profondo possa venire ancora dal pensiero cristiano debitamente discusso e rielaborato. Sta alle prossime generazioni farlo e non possiamo immaginare se e come ci riusciranno. In ogni caso i pensieri che hanno motivato e sollecitato persone come Paolo, Giovanni e che hanno in seguito ispirato ancora molte altre persone non sono tramontati e sono come semi destinati a portare altri imprevedibili frutti anche in futuro.
    Crediamo che siano liberi di generare altri germogli».

    (IL REGNO - ATTUALITÀ 10/2016, pp. 268-269)


    Italiani e Valdesi

    Intervista a Giorgio Tourn

    Dopo il dialogo con il teologo valdese Sergio Rostagno (Regno-att. 10, 2016,268), che ha inaugurato una serie d'approfondimenti in occasione del cinque-centenario della Riforma, presentiamo qui un'intervista a Giorgio Tourn, anch'egli valdese, pastore storico e teologo. Ancora oggi il protestantesimo in Italia appare come una minoranza sconosciuta ai più, che rivendica uno specifico ruolo storico e talora esprime una ricerca d'identità che prevale sulla disponibilità al dialogo col cattolicesimo (red.).

    Il nostro paese ha avuto notevoli personalità come Pietro Paolo Vergerio o Girolamo Zanchi che passarono alla Riforma. Qual è lo specifico della Riforma protestante italiana?
    «Una riforma religiosa di tipo europeo non fu possibile nell'Italia rinascimentale per l'assenza di principi e città libere e per la presenza del papato. Non si può dunque parlare di una Riforma italiana ma si possono identificare molte presenze della Riforma europea in Italia e molte presenze italiane nell'Europa protestante. Nel primo caso si tratta di fermenti religiosi orientati verso un riformismo spiritualista ma anche una riforma organica, che toccano non solo religiosi e clero ma anche laici in ambienti sia intellettuali sia popolari: figure di singoli ma anche gruppi d'ispirazione calvinista o anabattista.
    Molto maggiore è però la rilevanza degli italiani che, lasciando la patria per salvaguardare la propria libertà di pensiero, militarono nel fronte protestante. Si tratta sempre di personalità di notevole levatura a cui l'Europa moderna deve non pochi tratti della sua cultura. Due elementi li caratterizzano: una comune matrice umanista, cioè moderna (l'autorità non è legata al potere ma alla verità), e un spirito di forte indipendenza, che rese un inquadramento istituzionale problematico per loro e per le autorità delle città dove cercarono rifugio.
    Compongono un variegato mosaico di posizioni da Vergerio, vescovo di Capo d'Istria su posizioni di calvinismo rigoroso, ai Sozzini, Fausto e Lelio, pellegrini nell'Europa orientale su posizioni antitrinitarie a cui si devono i primi fermenti di tolleranza; da Pier Martire Vermigli, esponente di una teologia riformata che il mondo puritano anglosassone anteponeva a Calvino come maestro, a Zanchi e Tremellio, maestri di filologia; da Curione straordinario editore di classici a Ochino, il più rinomato predicatore del secolo».

    Controriforma e repressione

    Con il concilio di Trento la Chiesa cattolica reagì al «male» che veniva dal Nord con una propria Riforma: quali i diversi portati storici del protestantesimo e del cattolicesimo?
    «Nella misura in cui fu avviata in opposizione al progetto di riforma lanciato da Lutero, quella tridentina ebbe carattere di restaurazione. A contrapporsi allora non erano infatti due Chiese cristiane, ma due progetti ecclesiastici. Il dibattito si polarizzò su temi dogmatici (giustificazione, fede/opere) ma il contrasto fra le due posizioni si configurava in termini molto più radicali. Il progetto riformato ipotizzava una nuova formadi cristianesimo; quello romano, dei gesuiti, mirava all'aggiornamento della cristianità medievale, rinnovata in chiave rinascimentale, con il papato in posizione determinante.
    Per i protestanti il cristianesimo riformato è la vita di fede di una comunità credente in una comunità umana responsabile; il ministero ecclesiastico non consiste nel gestire la società ma nel predicare l'Evangelo in vista della salvezza delle creature, ai magistrati (re, principi consigli cittadini) spetta un magistero laico: una gestione corretta della comunità civile.
    Il progetto luterano d'ispirazione umanista, proponeva di rileggere la teologia e la pietà della Chiesa col metro della predicazione apostolica in particolare paolinica; quello di Roma mirava a salvaguardare il potere della Chiesa.
    La struttura centralizzata di tipo monarchico assunta dalla Chiesa di Roma determinò il suo inevitabile carattere repressivo di cui furono strumenti l'Indice dei libri proibiti e l'Inquisizione. Gli studi storici hanno evidenziato molto chiaramente le conseguenze malaugurate che questa visione della cristianità ha avuto nella vita degli europei, non solo in ambito strettamente religioso ma anche civile».
    Quello della «Riforma mancata» è un tema che di tanto in tanto si legge sui giornali. Tra l'Ottocento e il Novecento si assiste alla crisi del Risorgimento: Gobetti scrive La Rivoluzione liberale, Guido Dorso La Rivoluzione meridionale, Alfredo Oriani La Rivolta ideale, infine, Giuseppe Gangale pubblica per le Edizioni Gobetti La Rivoluzione protestante: quattro libri che significativamente dimostrano come quel tema sia stato, in un qualche modo, sentito come parte integrante della crisi che stava vivendo la società italiana, specie durante il primo dopoguerra che vide l'affermarsi del regime fascista. Esso è ancora valido?
    «La cultura italiana, unanime nel vedere nel Cinquecento la svolta epocale della storia europea, non ha condiviso la tesi, suggerita dalla lettura hegeliana e ripresa da Sismondi nell' Histoire des républiques italiennes, che ne individuava il punto focale nella Riforma protestante, preferendo vederlo nel Rinascimento, il periodo glorioso della storia patria.
    De Sanctis riteneva che l'Italia avesse con Machiavelli realizzato la sua riforma, come la Germania con Lutero, e Benedetto Croce, pur riconoscendo il carattere repressivo del papato, giudicava positivo il fatto che avesse risparmiato all'Italia le dolorose esperienze dei conflitti religiosi.
    In realtà la tesi della "mancata Riforma", utilizzata dalla pubblicistica laica ma anche evangelica nel XIX e XX secolo, merita attenzione. Il rifiuto della Riforma, con la conseguente politica repressiva della Controriforma, ha segnato profondamente la società italiana, determinandone in modo negativo molti aspetti. L'associare sacra Scrittura, libero esame e controllo poliziesco ha determinato nella vita culturale e sociale la rimozione del problema religioso; riguardando esclusivamente il potere ecclesiastico, di cui è espressione, è argomento privo d'interesse per l'individuo.

    Valdesi a disagio

    Da questa rimozione trae origine l'ignoranza generale della popolazione italiana per quel che riguarda la sacra Scrittura, ma forse anche il suo scarso interesse per la lettura; la Bibbia, il Libro per eccellenza, è stata in larga parte della cultura europea il riferimento culturale formativo, la Controriforma ha privilegiato invece l'immagine e il popolo italiano la finzione teatrale.
    Più gravi furono le conseguenze nell'ambito del costume; alla repressione del potere si può sfuggire solo usando l'arma della "dissimulazione onesta" (così titola Torquato Accetto il suo saggio: Della dissimulazione onesta); l'uomo libero assume la responsabilità dei suoi atti, la plebe tace, non sa, non vede, come le maschere del suo teatro.
    Al vivere sociale, costruito essenzialmente sul parentado (la «famiglia» in tutte le sue versioni!), il potere nelle sue espressioni, politiche e religiose, risulta estraneo. Quando non sia strumentalizzabile per fini personali costituisce una minaccia da cui bisogna tutelarsi, usando prudenza, menzogna, silenzio. L'assenza dello stato lamentata da tutti gli italiani, prima di essere fatto oggettivo è proiezione di una visione soggettiva della realtà».
    Cosa significa essere valdesi in Italia oggi? Cosa significa avere l'orgoglio di definirsi calvinisti in un paese in cui più che Machiavelli ha vinto Guicciardini che, «luterano» in segreto, faceva pubblicamente professione di fede cattolica?
    «Nella formulazione della domanda è implicita la risposta: essere calvinisti, nel senso di discepoli di Calvino, sotto il profilo religioso e anche culturale, è assai difficile in una società guicciardiniana. La sensazione è di essere in posizione scorretta, anomala, come un'immagine non a fuoco. Si tratta però di un malessere condiviso con molti italiani che, senza essere protestanti, si sentono a disagio in un contesto sociale che s'ispira alla doppia verità, al sottinteso e soprattutto al principio fondamentale del "particulare mio", una società sostanzialmente asociale.
    Nel lessico comune il termine "calvinista", viene in genere usato per definire non una posizione teologica confessionale, ma un comportamento ispirato a rigore; in questa prospettiva risultava essere calvinista un uomo politico di cultura marxista. Più che in un'etica di rigore morale i valdesi sarebbero propensi a vedere il loro carattere calvinista in quel senso civico, che Tocqueville considerava caratteristico della società statunitense del suo tempo.
    La coscienza di vivere in un tessuto relazionale che richiede responsabilità personale è infatti la trascrizione in categorie sociopolitiche dell'immagine usata da Calvino per definire la comunità cristiana: "compagnie des fidèles". Una Chiesa, quale egli la proponeva, che rinuncia a essere istituzione, ad amministrare la grazia, e d'altro lato rifugge dal presentarsi come una setta composta da soli eletti, costituisce il modello di una società umana responsabile.
    Con la sua visione della comunità cristiana organizzata in modalità assembleari, il calvinismo ricuperava il concetto di "compagnie", libera associazione di artigiani medievali e lo saldava con concetto luterano del magistrato ministro di Dio. Così facendo si apriva, come ha illustrato in modo puntuale Mario Miegge nei suoi lavori, una prospettiva del tutto nuova nella cultura politica europea; se infatti il magistrato era nel protestantesimo luterano il principe illuminato, in quello ginevrino e poi puritano inglese, sarà il Parlamento».

    Con il Vaticano si apre una nuova era

    Italiani e protestantesimo oggi: un incontro possibile? Quanto la società italiana si è «protestantizzata»? Qual è il profilo del protestantesimo italiano oggi?
    «Valutando la presenza degli evangelici in epoca risorgimentale, Benedetto Croce la giudicava antistorica: assurdo voler protestantizzare l'Italia, la storia non torna indietro. Giudizio, pertinente sul piano storico, che non coglie però il senso del loro progetto: non si trattava di fare un'Italia luterana o calvinista ma contribuire a farla cristiana in modo moderno.
    Come nel Cinquecento il loro programma, condiviso – va detto – da non pochi ambienti del cattolicesimo, non si realizzò scontrandosi con la Chiesa romana che nell'Ottocento optò per il dogma mariano, per l'infallibilità, il Sillabo e che nel Novecento condannò il Modernismo, e uno studioso come Buonaiuti. Si potrebbe leggere queste esperienze come una controriforma senza inquisizione, che, non avendo certo la portata di quella del Cinquecento, ha però frenato non poco il cammino di riflessione religiosa nella realtà italiana. In questo clima, culminato con il Concordato fascista, gli evangelici non hanno certo potuto incidere nella vita nazionale, anche se la presenza di movimenti pentecostali ha rappresentato una novità significativa nel nostro campo.
    Solo negli ultimi decenni si è registrato l'avvio di un notevole cambiamento nella società italiana. È anzitutto diventato visibile il fatto che la modernità implica pluralità anche sotto il profilo religioso e il paese deve registrare il dissolversi progressivo della sua omogeneità confessionale. Sul terreno sociologico il fenomeno ha notevole rilevanza perché ogni perdita di identità provoca arroccamento difensivo, ma è rilevante altresì su quello confessionale.
    Non è senza rilievo il fatto che la Chiesa romana abbia avviato con il Concilio un controllato disgelo ecclesiale e di conseguenza la presenza degli evangelici, per decenni fenomeno marginale e scarsamente valutato, si collochi oggi in un contesto molto più articolato.
    Dopo decenni di silenzio è diventato evidente che il rapporto fra le confessioni cristiane deve essere ripensato. Nel movimento ecumenico il cristianesimo moderno è inteso come una realtà ecclesiale di carattere plurale come lo era il cristianesimo primitivo, la Chiesa di Cristo di conseguenza è una famiglia di Chiese sorelle di cui egli solo è capo.
    Questa loro convivenza solidale, che implica un confronto critico delle rispettive scelte, non è solo una risposta alle sfide della secolarizzazione ma una testimonianza della verità evangelica.
    Gli evangelici italiani sono convinti che in un cammino ecumenico, inteso non come un generico melting pot religioso o una ricerca di compromesso fra le diverse tradizioni, ma come un approfondimento delle radici teologiche del cristianesimo stesso, il contributo di comunità nate dalla Riforma protestante resti essenziale».

    (IL REGNO - ATTUALITÀ 12/2016, pp. 361-363)


    Voci di donna

    Intervista alla pastora Lidia Maggi

    Non solo uomini: dopo le interviste a Sergio Rostagno e Giorgio Tourn (cf. Regno-att. 10,2016, 268; 12,2016,361), incontriamo la pastora battista Lidia Maggi, teologa nota anche per il suo impegno in campo ecumenico, che esercita il suo ministero a Varese. Il centro del colloquio è il ruolo della donna nella vita sociale e della Chiesa (nd)).

    Potremmo definire Katharina von Bora, la monaca cistercense convertitasi assieme ad altre otto compagne al protestantesimo e poi divenuta sposa di Martin Lutero, la prima suffragetta della storia moderna? In altre parole, che cosa ha comportato l'avvento della Riforma nella vita quotidiana delle donne?
    «La Riforma, all'interno della Chiesa, riscopre il primato della parola di Dio, arrivando a mettere al centro della fede il rapporto con la Scrittura. Lo fa in un contesto dove l'istruzione era privilegio di pochi, per lo più maschi e benestanti. Esortare, incoraggiare e promuovere l'alfabetizzazione delle persone, al fine di permettere a ogni credente di leggere e studiare la Bibbia, ha rappresentato una vera rivoluzione culturale, di cui anche le donne hanno beneficiato.
    Incoraggiate a imparare a scrivere, leggere, memorizzare interi paragrafi della Bibbia, le donne, anche le più semplici, vengono strappate all'ignoranza. La memoria della necessità di istruire uomini e donne, nelle Chiese, per permettere loro di investigare personalmente le Scritture, è conservata nel modo col quale ancor oggi vengono chiamati gli incontri di formazione biblica per bambini, ragazzi e adulti: «scuola domenicale», espressione che può creare qualche disagio a bambini e bambine che temono di trovarsi a scuola anche di domenica. Espressione mantenuta però anche per non dimenticare il contributo delle Chiese riformate all'alfabetizzazione di tutti, senza discriminazione di genere».
    «La donna impari in silenzio, in piena sottomissione» (1 Tm 2,11): spesso si fa riferimento a questo passo per suffragare una presunta misoginia della Bibbia. In essa tuttavia, sia nell'Antico sia nel Nuovo Testamento, il ruolo delle donne è molto più complesso. Quale lettura viene data dal mondo evangelico al rapporto tra la Bibbia e le donne? La Bibbia delle donne è solo un titolo dell'editrice Claudiana oppure qualcosa di più? Chi sono le donne di Dio?
    «C'è una singolare comunanza tra ciò che è successo alla Scrittura e la vicenda delle donne all'interno delle Chiese. Un'analoga condizione le accomuna, nel bene e nel male. Come si è passati da una Chiesa primitiva, in cui trovavano espressione una pluralità di ministeri e di doni che coinvolgevano uomini e donne, a un'organizzazione ecclesiale in cui i ministeri sono stati accentrati e le donne sempre più marginalizzate; così anche la Scrittura ha vissuto una medesima parabola.
    Da Parola consegnata a una comunità tutta profetica è divenuta libro sequestrato, Parola in esilio. Solo pochi decenni fa, prima del concilio Vaticano II, per molti cattolici la Bibbia era considerata il libro dei protestanti, da non leggere senza permesso e mediazione magisteriale.
    Dunque, donne e Scrittura, accomunate in un'analoga vicenda di riduzione al silenzio, sono passate dalla libertà evangelica al sospetto ecclesiastico. Tale problema riguarda anche le Chiese di tradizione riformata che, pur avendo messo al centro della fede la Parola attestata nella Bibbia, non sempre l'hanno onorata nel modo di leggerla e interpretarla.

    Onestà di fronte alla Bibbia

    Il mondo evangelico è, per l'appunto, un mondo, abitato da sensibilità differenti: vi sono Chiese dove le donne sono state accolte e riconosciute nella loro ministerialità; e Chiese in cui esse, proprio come nel mondo cattolico, faticano a farsi ascoltare. Se è bastato mettere al centro la Bibbia per strappare dall'analfabetismo una comunità, non è sufficiente leggerla e interpretarla per ridare voce alle donne. Dobbiamo domandarci «come» la leggiamo. Come passare da una lettura che ci conferma nelle nostre certezze (i famosi dicta probantia medioevali) a un autentico ascolto, capace di cambiare e convertire i nostri sguardi.
    Solo se fuoriusciamo da giudizi frettolosi e letture ideologiche, potremo provare a dare credito alla Scrittura, senza per questo rinunciare all'onestà intellettuale. Inizieremo a fare i conti con un libro che, a più riprese e con avvincente ironia, reclama che gli vengano restituiti i lineamenti del proprio volto.
    Una recriminazione a cui le donne non possono rimanere indifferenti. Perché, finora, il volto della Scrittura è stato sostituito da una sua caricatura: una distorsione, in cui i tratti femminili sono stati resi silenti e i tratti maschili sono stati enfatizzati, esasperati. È giunto il tempo di aprire questo libro e di ascoltarlo al di là delle secolari interpretazioni (impossibile saltarle e, insieme, letale non contestualizzarle, non porle in tensione tra loro), alla ricerca del volto, anzi, dei volti di quel libro al plurale.
    Scopriremo così che le donne, nella Bibbia, pur muovendosi in un contesto patriarcale, vivono un forte protagonismo. Non è un caso che alcuni libri biblici sono dedicati a figure femminili (Rut, Ester, ma anche il canto d'amore più bello: il Cantico dei cantici). Il mondo biblico non è un universo ideale, fuori dalla storia, quasi un'isola felice. La Bibbia ha la pretesa di attraversare la realtà senza tacerne le contraddizioni, le ferite inferte al creato. Non rimuove nulla e tutto mette in questione. Il dominio maschile sulle donne è una delle problematiche affrontate con coraggioso realismo.
    Colui che viene a redimere il mondo forma una comunità diversa rispetto ai valori del mondo, dove al centro ci sono gli ultimi. Egli esorta a non adeguarsi ai criteri mondani di competizione e potere: "Ma tra voi non sia così". La Chiesa, nel suo momento sorgivo, è stata in grado di raccogliere quella visione e di viverla. Le donne sono state accolte come discepole, apostole, profetesse, alla stessa stregua degli uomini maschi.
    Certo, tale libertà ha spaventato presto alcuni capi della Chiesa; e la lettera a Timoteo, citata nella domanda, ne è una dimostrazione. Ma è proprio questa reazione "scorretta", direi quasi isterica, di chi richiama al silenzio le donne che attesta la grande libertà di cui godevano le donne nelle Chiese.
    Se, agli inizi del II secolo, un responsabile di Chiesa, appartenente alla scuola paolina, sente il bisogno di mettere ordine e limitare la libertà di movimento di donne non sposate, sottratte al controllo maschile, correggendo in tal modo il tiro rispetto a quel modello di Chiesa dove, in Cristo, non conta più essere ebreo o straniero, schiavo o libero, uomo o donna, vuol dire che qualcosa era davvero cambiato nelle Chiese per le donne. E così il patriarcato, un demone mondano scacciato dalla Chiesa, rientra strisciante pochi decenni dopo l'esperienza sorgiva.
    Leggere la Bibbia, lasciando che il mondo femminile si riveli e riacquisti voce, non è solo un atto di giustizia verso le donne, che ancora oggi sono afone nelle Chiese. In gioco c'è Dio stesso, la sua immagine, il suo volto.
    Il testo di Genesi su "maschio e femmina" a immagine e somiglianza divina, non rimanda solo all'istituzione del matrimonio, ma a Dio stesso che, per non essere trasformato in idolo, ha bisogno di essere annunciato con voci plurali: maschile e femminile, per l'appunto. La posta in gioco è nientemeno che teologica.

    Donne di Dio

    Chi sono le donne di Dio? Nella narrazione biblica, sono quelle che hanno fatto esperienza del divino. Donne diverse: alcune molto forti, come Sara; altre, vittime, come Agar, la schiava egiziana. Donne coraggiose, come Sifra e Pua, le due levatrici che disobbediscono agli ordini di morte del faraone. Donne con funzione di guida, come Miriam, la sorella di Mosè, o Debora, giudice e condottiera.
    Donne come Maria, con la sua fede curiosa, piena di domande; come Elisabetta, capace di accogliere e sostenere una giovane sorella. Le donne intorno a Gesù, a iniziare dalla Maddalena. Donne protagoniste nelle comunità paoline, come Febe, diacono a Corinto. Donne forti e deboli, coraggiose e codarde. Dio non cammina solo con gli uomini maschi né con chi è perfetto. Donne afferrate da Dio per intraprendere un esodo dalla terra di schiavitù del patriarcato verso la terra promessa.
    Un processo di liberazione che ha i suoi arresti, che trova resistenza nelle stesse donne. La chiesa poteva essere questa terra promessa per le donne; e invece si è spesso rivelata come luogo d'oppressione e silenzio. Oggi, le donne di Dio sono tutte coloro che stanno lavorando per trasformare in un luogo più accogliente la terra, a iniziare dalle Chiese. Donne diverse per tradizione, credo religioso, cultura; ma animate dalla stessa passione per la vita. Donne che non si rassegnano al dominio patriarcale, ma anche donne che lo subiscono senza pensare che per loro sia possibile un altro modo di vivere.
    Le donne di Dio sono anche tutte quelle pensatrici cattoliche che, nonostante la mancanza di spazio nella loro Chiesa, studiano, insegnano, scrivono, pubblicano: teologhe e bibliste acute che, dall'interno, provano a render più accogliente e ospitale la Chiesa. Limitandomi al panorama italiano, penso a Marinella Perroni, Serena Noceti, Cristina Simonelli, Stella Morra, Lilia Sebastiani, Adriana Valerio, Benedetta Selene Zorzi, Rosanna Virgili...; alle suore Orsoline di Vicenza, con il loro centro "Presenza donna": tutte donne di Dio. Quanta ricchezza nel cattolicesimo italiano. Se ne dovranno accorgere i vertici, prima o poi!».
    Il pastorato femminile sarebbe dovuto essere qualcosa di connaturato nelle Chiese nate dalla Riforma, segnatamente in quelle di matrice calvinista; tuttavia, anche in esse il processo per giungere a esso è stato lento. Oltre al maschilismo, quali le cause di questo ritardo? Cosa significa per una donna essere pastore, quale diverso surplus offre rispetto al pastorato maschile?
    «Perlopiù si pensa alla Riforma come a un evento puntuale, accaduto in un preciso momento storico, che per convenzione si fa coincidere con il 1517, anno in cui Lutero innescò con le sue Tesi un vivace dibattito sulla fede e la Chiesa. La Riforma è piuttosto un processo, innescato secoli prima e ancora in corso. Ecco perché si parla di "Ecclesia reformata semper reformanda". Il cambiamento fa parte dell'essere del discepolo e della comunità dei discepoli e si concretizza nella continua necessità di sottoporsi docilmente alla guida dello Spirito di Gesù, che fa ogni cosa nuova.
    La Riforma, nel suo momento sorgivo, non ha riflettuto direttamente sul pastorato femminile; e tuttavia, ha innescato dei processi che hanno portato, come frutto tardivo, a questo riconoscimento.
    Aver strappato la Chiesa a una visione clericale, mettendo al centro la vocazione di ogni singolo credente in rapporto diretto con Dio e le Scritture, ha gettato un seme che può annoverare tra i suoi frutti anche il pastorato femminile.

    Il ritorno del patriarcato

    Un frutto che ha faticato a maturare, proprio a causa del maschilismo che non è solo un problema individuale, ma sociale, collettivo. Le Chiese vivono immerse nelle diverse società e ne respirano i profumi come anche i veleni. Questi ultimi entrano nelle Chiese e ne contaminano le strutture, il clima, lo sguardo.
    Si pensa spesso che il mondo entra nelle Chiese con l'emancipazione delle donne, una visione laica della vita, la libertà. In realtà, la vera secolarizzazione è iniziata nelle Chiese quando il patriarcato, scacciato dal cristianesimo delle origini, è rientrato a pieno titolo nelle strutture delle Chiese. I modelli patriarcali hanno segnato l'organizzazione interna alle Chiese; e quel "tra voi non sia così" è stato disatteso.
    Anche le Chiese della Riforma hanno subito questo avvelenamento. È solo per grazia che lo Spirito ha guidato le Chiese protestanti a un ravvedimento che non può dirsi concluso.
    Vengo alla questione del pastorato. "Ma è corretto dire pastora?" E con questa domanda che, in genere, si manifesta quello stupore che coglie l'interlocutore, quando si trova di fronte a un ministro che non solo è sposato ma addirittura donna.
    Se, nella Chiesa cattolica, il celibato è condizione per lo svolgimento del ministero presbiterale, tale condizione non sussiste nelle Chiese della Riforma, dove è permesso sposarsi e avere dei figli. L'impegno familiare non è vissuto in conflitto con il lavoro pastorale; anzi, la famiglia diventa per il pastore e la pastora un'opportunità per maturare uno sguardo più concreto sulla vita di coppia, sui problemi educativi ed economici.
    Nel passato, le Chiese più tradizionaliste arrivavano addirittura a vedere nel pastore sposato la possibilità di un effettivo beneficio per la Chiesa: "Prendi due e paghi uno"! Il pastore non ancora maritato si trovava, di conseguenza, svantaggiato rispetto al collega ammogliato. La moglie del pastore aveva un ruolo importante nel gestire le visite in ospedale, nella cura dei locali (fiori, biscotti alle agapi...), nel lavoro con i bambini o nelle incombenze di segreteria. Se poi questa sapeva anche suonare l'organo, la Chiesa non poteva pretendere di meglio.
    Oggi, questa dinamica è quasi del tutto venuta meno. Sempre più le Chiese imparano a ridimensionare le proprie aspettative nei confronti della coppia pastorale, arrivando ad accettare che un pastore possa separare la propria vita privata dal ministero nella Chiesa.
    E la figura della moglie di pastore è stata sostituita da quella di donne, ministre del Signore. E, ormai, da diversi decenni che le Chiese riformate sono guidate da donne. Non senza resistenze, le donne pastore si sono guadagnate sul campo una credibilità anche nei confronti di chi faticava a vedere in una donna un ministro di Dio. Nelle Chiese riformate, generalmente, il ministero femminile è ormai riconosciuto e apprezzato.
    Negli ultimi decenni, le donne hanno aiutato le Chiese a comprendere quanto possa essere efficace una parola di genere nell'ascolto pastorale, nella predicazione e nella formazione teologica. A mio giudizio, il contributo più prezioso portato dal ministero femminile consiste nell'aver rimesso al centro del dibattito ecclesiale la necessità di recuperare una ministerialità diffusa, una collegialità di ministeri effettiva. Non è questo il senso del battesimo? Un segno del patto, dato non solo agli uomini maschi con la circoncisione, ma a tutta la comunità, senza distinzioni di genere, classe e nazione».

    Il discernimento ci accomuna

    Tra cattolici e protestanti nel corso della storia gli approcci alla famiglia sono stati differenti: basta vedere un qualsiasi film americano per rendersi conto di quanto diversa sia la concezione, anche antropologica, che fa da sfondo. Che lettura dà della recente esortazione apostolica Amoris laetitia?
    «Chissà perché, tutte le volte che s'intervista una pastora, si arriva a parlare di famiglia! Sono automatismi interessanti. Le riconosco, però, il modo tutt'altro che stereotipato di porre la domanda, avendo evitato di chiedermi, come solitamente avviene, come concilio il ministero con la famiglia. Mi domanda invece un parere su un documento importante per il magistero cattolico.
    Sarebbe banale e scorretto rispondere in poche battute su un'esortazione apostolica corposa, forse la più articolata scritta dal vescovo di Roma, Francesco. Un testo poliedrico, che restituisce respiro alla complessità dell'esperienza di coppia. Ho trovato particolarmente significativo il capitolo ottavo, che sintetizza un cambiamento di sguardo nei confronti delle famiglie ferite. Il titolo potrebbe riassumere l'intera esortazione: accompagnare, discernere e integrare la fragilità. Al centro, l'attenzione ai corpi concreti più che a dottrine e norme canoniche a cui adeguarsi.
    Uno sguardo di misericordia, che prova a sospendere il giudizio e la condanna, per discernere. E una volta aperto il cantiere del discernimento, le analisi possono essere differenti. Ma la diversità di sguardi, di sensibilità, di valutazioni anche etiche, non significa necessariamente incompatibilità. Le Chiese, al difuori di quell'orizzonte ideologico preoccupato di definire e giudicare, possono arricchirsi reciprocamente anche a partire dalle differenti valutazioni di cui si fanno portavoce. Certo, bisogna fuoriuscire dagli slogan gridati, stile "Family day", e virare decisamente nella direzione dell'ascolto attento e non giudicante della realtà e della Parola. È lungo questa strada, mi sembra, che Francesco sta muovendo passi importanti, che segnano l'inizio di un cambiamento di rotta rispetto all'impossibilità di un dibattito non ideologico, come al tempo dei "valori non negoziabili"».
    Chi è Lidia Maggi, nostra sorella?
    «Mi piace questa domanda che include già la risposta più appropriata: "nostra sorella". Mi sento sorella in quanto parte di quell'unica Chiesa che si manifesta nella pluralità delle confessioni. La passione ecumenica mi ha regalato il dono meraviglioso di scoprire nelle altre confessioni la bellezza e la ricchezza di diverse letture delle Scritture, di tradizioni che provano a dire l'Evangelo nel presente, in dialogo con le generazioni che ci hanno preceduto. Oltre al dono di tanti fratelli e sorelle che ho avuto la gioia di conoscere e di stimare.
    La mia fede sarebbe molto più povera senza questi sguardi, che curano i miei occhi miopi mostrandomi una realtà complessa. La Chiesa è "una" non perché le confessioni sono omologate a un solo modello, a un pensiero unico; piuttosto, perché la diversità di ogni tradizione non è motivo di divisione. Una e plurale. Questa pluralità ci strappa dalle nostre granitiche certezze, ci apre al confronto, per ricercare insieme ciò che lo Spirito dice alle Chiese.
    Ho imparato che la voce di Dio arriva più chiaramente quando l'altro, l'altra, mi parla. L'ecumenismo mi ha strappato dall'idolo di una fede autoreferenziale e competitiva e mi ha donato tanti fratelli e sorelle. Le Chiese stanno imparando, dopo secoli di rapporti conflittuali, a fare la pace, a riconoscersi nelle loro diversità e a collaborare per rendere un po' più ospitale il mondo, nostra casa comune. E non c'è chi non veda quanto sia prezioso questo cammino, ancora agli inizi, in un mondo frammentato e in preda all'inimicizia».

    (IL REGNO - ATTUALITÀ 16/2016, pp. 470-472)


    Il Cristo inattuale

    Intervista a Fulvio Ferrario

    La Riforma ha con i suoi quattro «solus» – solus Christus, sola fide, sola gratia, sola Scriptura – risostanziato l'Europa del messaggio cristiano: probabilmente ebbe ragione Friedrich Nietzsche nel celebre paragrafo 61 della sua opera L'Anticristo a incolpare Lutero, un «prete malriuscito», dell'avvenuta «restaurazione della Chiesa», laddove ci sarebbe dovuto essere non il «peccatun originale, il cristianesimo», ma «il trionfo della vita».
    Domandiamo a Fulvio Ferrario, docente presso la Facoltà valdese di teologia, che cosa resta di questa volontà restauratrice della Riforma?
    «Ho sempre amato e citato volentieri l'interpretazione della Riforma proposta da Nietzsche: da fiero avversario del cristianesimo, egli ha capito meglio di altri che Lutero, molto semplicemente, ha inteso prendere sul serio la realtà di Dio. Il Dio di Lutero, cioè, non è una metafora, un ideale regolatore, il garante di un sistema di valori, bensì il Dio vivente della Bibbia, che si comunica all'essere umano e interviene nella storia.
    Nietzsche è scandalizzato dal fatto che la Bibbia venga seriamente considerata un luogo nel quale Dio stesso parla e che qualcuno pensi che davvero Dio ascolti la preghiera. In effetti, la Riforma ha fatto esattamente questo: all'alba della modernità, essa ha proclamato nuovamente, con grande forza, il messaggio di Gesù Cristo; e ha pregato, convinta, come i bambini, che Dio esaudisca chi si rivolge a lui.
    Precisamente per tale motivo, essa è stata anche una forza di rinnovamento della civiltà europea e una delle matrici dell'Occidente moderno. Per contro, vedere nella Riforma anzitutto una forza di secolarizzazione (una lettura che unisce, peraltro, avversari e ammiratori) è, a mio parere, miope. Lutero e gli altri polemizzano contro la Chiesa in nome di Gesù; e le prime parole della Riforma (prima tesi di Lutero sulle indulgenze) sono un invito alla "penitenza", cioè alla conversione».
    In una società come quella europea, dove le Chiese si svuotano, il protestantesimo mostra segnali di crisi probabilmente in modo più profondo rispetto al cattolicesimo sebbene gli stessi sianovisibili anche in quest'ultimo. Come rispondono a questo stato di cose le Chiese storiche nate dal movimento riformatore del XVI secolo?
    «La scristianizzazione europea è un fenomeno d'ampia portata e molto pervasivo e non stupisce che esso riguardi un po' tutte le Chiese. Devo dire, tuttavia, di essere piuttosto preoccupato per quello che mi appare un atteggiamento troppo passivo di molte Chiese protestanti europee. Di fronte alla drastica diminuzione del numero dei membri e, di conseguenza, al ridimensionamento delle finanze e delle strutture, si assiste anzitutto a ristrutturazioni organizzative.
    Esse sono ovviamente necessarie, ma non credo proprio che possano aggredire la sostanza del problema. Mi sembra che le Chiese protestanti che furono sociologicamente significative insistano a concepirsi come «Chiese di popolo», che costituiscono una componente, non sempre centrale, ma nemmeno irrilevante, del panorama sociale. Ebbene, tutto lascia credere che questa situazione sia tramontata.
    Ormai le Chiese sono minoranze, non si diventa cristiani "automaticamente", ma solo a partire da una motivazione abbastanza articolata: insomma, devi sapere perché sei cristiano. Alcune Chiese protestanti in Europa sembrano voler contrastare la crisi "abbassando" la richiesta, cioè annacquando ulteriormente il loro profilo.
    Si tratta, a mio parere, di una strategia catastrofica: in primo luogo, essa è difficilmente difendibile sulla base della Scrittura; inoltre, nemmeno funziona. Se ti presenti in termini poco profilati, non interessi a nessuno».

    Primo: vivere l'Evangelo

    La Chiesa è sempre creatura verbi: cattolicesimo, ortodossia, protestantesimo lo declinano, però, in modo diverso tra loro. Nel vocabolario protestante non ci sono problemi nell'usare il termine «confessione»: quale è stato e, soprattutto, quale potrà essere, nonostante le citate difficoltà, l'apporto originale che contraddistingue il mondo protestante nella varietà delle sue espressioni? Quali sentieri nuovi può percorrere una Chiesa evangelica superando anche consolidate tradizioni?
    «È molto semplice: il protestantesimo è l'unica forma di cristianesimo ad aver compreso che la Chiesa di Gesù Cristo non si esaurisce in una delle sue espressioni visibili. Sia il cattolicesimo, sia l'ortodossia continuano a pensare in termini esclusivisti: solo noi siamo la vera Chiesa. Il cattolicesimo, qualche volta, lo fa in forma più sfumata, ma per ora, almeno a livello di magistero, la sostanza non cambia.
    Una Chiesa evangelica, invece, è in grado di riconoscere altre Chiese come espressioni dell'una sancta, conformemente a quanto accade nel Nuovo Testamento. Questa è la ragione per la quale il movimento ecumenico, fino al Vaticano II, è stato, almeno sul piano istituzionale, una faccenda quasi esclusivamente protestante. Le difficoltà attuali dell'ecumenismo dipendono in larga misura proprio da questo: com'è possibile parlare di comunione (e non semplicemente di riassorbimento di alcune Chiese da parte di altre) se si ha una comprensione esclusivista della Chiesa stessa?».
    Leggo da un brano tratto dal suo ultimo libro, Il futuro della Riforma, uscito da pochi mesi: «La priorità, tuttavia, non consiste nell'allestire un'apologetica più adeguata a rispondere ai "nuovi atei", bensì nel lasciare che la parola della croce determini la nostra immagine di Dio»: quale è l'immagine del Cristo della Riforma? Dov 'è il suo «scandalo» in un mondo occidentale distratto e areligioso come l'attuale?
    «Anzitutto mi preme sottolineare che il primo impegno della Chiesa non è convincere gli altri, ma vivere l'Evangelo. L'enfasi sulla "evangelizzazione" diffusa tra i cristiani che si ritengono impegnati, spesso presuppone che la Chiesa già comprenda e viva il messaggio e che l'unico problema sia trovare il famoso "linguaggio" adatto all'"essere umano di oggi". Nulla contro l'impegno di traduzione dell'annuncio (è anche il compito della teologia, cioè il mio mestiere); ma non è il problema principale. Una Chiesa che vive la fede, riesce anche a comunicarla. Laddove la realtà di Cristo è conosciuta perché vissuta, le parole si trovano. Spesso, una comunità riunita per il culto nella domenica sonnacchiosa delle nostre città dice di più su Gesù che un libro di cristologia (benché io stesso stia per pubblicarne
    uno...).
    Quanto al Cristo della Riforma, mi concentrerei su tre punti: a) Gesù è il nome, il volto, l'espressione, la storia, dell'unico Dio (Gesù come evento di rivelazione); b) egli è il Crocifisso: il Dio cristiano è diverso da quello delle religioni e non è semplicemente il "grande architetto" dell'universo (teologia della croce); c) il riferimento a Gesù ti permette, giorno per giorno, di ricominciare nonostante ogni fallimento (Gesù come evento di "salvezza")».

    Una responsabilità per i protestanti

    Il protestantesimo ha da sempre posto al suo centro Cristo e, dunque, una responsabilità del credente caratterizzata da una rigorosa etica che chiama a libertà. Quale idea di responsabilità si delinea per tutto il mondo cristiano odierno posto a confronto con il Lutero de La libertà del cristiano e del De servo arbitrio?
    «Ne il futuro della Riforma mi sono permesso di rivolgere qualche obiezione all'idea corrente di libertà come "autonomia" o "autodeterminazione". A mio avviso, la Riforma, ma soprattutto la Bibbia, comprendono l'essere umano come drammaticamente condizionato da poteri che lo vogliono asservire.
    Il soggetto non è affatto "libero", bensì coinvolto in un intreccio inestricabile di poteri. La Scrittura osa affermare che il Dio di Gesù Cristo libera dai poteri diabolici di questo mondo. Questa è la ragione per la quale una realtà così "non politica" come il cristianesimo delle origini è stata ferocemente perseguitata dal potere romano. Prima ancora: è la ragione per la quale il non politico Gesù è stato ucciso dal potere imperiale, per una volta d'accordo con l'aristocrazia del tempio».
    La Riforma: un storia inattuale? Non sarà questa, paradossalmente, la sua forza»?
    «Ritorniamo a Nietzsche, che si arrabbiava perché il messaggio protestante gli sembrava scandalosamente inattuale. In realtà, è Gesù a essere inattuale, lo è sempre stato: la sua persona è la critica al culto del presente e dei suoi stili di vita e di pensiero. Per la Chiesa (non solo per quella protestante, naturalmente), la sfida consiste nell'essere fedele all'inattualità di Cristo.
    Non, cioè, a qualsiasi inattualità: l'arroccamento nelle ideologie pseudocristiane del passato non è di per sé migliore del tentativo patetico d'adeguarsi a tutti i costi all'ultima moda. Quella di Cristo è un'inattualità qualificata: Gesù è sempre "contemporaneo", come diceva Kierkegaard, ma lo è come colui che inquieta la contemporaneità, la critica, la giudica e in tal modo la perdona, cioè la valorizza autenticamente.
    Il protestantesimo non ha certo l'esclusiva di questo messaggio. In passato, però, esso ha contribuito a rimetterlo a fuoco, il che costituisce anche una responsabilità per l'oggi».

    (IL REGNO - ATTUALITÀ 16/2016, pp. 473-474)


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