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    Cristianesimo e modernità

    Claudio Ciancio

     

    Può darsi che sia utile, ogni tanto, fare il punto, organizzare anche i frammenti delle impressioni e delle esperienze per procedere con più chiarezza. Io spero di portare un piccolissimo contributo a questo e mi scuso, fin d’ora, se sarò inadeguato rispetto al compito grandioso che mi è stato richiesto: offrire un affresco delle tendenze culturali del nostro tempo.
    Io pensavo di partire, del resto è nel programma di questi due giorni, dalla Lettera “Costruire insieme” per sottolineare proprio le pagine che individuano correttamente alcune sfide da cui oggi si deve partire. E le sfide sono elencate, direi soprattutto a pag. 46, là dove si parla di rottura con la tradizione, di pluralismo, di individualismo, di indifferenza morale e sociale. Più in generale, rimando alla pag. 44 in cui si parla di sfida della secolarizzazione, dove – giustamente credo – si declina il concetto di secolarizzazione in termini di neopaganesimo.
    Naturalmente mi rendo conto che su questo tema si possono fare i discorsi più contraddittori, più diversi, ma parlando come credente a un pubblico di credenti credo che sia opportuno incentrare l’attenzione particolarmente su questo tema della secolarizzazione che, dal mio punto di vista, segna nei suoi sviluppi, nelle sue articolazioni, che dirò adesso, il panorama culturale del nostro tempo.
    Dico subito che se avessi dovuto fare questo discorso vent’anni fa avrei parlato semplicemente di secolarizzazione. Oggi per descrivere con una formula sintetica il panorama culturale del nostro tempo direi che siamo in una situazione di secolarizzazione che cerca di superarsi, di oltrepassarsi, senza però riuscire compiutamente a fare ciò. Ecco, la sintesi del mio discorso è questa. Cercherò di articolare questa tesi in quattro momenti che prima enuncio e poi svilupperò.
    Che cosa s’intende per secolarizzazione? Mi scuserete se dirò delle cose che alla maggior parte di voi sono stranote, ma credo che quando si fa un quadro sistematico sia necessario anche richiamare cose molto note.
    Il primo senso di secolarizzazione è quello di laicizzazione dei beni della Chiesa, intendendo per beni della Chiesa tanto quelli materiali quanto quelli sociali e spirituali.
    Il secondo momento è la crisi di questa laicizzazione. Il terzo momento su cui mi soffermerò è il tentativo, già accennato, di uscire fuori, di fuoruscire dall’orizzonte cristiano anche secolarizzato.
    E infine toccherò, come quarto momento, il fallimento di questo tentativo di uscire dall’orizzonte cristiano.

    1. Secolarizzazione come laicizzazione dei beni della Chiesa

    Io credo che la maggior parte di noi siamo convinti che questo processo di secolarizzazione ha sicuramente un aspetto positivo, nel senso che la Chiesa si è liberata di ciò che aveva acquisito indebitamente. La Chiesa non deve gestire società e cultura, non deve occupare questi spazi ma, per la sua vocazione, deve rapportarsi dialetticamente alla società e alla cultura in cui si trova ad operare.
    In questo contesto di secolarizzazione avviene il cambiamento del titolare di questi beni materiali e spirituali, ma nel primo momento i beni restano gli stessi. Semplicemente c’è un trasferimento di titolarità senza mutare la natura dei beni che vengono trasferiti.
    Ma, certo, c’è un aspetto che possiamo dire negativo rispetto alla Chiesa, e consiste nel fatto che in alcuni casi questi beni non sono semplicemente trasferiti ma anche trasformati in senso contrario e ostile alla Chiesa stessa. Mi ha sempre colpito sapere come la chiesa abbaziale di Novalesa, dopo le leggi Siccardi, fu trasformata in sala da ballo. Evidentemente ci fu un’infezione di ostilità esplicita nei confronti della Chiesa in questo processo di secolarizzazione, che poteva essere anche giustificato, ma la trasformazione indicava un’intenzione ostile e non solamente un trasferimento di proprietà. Lo stesso, se non di più, vale per l’etica e la politica, che assumono un connotato ampio, intenzionalmente ostile alla Chiesa. E tuttavia l’esito ateo o laicistico di questo trasferimento di titolarità dà luogo, nella prima fase (queste fasi sono distinte temporalmente ma possiamo anche dire che permangono tutte insieme), a una cultura laica come cultura alternativa al Cristianesimo, e quindi c’è un’intenzione ostile nei confronti del Cristianesimo, ma con molti contenuti sostanzialmente comuni. Ed è per questo che giustamente tutta una stagione della vita della Chiesa – parlo dal Concilio in avanti – è stata attenta a un dialogo con il mondo laico, reso possibile dal fatto che una serie di contenuti della cultura laica erano contenuti di derivazione cristiana sia pure volti o dotati di una veste anticristiana.
    Penso anche alla Chiesa torinese, a quel documento importantissimo che è stato la “Camminare insieme”, reso possibile dal fatto che la secolarizzazione, pur avendo un’impronta espressamente anticristiana, manteneva dei contenuti che costituivano un terreno comune, possibile, di incontro tra Cristianesimo e cultura laica.

    2. La crisi dei capisaldi della cultura laica

    Il secondo momento è quello che segna la crisi di questo tipo di secolarizzazione o laicizzazione di cui ho parlato nel primo momento. È la crisi dei capisaldi della cultura laica che è sorta dalla secolarizzazione del Cristianesimo. È un fatto percepito solo negli ultimi anni o decenni, ma diventa sempre più evidente che c’è una crisi della cultura laica. I personaggi più lucidi – non tutti ma molti, come ad esempio Bobbio – sono perfettamente consapevoli della crisi dei capisaldi della cultura laica, che era sorta dal distacco dal Cristianesimo con la trasformazione di contenuti che in buona parte erano radicati nella tradizione cristiana.
    Cercherò di esaminare molto brevemente questa crisi dei capisaldi della cultura laica articolando la mia analisi in cinque aspetti.

    a) La crisi della cultura laica è in primo luogo crisi del soggetto, vale a dire crisi dell’identità del soggetto, della sua libertà, della sua forza, della sua capacità di progettualità.
    Se si vuole riassumere questa crisi in un’espressione più efficace diciamo che è la crisi del padre, del fondamento stabile, del luogo delle norme. Il soggetto diventa sempre più un luogo di incrocio, di attraversamento di forze e di linguaggi che non sono propriamente originati dal soggetto stesso. Si possono usare certe espressioni di filosofi che mi sono cari per dire che il soggetto invece che parlare è parlato, oppure per dire che il soggetto invece che pensare è pensato, vale a dire che il soggetto sussiste ma come un luogo in cui emergono gli scopi, pensieri, sentimenti, atteggiamenti, convinzioni che non provengono da lui, ma semplicemente trovano espressione incrociandosi in lui. Dunque il soggetto non parla, non pensa, non agisce, ma piuttosto è parlato, pensato, agito.

    b) La crisi della cultura laica è in un secondo momento la crisi della comunità politica, vale a dire delle forme di mediazione fra individuo e totalità, è la crisi di quell’idea di mediazione perfetta, che è stata prodotta dalla cultura, dall’idea del regno di Dio e che gli Stati, in modo più o meno distorto, hanno perseguito. L’individuo è sempre più individuo e, paradossalmente, è sempre più massa. E la crisi della comunità politica, dicevo, è crisi della mediazione fra individuo e totalità, fra individuo e società perché, invece che mediazione, c’è una paradossale identità, che però non è mediazione, per cui l’individuo è assolutamente individuo ed è assolutamente maschio. Dico che l’individuo tende ad essere assolutamente maschio nel senso che dicevo prima: non pensa in proprio, non agisce in proprio, non parla in proprio, ma è parlato, agito, pensato. D’altra parte, però, questo individuo è lasciato solo, è un atomo sia pure uguale a tutti gli altri atomi. Quello che resta come idea di mediazione tra individuo e totalità sociale è soltanto la convinzione iperliberistica che gli egoismi si possono autoregolare. E lo stesso vale, in un certo senso, per la Comunità Internazionale, naturalmente nel limite di questa convinzione (ma ne parlerò dopo) che l’autoregolazione non succede e quindi occorrono interventi violenti per renderla possibile.

    c) Terzo aspetto è la crisi dell’idea della storia come progresso. Oggi teorizzazioni della storia progresso non se incontrano più, almeno io non ne ho più incontrate da un po’ di tempo. La storia appare in una sorta di empasse se non di regresso. Si dispera, nonostante certi tentativi un po’ disperati, di far progredire i Paesi poveri e di avvicinare la pace. Al fondo di tutti questi movimenti, che ben conosciamo, c’è sostanzialmente una grande disperazione nella possibilità di rimediare la condizione di povertà e di sofferenza della maggior parte dei popoli e di riprendere un cammino di progresso nella storia.

    d) La crisi della morale laica. Parlando di crisi della morale laica non parlo tanto o soltanto di crisi della pratica morale, degli atteggiamenti morali, perché quella è sempre stata in crisi. È crisi di convinzione, di fondamenti. La morale laica, privata di un fondamento forte, di un principio assoluto, si riduce ad un’etica utilitaristica, ad un pluralismo di valori infondati, o fondati soltanto sul sentimento e come tali non hanno la forza che, per definizione, la norma morale deve avere. Se non ha una forza in sé non è una norma morale, è una norma giuridica, una norma di prudenza.

    e) Ultimo aspetto: siamo di fronte a una crisi del sapere, vale a dire, più precisamente, a una crisi dell’unità del sapere, che naturalmente è giustificata anche da aspetti positivi come l’articolazione, la specializzazione del sapere. Ma certamente una specializzazione e articolazione che portano a una dispersione assoluta e all’incapacità di fare unità. Siamo di fronte a una crisi della verità, del concetto di verità come guida del sapere. La verità non è più un criterio che guida il sapere e ci sono cadute pericolose anche sul piano dell’uso del sapere.
    Questo, molto in sintesi, è il secondo momento, quello della crisi dei capisaldi della cultura laica, che era sorta dalla secolarizzazione.

    3. Il tentativo di dare un senso positivo

    Anzitutto dobbiamo ricordare che sono momenti che si intrecciano. A questa crisi della cultura laica si è tentato e si tenta di dare un senso positivo. La presentazione che ho fatto è tutta in negativo e questo carattere di negatività è avvertito da molti laici.
    Peraltro, invece, proprio questa crisi è la condizione di un passaggio a un modo di essere, di pensare a una cultura diversa. Si tenta cioè di dare un senso positivo a questa crisi uscendo dai suoi presupposti, che erano questo ateismo, laicismo, questa cultura laica che aveva ancora una certa impronta di assolutezza, di verità, di pretesa di contrapporsi, come dotata di ugual forza, alla verità cristiana. Allora dall’ateismo e dalla cultura laica si passa al nichilismo e al neopaganesimo, che sono uno sviluppo di quell’ateismo, di quel laicismo che avevano costituito la prima reazione anticristiana della secolarizzazione.
    Di quale nichilismo parlo. Parlo di un nichilismo che non va confuso con il grande nichilismo ottocentesco, con il nichilismo eroico, che si rapportava al Cristianesimo e si contrapponeva credendo di avere la medesima forza. Parlo del nichilismo della banalità.
    Nichilismo banale è il nichilismo del nostro tempo. Nichilismo banale significa un tentativo, tutt’altro che eroico, di adattamento alla vita cercando di smussarne, eliminarne le contraddizioni. Ecco il nichilismo che si ispira, in una certa misura elaborandolo, a Nietzsche: a un Nietzsche del nostro tempo, perché Nietzsche aveva ancora un aspetto eroico, infatti era legato al nichilismo eroico dell’Ottocento. È un nichilismo che consiste in una generica bontà, ragionevolezza, in una convinzione che, eliminando il problema del male e della colpa, si risolvono i problemi. I problemi nascono non dal male o dalla colpa, ma dall’aver inventato il male e la colpa. Un nichilismo che, talvolta, si ammanta o si esprime in forme di religiosità, di religiosità debole si intende. Un nichilismo della quotidianità, dell’adattamento molle alla vita e alle sue pieghe. Un nichilismo che pensa sia avvicinabile la fine dei conflitti se non addirittura, come si diceva anni fa dopo la caduta del muro di Berlino, sia possibile avvicinarsi alla fine della storia. C’è qualcuno che ha pensato che con la caduta del muro di Berlino la storia fosse finita, nel senso che non c’è più alcuna meta ulteriore significativa. A questo nichilismo si può dare anche il nome di neopaganesimo e, talvolta, è inteso in questo senso prendendo il neopaganesimo come politeismo dei valori. Si dice che siamo in un’epoca neopagana perché come nel paganesimo c’erano tante divinità, ciascuna con una virtù, intelligenza, principio ..., così nel nostro tempo c’è un certo politeismo di valori. Come nel Pantheon venivano raccolte tutte le divinità del mondo conosciuto, così nella nostra società c’è una specie di Pantheon in cui possono convivere pacificamente divinità diverse, cioè principi e valori diversi.
    Talvolta il neopaganesimo viene declinato un po’ diversamente pensando ad una vera e propria difesa non tanto della religiosità pagana quanto dell’atteggiamento morale, cioè si pensa al neopaganesimo come effettiva fuoruscita dal Cristianesimo, nel senso del recupero di un atteggiamento sostanzialmente stoico di fronte alla vita, senza il carattere arcigno dello stoicismo, ma un atteggiamento di accettazione tranquilla e coraggiosa anche della finitezza, della morte. È anche significativo come nel nostro tempo ci sia un ritorno considerevole di studi o di interessi per il mito classico. Le pubblicazioni sul mito sono molto abbondanti e questa è una spia del tentativo di uscire dal Cristianesimo e dalla crisi della secolarizzazione cristiana attraverso un recupero di certi motivi dell’attività classica.

    4. Il fallimento dei tentativi di uscire dalla crisi della cultura laica

    Passo al quarto momento per esaminare alcuni aspetti di crisi o fallimento dei tentativi fatti per uscire dalla crisi della cultura laica. E riprendo i punti detti sopra.
    Il soggetto, che il nichilismo contemporaneo vuole felicemente indebolito, più che adattarsi all’indebolimento tende in molti casi ad esplodere. Il soggetto infatti situato fra un indebolimento e un’ipertrofia è un soggetto che non ha più misura e a cui vengono poste delle richieste sempre più alte. Si pensi a certi mondi dello spettacolo, dell’industria e anche a certi studi professionali a grandissimo livello, dove, mi dicono, non si può fare a meno della cocaina, perché le prestazioni sono tali che non si può rispondere ad esse se non assumendo droga. Si tratta di un’ipertrofia spaventosa del soggetto e d’altra parte una conseguente distruzione del soggetto stesso, che non riesce a reggere a questa sua dilatazione sregolata, a questa sua perdita di centro, di identità, di misura.
    La crisi della comunità politica, a cui accennavo e come facilmente vediamo, non trova uno sbocco soddisfacente. Si avverte la mancanza di norme adeguate alla vita singola e associata ed in fondo è per questo che certi richiami religiosi, certi interventi del Pontefice vengono ascoltati e non adottati, ma ascoltati con rispetto perché si avverte che non si hanno veramente delle proposte alternative.
    In terzo luogo parlavo della crisi del sapere, di un sapere liberato da principi forti, unitari, sistematici, un sapere che fa a meno della verità. Questo è un sapere che si disgrega e che viene strumentalizzato, che porta con sé una sfiducia nell’uso della ragione a causa della quale poi accade che la suprema razionalità scientifica conviva con l’irrazionalismo più sfrenato.
    Tutto ciò può sembrare una contraddizione. Come mai in un’epoca di estrema espansione della ragione scientifica c’è tanto irrazionalismo? Perché la ragione scientifica è privata del senso della verità e della fiducia nella ragione. Io credo che un’ipertrofia della ragione scientifica, che caratterizza il nostro tempo, abbia portato con sé una eliminazione dell’uso della ragione in quei campi o ambiti, che sono maggiormente importanti per l’uomo: l’ambito morale, religioso, filosofico. Credo che le più recenti Encicliche del Papa e gli ultimi interventi del Card. Ratzinger (penso a quello pubblicato su Micromega dell’anno scorso) siano estremamente importanti, e forse sono stati un po’ trascurati all’interno della cristianità. La difesa della ragione per non lasciare all’irrazionalità interi campi e interi ambiti, quelli fondamentali per la vita dell’uomo come l’ambito tecnico, esistenziale, religioso...
    Ci sono teorizzazioni esplicite, soprattutto in campo etico, secondo le quali l’etica non ha fondamento, perché fondata semplicemente sull’impulso, sul sentimento, ed è assolutamente ingiustificabile, indiscutibile, non trattabile razionalmente.
    Quarto punto. Mi sembra che questo progetto di nichilismo banale, come l’ho chiamato, fallisca. Infatti emerge un nichilismo forse più pratico che teorico, di tipo distruttivo e autodistruttivo. Penso ai fenomeni di disperazione che caratterizzano la nostra condizione sociale, penso al terrorismo che forse non è soltanto figlio del fanatismo, ma del fanatismo unito a un clima nichilista che ci attraversa.
    Detto questo molto schematicamente, anticipando il vostro impegno, vediamo come forse oggi la fede può rapportarsi a questa situazione. Se la situazione è questa, che cosa ha da dire la fede o come si deve muovere la fede in questo contesto? Se la mia diagnosi è giusta, vale a dire se siamo al di là di una semplice secolarizzazione, a me pare che sia impossibile pensare a una ricristianizzazione. Si è ormai troppo lontani dal Cristianesimo e non più su un terreno comune, a differenza di quello che accadeva al tempo del Concilio o subito dopo. D’altra parte il fatto che questo superamento – abbandono del Cristianesimo e della secolarizzazione – non riesca, significa che non vi è ancora, nella nostra cultura, neanche una completa estraneità al Cristianesimo. Ora, riflettendo su queste cose, mi chiedevo se proprio questa in fondo non sia una situazione paradossalmente privilegiata, nel senso che oggi il Cristianesimo si può presentare così come deve essere. Almeno questa è la mia convinzione e scusatemi se – non avendone l’autorità – mi permetto di avanzare qualche tesi rispetto alla natura del Cristianesimo e alla sua vocazione. Voglio dire che il Cristianesimo si presenta oggi finalmente così come deve essere: discontinuo rispetto al mondo; ma, d’altra parte, non del tutto irriconoscibile. Questa, secondo me, è la situazione privilegiata, perché il Cristianesimo ricupera la sua identità rispetto al mondo e alla cultura, ma d’altra parte non è del tutto irriconoscibile.
    Nella prima fase della secolarizzazione l’annuncio poteva presentarsi come integrazione o compimento dei valori umani, della cultura umana. Forse era possibile, prima, mostrare che l’agape compie l’amore, che la grazia compie la libertà, che la sapienza cristiana compie il sapere, che il regno di Dio è l’esito compiuto dalla giustizia sociale; ora, invece, credo che non si possa più dire che la cultura è anonimamente cristiana o cristianizzabile, ma invece si debba dire che è una cultura altra, che avverte peraltro la crisi della secolarizzazione.
    In questa situazione io credo che l’annunzio possa presentarsi come risposta non più a domande esplicite ma come risposta a domande nascoste. Come sorpresa che risponde ad un’attesa profonda ma che resta nascosta, come discorso “altro”, però non insignificante.
    A mio modo di vedere questo vuol dire (è una tesi discutibile, ma le cose generiche vanno bene per tutti) che oggi non c’è tanto bisogno di etica ma di un supplemento d’anima. C’è bisogno di escatologia e non di etica. Intendo sottolineare che quella escatologica è un’istanza che ci propone un’altra giustizia, un’altra verità, un’altra libertà rispetto a quella che ci possono offrire l’etica, il diritto, la politica, la ragione calcolata. Dire questo significa riconoscere, per usare un linguaggio paolino, che etica, politica, sapere appartengono all’ordine della legge e cioè sono certamente indispensabili per arginare il male, ma esauriscono le loro funzioni nel renderci consapevoli di esso senza poterlo vincere. La legge nasce dal peccato e lo manifesta, così come la conoscenza nasce dal disagio e dall’ignoranza dell’uomo e, come dice Qoelet, aumenta il dolore. Critica, politica e sapere, in quanto appartengono all’ordine della legge, sono una negazione del negativo e non un’affermazione del positivo.
    Questa è la barriera invalicabile, la differenza tra l’ordine etico-culturale e l’ordine escatologico. L’ordine escatologico pone il positivo mentre l’etico, la politica, il sapere pongono soltanto la negazione senza con ciò portare al positivo. Naturalmente perciò l’annuncio cristiano può partire di lì, dall’etico, dal politico o dal sapere. Li presuppone ma non ha lì il suo contenuto e nemmeno ha il compito di completare i contenuti: deve fare un discorso “altro”. L’annuncio cristiano non può più porsi come coronamento, completamento, integrazione perché soprattutto oggi si accorge che può parlare, può essere significativo soltanto facendo un discorso “altro”, nel senso paolino, in contrapposizione tra legge e grazia.
    Ora credo che si debba constatare con una certa amarezza che l’escatologia continua ad avere nella formazione cristiana e nell’annuncio cristiano un posto troppo marginale, soverchiato com’è, appunto, dall’etica, dalla sociologia, dalla politica o da altre cose.
    Ha un posto marginale e praticamente avverte o indica semplicemente un aldilà che poco ci riguarda. È in fondo, nella cultura del nostro tempo, il tema cristiano più svilito.
    Qualche mese fa mi è capitato di sentire una trasmissione televisiva in cui un comico imitava un predicatore apocalittico, che prevedeva la fine del mondo. Questa trasmissione era, a mio modo di vedere, tragicomica, ma era comica perché il tema escatologico è così svilito da apparire comico. Devo dire, con una certa sorpresa, che non ho trovato reazione alcuna a questo tipo di trasmissione. Se una certa trasmissione televisiva tocca – mi si consenta – qualche personaggio ragguardevole della Chiesa allora si levano gli scudi; se si deride l’escatologia è una cosa ormai normale. E questo mi fa pensare. Il considerare l’escatologia in questo modo credo possa riassumere tutta la vicenda culturale che ho tentato di descrivere. La speranza cristiana, l’escatologia sono state secolarizzate dalla cultura laica. In questo primo momento l’escatologia è stata sostituita dal progresso, dalla storia come progresso quando non addirittura dallo Stato perfetto, giusto, e poi ha lasciato un vuoto. Caduti questi miti, questi principi della cultura laica è rimasto un vuoto terribile, grandissimo. Resta allora un presente che ha fame di futuro ma non ha futuro e di qui, credo, nascano quei fenomeni di ripiegamento, di rinuncia, di distruzione e autodistruzione a cui accennavo già prima.
    Penso a un fenomeno come quello degli “squatters”, dove il nichilismo, l’assenza di futuro è programmatica. Si distrugge perché si sa che il futuro non c’è. Si agisce in un presente senza futuro. Noi cristiani, che abbiamo portato la speranza e l’annuncio del Regno, siamo ovviamente i più responsabili in questa situazione, perché non si possono lanciare messaggi senza essere poi capaci di sorreggerli. Noi cristiani abbiamo la responsabilità di aver lanciato questi messaggi e di non averli testimoniati, di averli nascosti, sviliti. A maggior ragione noi cristiani abbiamo il dovere di riproporli oggi, mettendoli in primo piano di fronte al panorama di disperazione in cui ci troviamo.
    Naturalmente per fare questo dobbiamo forse ridurre un’obiezione che tra di noi può sorgere facilmente, che predicare l’escatologia è un’evasione. Credo che predicare l’escatologia non sia un’evasione ma significhi dare senso alle cose, porre dei segni di anticipazione del Regno, quindi essere concreti. Significa affrettare la venuta del Regno, significa avere punti di riferimento che illuminino tutto il nostro fare.
    Vorrei concludere questo discorso con una citazione di un filosofo ebreo che amo, che parla non della fede ma della filosofia, ma ne parla in termini che per me sono di guida, di illuminazione e vorrei che i credenti, sostituendo filosofia con fede, dicessero le stesse cose. Dice Adorno, nell’opera intitolata “Minima moralia”: “La filosofia (potremmo dire la fede), è il tentativo di considerare tutte le cose come si presenterebbero dal punto di vista della Redenzione”.


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