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    Chiamati alla corresponsabilità

    Una chiesa sinodale: fare strada insieme

    Roberto Repole

     


    Nei due interventi di questo pomeriggio proverò dapprima a riflettere sul senso del "camminare insieme" nella chiesa da un punto di vista espressamente teologico, e in un secondo momento, anche sulla base di ciò che sto studiando e cercando di elaborare, cercherò di delineare il significato specifico della presenza laicale all'interno del camminare insieme della chiesa.
    Come è stato detto nell'introduzione, lo sfondo di questa riflessione è costituito dai testi delle Scritture (soprattutto il Nuovo Testamento), dalla cultura in cui siamo inseriti, e dal Concilio Vaticano II. Ritengo il Concilio Vaticano II fondamentale, perché, per quel che riesco a capire, non c'è un momento più grande nella vita della chiesa di quello in cui la chiesa stessa si esprime a livello di concilio.
    Da questo punto di vista mi sembra pericoloso voler mettere in discussione l'autorevolezza di un concilio, e soprattutto l'autorevolezza del Concilio Vaticano II, che ha messo a tema della sua riflessione, per la prima volta, la chiesa. Karl Rahner, un grande teologo del secolo scorso, diceva che il Vaticano II è stato il primo concilio della chiesa sulla chiesa.
    Mi muoverò in questo orizzonte per provare a delineare il senso di un camminare insieme nella chiesa in prima battuta e, in seconda battuta, il senso della presenza laicale in questo contesto.

    Il senso del camminare insieme nella chiesa: la sinodalità

    Nel settembre del 2005 si è svolto in provincia di Padova un congresso nazionale dell'Ati, Associazione Teologica Italiana, che aveva come tema: Chiesa e sinodalità: coscienza, forme e processi. Se si è svolto questo congresso nazionale attorno a tale tema, è perché evidentemente i teologi sentivano che quello del "camminare insieme" era un problema centrale e che occorreva rivitalizzare il senso della sinodalità, della corresponsabilità all'interno della chiesa, un concetto che non era poi così scontato neppure a livello teologico.
    Senza rimanere vittime di quella che chiamerei "la sindrome del colpevole", che ci obbliga ad individuare sempre il responsabile di un problema (e dunque a fuggire dal problema stesso), credo che si possa dire con certezza che oggi, rispetto agli anni immediatamente postconciliari, la coscienza sinodale si è molto allentata. I motivi possono essere molteplici, dalla fatica da parte di alcuni di dare realmente la parola ad altri, alla fatica di prendere la parola con coraggio da parte di molti per assumersi fino in fondo le proprie responsabilità, all'interno della chiesa.
    Francamente non penso che la responsabilità sia unilaterale, probabilmente è ugualmente diffusa. Sta di fatto che l'allentamento di una coscienza sinodale appare evidente.
    Qualcuno ha rimarcato che l'esercizio di una prassi sinodale confermata dall'insegnamento del Vaticano II "lascia spazio a diffuse insoddisfazioni. Basti pensare alle questioni legate alle grandi strutture sinodali, come il sinodo dei vescovi (che cos'è? di che cosa discute?), le conferenze episcopali, ma, in modo più immediato, l'evidente crisi dei cosiddetti organi di partecipazione ecclesiali, consigli pastorali diocesani, parrocchiali, consigli presbiterali, che rallenta non poco lo spirito e l'azione di corresponsabilità di tutto il popolo di Dio".
    Il problema, quindi, non è fittizio. Ma dobbiamo cercare di capire perché l'allentamento di una coscienza sinodale è problematico o, detto in termini più positivi, qual è il senso di un camminare insieme all'interno della chiesa.

    I valori della democrazia

    Da un punto di vista di riflessione pratica, si coglie molto facilmente che, almeno nei nostri paesi europei e occidentali, il cristiano è abituato a vivere come cittadino di uno stato democratico e che questo incide sul modo in cui vive la dimensione sociale.
    Il cristiano qui in Occidente è abituato a sentir dibattere e a dibattere le questioni di pubblico interesse, ad esprimere il suo parere in determinate circostanze, anche andando a votare, ed è cosciente del fatto che sia un vantaggio potersi esprimere. È abituato a scegliere, per quel che è oggi possibile, i suoi rappresentanti. Nell'ambito lavorativo è abituato a prendersi delle responsabilità e ad esprimere un suo parere, tanto più accreditato, quanto maggiori sono le sue competenze. Non solo: quando vive tutte queste dimensioni da cristiano, dicendo il suo parere nella vita democratica, votando, facendosi votare all'occorrenza, assumendo delle responsabilità in ambito lavorativo, ecc., pensa di conformare la sua vita a Gesù Cristo. Se non lo pensasse, sarebbe uno schizofrenico, in quanto relegherebbe il suo essere cristiano ad un'infima parte della sua vita.
    Ma un cristiano che vive così non può non avvertire che ciò che di buono respira a livello della vita civile, possa e debba essere vissuto come una ricchezza sensata e legittima anche all'interno di quella comunità specifica che è la comunità cristiana. Tanto più che, mentre il nascere in un certo stato determina la nostra appartenenza ad un dato ordine democratico, il fatto di essere cristiani lo si dovrebbe scegliere (è vero che noi siamo ancora abituati a nascere cristiani...). Se nella società civile sentiamo che certi comportamenti sono dei valori, dovrebbero essere percepiti come valori anche nell'altra comunità che è la comunità cristiana.
    Dunque già la prassi in cui viviamo rende ragione della ricerca di un perché sia necessario un cammino sinodale all'interno della chiesa.

    Inculturazione e atteggiamento critico sulla base del Vangelo

    Ma, andando più in profondità, mi sembra che rintracciare un nesso tra prassi sinodale e cultura democratica sia pertinente anche a livello di una riflessione espressamente teologica. Anche se, entrando in questo tipo di riflessione, dobbiamo evidenziare la singolarità, l'unicità, la particolarità di quel camminare insieme nella comunità cristiana che non è immediatamente sovrapponibile a quello delle democrazie occidentali.
    C'è comunque una sensatezza teologica anche nel dire che la democrazia in cui, grazie a Dio, siamo abituati a vivere, interpella anche la chiesa. La chiesa non vive nell'iperuranio, ma è una comunità di uomini, che vive calata nella storia. E dunque, in Occidente, la chiesa non può vivere se non abitando la cultura democratica, e prendendo in seria considerazione il fatto che è all'interno di questa cultura che nasce l'attesa di Cristo. In altri termini la Chiesa non può vivere se non "inculturandosi" in una società, in un mondo, in una data cultura, che respira, in Occidente, anche i valori della democrazia.
    Ma qui cominciano a nascere i problemi (i teologi sono fatti per complicare le cose apparentemente semplici!). Se l'inculturazione della chiesa fosse semplicemente l'adeguamento ad una cultura, allora la chiesa smarrirebbe la sua identità. Detto in altri termini, la chiesa oggi qui in Occidente non può che vivere e abitare società democratiche, ma se si appiattisse soltanto sulla cultura non sarebbe più chiesa.
    Un testo della Lumen Gentium, al n° 13, dà un quadro molto profondo di quello che significa per la chiesa inculturarsi in qualunque cultura: "Siccome il regno di Cristo non è di questo mondo (cfr. Gv 18,36), la Chiesa cioè il popolo di Dio che prepara la venuta di questo regno, nulla sottrae al bene temporale di qualsiasi popolo, ma al contrario favorisce e accoglie tutte le risorse, le ricchezze e le forme di vita dei popoli in ciò che esse hanno di buono e accogliendole le purifica, le consolida e le eleva." L'inculturazione, cioè, avviene attraverso un processo di discernimento, che permette di accogliere e potenziare, ma anche di purificare e di elevare quelle dimensioni che vengono dalla cultura. Se non fosse così, basterebbe la cultura e non ci sarebbe bisogno della chiesa.
    Questo è estremamente significativo quando si riflette sul rapporto tra la chiesa e la cultura democratica di oggi. Oltre a favorire e accogliere tutti quei valori insiti nella cultura democratica, la chiesa deve anche esprimere una rottura rispetto a ciò che di questa stessa cultura non è autenticamente evangelico, come tutte quelle negatività che oggi si rendono evidenti anche all'interno della vita democratica.
    La sinodalità tipica della chiesa dovrebbe incalzare la società civile, "inquinare" positivamente la nostra vita democratica, ad esempio laddove è così unilateralmente rimarcato il valore delle singole posizioni da far perdere di vista il quadro di unità, o laddove lo scontro esacerbato e urlato tra posizioni personali impedisce un vero dibattito e confronto tra idee e valori che dovrebbero contrassegnare le varie forze politiche
    Quindi la chiesa, nel suo "camminare insieme", deve inculturarsi, accogliendo tutti gli aspetti buoni che vengono da quella democrazia in cui i cristiani vivono la loro vita civile, senza appiattirsi su quella cultura. Al limite deve esprimere anche delle rotture, in tutto ciò che stride con il vangelo, come quando le moderne democrazie, nel processo di globalizzazione in corso, rischiano di produrre degli "scarti umani", o come nell'enorme strapotere dell'economia nelle nostre democrazie. Lo denunciava profeticamente già nel 1991 Giovanni Paolo II nell'enciclica "Centesimus annus", nel rilevare gli aspetti negativi del capitalismo sfrenato che va a braccetto con le nostre democrazie occidentali.
    Quindi l'inculturazione della chiesa non può avvenire acriticamente, tanto di più che, se un camminare insieme della chiesa ha senso, questo dovrebbe potersi realizzare al limite anche in culture non democratiche, ad esempio in contesti di monarchia o di tirannia, dove la chiesa dovrebbe esprimere una alterità.

    Radici ecclesiali della sinodalità: tutti i cristiani sono dimora del Dio di Gesù Cristo

    Siamo allora condotti a considerare la singolarità, l'unicità, di quella realtà sociale che è la chiesa, per capire in che senso il camminare insieme e la corresponsabilità non nascano soltanto dal confronto, pur fondamentale, della chiesa con le democrazie attuali.
    Se nella chiesa è essenziale il discernimento comunitario, l'ascolto reciproco, la possibilità di esprimere il proprio parere da parte di tutti i soggetti ecclesiali, preti, religiosi, laici, e all'occorrenza il decidere insieme (evidentemente non sulle grandi questioni della fede), la radice di questa dimensione essenziale è nell'essere stesso della chiesa.
    Il Vaticano II, infatti, presenta la chiesa come mistero. Tra le altre cose, questo significa che la chiesa è il luogo della presenza del Dio uni-trino, è il popolo di Dio Padre, è il corpo di Cristo, è il tempio dello Spirito Santo. Tutta la chiesa, e dunque tutti i soggetti ecclesiali, tutti i cristiani, sono diventati dimora del Dio di Gesù Cristo: in questo risiede la radice più profonda del fatto che il camminare insieme costituisce un aspetto essenziale dell'essere della chiesa.
    Con l'affermazione "la chiesa non è una democrazia" non si intende dire che nella chiesa non si possono ricercare i valori del dialogo, del confronto, di scelte condivise, cioè quei valori che vivibili in democrazia. Con quell'affermazione si vuol affermare invece che la chiesa non può semplicisticamente essere omologata ad una democrazia, perché è qualcosa d'altro, che ha addirittura la pretesa di essere "di più", non "di meno", della democrazia stessa.
    La chiesa non è una democrazia, non per difetto, ma per eccesso. Non è neppure una monarchia, né una oligarchia. L'identità della chiesa non può essere omologata a quella di qualunque altra società perché, come dicevo, la chiesa è il popolo di Dio, il corpo di Cristo, il tempio dello Spirito Santo. È quel soggetto collettivo, quella società, che è dimora di Dio.

    Pari dignità di tutti i battezzati, ciascuno con un proprio carisma

    La stessa Lumen Gentium, tra luci e ombre (essendo i documenti del Concilio frutto anche di compromessi), pur non offrendo un organico e articolato programma di strutturazione di una prassi sinodale ai diversi livelli della vita ecclesiale, ha tuttavia fornito alcune prospettive ecclesiologiche che spingono nella direzione di camminare insieme nella chiesa. È così, ad esempio, quando parla della pari dignità di tutti i battezzati, in quanto tutti ugualmente appartenenti al popolo di Dio: "Vige tra tutti una vera uguaglianza riguardo alla dignità e all'azione comune di tutti i fedeli nell'edificare il corpo di Cristo" (Lumen Gentium 32).
    Una uguaglianza nella dignità e nell'azione comune non può essere realmente creduta e sostenuta senza la ricerca altrettanto reale di un'autentica corresponsabilità e di strutture concrete che possono garantirla.
    Lo stesso si può dire ed evincere dal fatto che la chiesa, in Lumen Gentium 7, viene pensata come il corpo di Cristo, all'immagine del quale - Cristo - devono conformarsi tutte le membra, nelle quali a tal fine opera lo Spirito Santo come principio vivificante e dispensatore in ciascuno dei suoi doni per l'utilità ed il bene comune.
    Stando così le cose, non si può pensare ad una chiesa dove non sia normale un regime di ascolto reciproco, nell'intento di riconoscere e discernere ciò che lo Spirito sta dicendo alla chiesa, anche attraverso il riconoscimento e il discernimento dei diversi doni che lo Spirito fa ad ogni cristiano.
    Come si ascolta la voce dello Spirito nella chiesa?
    Poiché crediamo che lo Spirito parli alla Chiesa e poiché, dopo gli apostoli, non c'è una ispirazione diretta di Dio, il discernimento della voce dello Spirito non potrà che passare da un ascolto di tutti coloro che compongono la chiesa.
    Da questo punto di vista mi sembra molto puntuale l'osservazione di Dianich, il quale afferma che, dato che nessuno appartiene al corpo di Cristo (cioè alla chiesa) senza avere il dono dello Spirito, oggettivamente, per il fatto di essere battezzati, lo Spirito si è posato su di noi. Da questo deduce che ci deve essere una presunzione in favore dei carismi, giacché la condizione carismatica del cristiano è connaturale ad ogni esperienza credente.
    Dopo il Concilio Vaticano II siamo abituati a parlare dei carismi per lo più a proposito dei movimenti e di alcuni cristiani (i carismatici). Ma giustamente Dianich richiama il fatto che, se il carisma, teologicamente, ha a che fare con il dono dello Spirito, in quanto cristiani, in quanto abitati dallo Spirito, ognuno di noi detiene un carisma.
    Bisognerà poi chiarire di che cosa si tratta per evitare di confonderlo con qualche fissazione o qualche idea che ci mettiamo in mente noi...
    Se pensiamo, dice Dianich, che il carisma ha a che fare con il dono dello Spirito Santo ai cristiani, in quanto appartenenti al corpo di Cristo, dobbiamo avere la presunzione che il carisma ci sia per tutti. Questo significa evidentemente che l'ascolto dei doni dello Spirito non può che passare dall'ascolto di coloro che appartengono alla Chiesa.

    In gioco è il volto del Dio di Gesù Cristo

    In altri termini, la necessità di camminare insieme nella Chiesa, prima di essere una questione meramente ecclesiologica, è probabilmente una questione teologica. Cioè ne va, potremmo dire, della generosità di Dio, e ne va del modo in cui Dio si rende presente all'interno della Chiesa. Se queste cose sono vere, non è semplicemente una questione di come pensiamo la chiesa, ma di come pensiamo la chiesa a partire dall'idea di Dio che abbiamo. Ed è su questo punto che svolgerò la parte finale, con l'aggiunta di alcune postille conclusive.
    Non si darebbe la necessità di camminare insieme nella Chiesa se l'unità fosse pensata come uniformità o come aggregato di insanabili diversità e quindi come frantumazione e dispersione.
    Ma il fatto che noi pensiamo nella Chiesa a una unità nella diversità e a delle diversità che sono chiamate a convergere in unità, dipende in ultima analisi dal modo in cui si realizza la relazione tra Dio e gli uomini nella Chiesa. Se c'è la necessità di una unità nella diversità che richiede il camminare insieme (corresponsabilità, ascolto reciproco...), questo dipende dal modo in cui pensiamo la relazione tra Dio e gli uomini all'interno della Chiesa. Questa relazione infatti non può essere pensata prescindendo dalla libertà e dalla trascendenza di Dio e dalla libera risposta degli uomini.
    E' quanto metteva in luce già molti anni fa un grande teologo del '900, Yves-Marie Congar chiarendo il senso teologico, più profondo, della necessità di un camminare insieme (che non è una questione organizzativa e neppure prima di tutto ecclesiologica, ma ecclesiologica in quanto teologica, perché ne va del modo in cui noi concepiamo il rapporto tra Dio e gli uomini all'interno della Chiesa).
    Scriveva Congar:
    "La riduzione della unità alla uniformità è esclusa (nella Chiesa) sia dalla parte di Dio, causa efficiente e suprema della Chiesa, sia dalla parte degli uomini, soggetto recettore o causa materiale di questa stessa Chiesa, una Chiesa che è la Chiesa della Trinità e la Chiesa degli uomini."
    Da parte di Dio perché? "Egli - Dio - non agisce per necessità come una causa fisica determinata, ma liberamente. Si tratta della sua grazia, egli distribuisce come vuole i suoi doni. Egli è trascendente e non può essere rappresentato e riflesso sia pure nella sua unità se non da una pluralità di partecipazioni in una diversità che concorre a una unità più ricca."
    Questo è fondamentale: non soltanto è libero nel distribuire i suoi doni, ma è trascendente. E la prospettiva di questa trascendenza di Dio, di questo Dio che è sempre più grande, sempre al di là, si conserva nel fatto che a rappresentarlo non è un individuo, ma un soggetto fatto da diversi soggetti.
    Entriamo davvero nel senso teologico, più profondo, di un camminare insieme. Non è un caso che la dimora di Dio non sia un singolo, ma sia un soggetto collettivo che è la Chiesa.
    Riprendo la citazione:
    "Lo stesso da parte degli uomini, perché Dio non li tratta come cose, ma come persone libere quali sono. Si tratti delle persone individue (ciascuno di noi) o di quelle personalità morali (un gruppo, una parrocchia...) così reali come sono le comunità umane naturali, i popoli, i doni di Dio, anche supponendoli identici alla sorgente e nella loro natura, sono ricevuti in soggetti vivi che hanno una storia e un'anima propria." Quand'anche supponessimo, per assurdo, che Dio facesse a ciascuno di noi lo stesso dono, per il fatto che noi siamo persone libere, reagiremmo diversamente al dono di Dio, manifestando così la nostra diversità.
    Dunque l'unità plurale della Chiesa è frutto del fatto che la Chiesa scaturisce dall'incontro del Dio di Gesù Cristo con gli uomini. E che la Chiesa è come diceva un altro grande teologo dell'altro secolo, De Lubac,"luogo di incontro dei desideri dell'uomo e dei desideri di Dio."
    Il Dio di Gesù Cristo non può essere pensato come una cosa. Egli va pensato come vivente, e dunque libero, attivo nel rapportarsi agli uomini. È lo stesso Dio di tutti che intrattiene però con ciascuno un dialogo unico, singolare ed irripetibile, e a ciascuno fa i suoi doni, unici, singolari, irripetibili.
    Inoltre questo Dio è trascendente. E la sua trascendenza non potrebbe essere salvaguardata se il riflesso di Dio fosse un cristiano solo e non invece una comunità. Solo sul volto della Chiesa si riflette la luce di Dio. "Lumen gentium cum sit Christus...": essendo Cristo la luce delle genti... La luce si riflette su un soggetto collettivo che è la Chiesa.
    Però viventi sono anche gli uomini con cui Dio entra in relazione. I doni che ognuno riceve operano in lui, chiedono una sua reazione, dunque una risposta personale, libera. E da questo incontro deriva che siamo uniti, ma in una diversità strutturante.
    Se questo è vero, il camminare insieme nella Chiesa è il "riflesso ecclesiologico" del modo in cui Dio intrattiene il suo dialogo con gli uomini all'interno della Chiesa.
    Allora traggo una conseguenza più decisa e radicale: una chiesa in cui non si praticasse il dialogo, in cui non si fosse alla ricerca dei doni che lo Spirito ha effuso su ciascuno, in cui non ci fosse la capacità di valorizzare le competenze che si sono accumulate, in cui all'occorrenza non si desse anche una responsabilità condivisa, sarebbe una chiesa con un problema all'apparenza di tipo ecclesiologico, ma più profondamente di tipo teologico. Quale volto di Dio può manifestare quella Chiesa in cui tali aspetti non siano praticati?
    Lo possiamo dire in modo ancora più semplice: non è un problema solo di come noi ci troviamo nella Chiesa, ma di quale Dio, attraverso ciò che siamo, viene annunciato dalla Chiesa.
    Allora siamo davanti a un problema non soltanto di struttura o di organizzazione, ma del volto di Dio che la chiesa in quanto tale è chiamata a manifestare. Questo vale non solo per i laici, ma anche per tutti i soggetti ecclesiali. Ogni tanto si sente dire che "un prete vale l'altro": mi sembra una sorta di fesseria! Infatti ciascuno è diverso, sulla base dei doni che ha ricevuto, di come li ha fatti fruttare, del suo dialogo intimo con Dio...
    Se le cose stanno così, forse c'è da chiedersi se le insoddisfazioni che si possono avere oggi su una prassi sinodale, che si riverberano per esempio nella crisi degli organismi di partecipazione all'interno della Chiesa, non siano tanto un problema organizzativo o ecclesiologico, ma rivelino una mancanza di fede nella forza di un Dio libero e trascendente che vuole intrattenere un dialogo libero con gli uomini. Alla radice del problema sta quindi una certa immagine di Dio.

    Il diritto condizione necessaria ma non sufficiente

    È evidente che il recupero così profondo di un senso teologico del camminare insieme nella chiesa deve poter rifluire in alcune scelte pratiche. Più ancora, direi, deve fare i conti con il diritto nella vita della Chiesa. Faccio degli esempi concreti. Non si può parlare di autentica corresponsabilità nella Chiesa, se poi la responsabilità civile ultima è sempre del parroco, del vescovo, ecc. Se non vogliamo fare solo retorica, occorre una prassi sinodale che arrivi anche a certe forme di responsabilità in alcuni ambiti. Questo non significa semplicemente che dobbiamo tutti coltivare il piccolo orticello del campanile, perché la chiesa è immersa nel mondo e dunque c'è una corresponsabilità che va al di là di quello che facciamo il sabato pomeriggio intorno al campanile... Ma è evidente che tutti questi discorsi rimangono vuoti, se non si intersecano con il modo in cui codifichiamo il nostro stare insieme. Da questo punto di vista il diritto è fondamentale, ed anche un dialogo tra teologi e canonisti, affinché queste cose "prendano carne".
    Però credo che il migliore dei diritti possibili anche nella chiesa sia condizione necessaria ma non sufficiente perché si pratichi un camminare insieme che sia capacità di dialogo, di ascolto reciproco, di discernimento comunitario, di corresponsabilità.

    Un cammino continuo di conversione

    Il diritto è condizione necessaria ma non sufficiente. Lo dimostra questa stagione postconciliare. Non è vero che non abbiamo degli strumenti. Li abbiamo, ma possiamo usarli in modo diverso con esiti contrastanti. Ad esempio, c'è un consiglio presbiterale in ogni chiesa locale, ma non è detto che un vescovo lo usi bene. Si dice che gli organismi hanno scarso senso perché soltanto consultivi. Invece la consultività dei meccanismi di partecipazione sta ad indicare proprio che si deve restare nel crogiuolo del dialogo fino a che non si riesce ad avvicinarsi il più possibile all'unanimità. È una lettura distorta quella secondo la quale gli organismi di partecipazione nella chiesa sono consultivi e quindi di nessun peso. Sono consultivi nel senso che la chiesa ha la giusta ambizione di essere diversa dalla democrazia, dove si vince anche con un solo voto in più, e chi ha perso ha perso. Gli organismi sono consultivi, perché, se ciascuno è dotato dello Spirito, coloro che fanno parte della comunità restino nella pazienza di un dialogo fino ad arrivare il più vicino possibile, per quanto è permesso alle cose umane, a una unanimità. In questa prospettiva tutto cambia.
    Come dicevamo prima, il diritto è condizione necessaria, ma non sufficiente: perché un camminare insieme così descritto, in questa profondità, si possa realizzare a mio parere è necessaria una conversione di tutti. Prima ancora che di ordine giuridico, il problema mi sembra di ordine spirituale. Di tutti. Perché, al di là delle facili rivendicazioni (i laici se la prendono coi preti, i preti coi vescovi, i vescovi col papa, e ognuno può prendersela con qualcun altro...), a me pare che ciò che è problematico è il saper riconoscere che in ogni altro compagno di credenza io sono sempre costantemente chiamato non ad esprimere il mio pregiudizio, ma ad avere un pregiudizio in favore del carisma.
    Chi è capace di questo? E' necessario un continuo cammino di conversione.

    Il senso della presenza laicale

    Nell'orizzonte che abbiamo ora delineato, vorrei parlare più specificamente dei cristiani laici all'interno di una chiesa chiamata ad essere tale anche nel camminare insieme.
    Proverò a delineare il senso della parola "laici" o "laicato" (che qualcuno ha criticato), a problematizzare ciò che in genere si dice e cioè che i laici dovrebbero occuparsi delle cose del mondo (come se i non-laici non dovessero occuparsene...).
    Proverò a fare tutto questo alla luce del Vaticano II e del dibattito che c'è stato dopo il Concilio, per arrivare a presentarvi la posizione a cui sono giunto nella mia riflessione, e che fa da guida in questo mio percorso.
    Il teologo Giacomo Canobbio, in un testo sui laici, che parla del Concilio Vaticano II come del concilio dei laici. In effetti è la prima volta che un concilio dedica tanta attenzione a questa figura di cristiano. Si può anzi dire che il laicato occupa un posto privilegiato nel corpus dottrinale del concilio.
    Ma non si comprenderebbe il posto offerto dai testi conciliari alla riflessione sul laicato se ci si concentrasse soltanto su quelli che ne parlano esplicitamente. In altri termini, ci si rende conto della grande portata che il tema del laicato ha avuto all'interno del Concilio Vaticano II solo se si prendono in considerazione tutti i testi, anche quelli che non parlano direttamente dei laici.

    Prima delle distinzioni, tutti cristiani con pari dignità

    Tra questi certamente c'è il capitolo II della Lumen Gentium che già abbiamo citato. La Lumen Gentium tratta della Chiesa, e comincia dicendo che la chiesa è un mistero, che ha a che fare con il grande disegno di Dio di salvare l'umanità intera. La chiesa pertanto è il luogo della presenza di Dio, del Dio di Gesù Cristo. Ma nel secondo capitolo, nel mostrare la forma che prende questo mistero quando si realizza nella storia, dice che la chiesa è il popolo di Dio. E il fatto che questo secondo capitolo sia stato posto subito dopo quello sul mistero della chiesa, e prima di quello sulla gerarchia, è di fondamentale importanza proprio in riferimento ai laici. Parlando infatti di popolo di Dio si parla di tutti i cristiani, non solo di alcuni.
    Premettendo il capitolo sul popolo di Dio a quello sulla gerarchia si dice fondamentalmente che prima delle distinzioni, dei ministeri, degli incarichi che si assumono all'interno della Chiesa, ciò che è fondamentale è che tutti siamo cristiani e con pari dignità, per il fatto che tutti siamo chiamati a conformarci a Gesù, visto dal Concilio come pastore, re e profeta.
    Il Concilio poi fa un'altra affermazione, fondamentale per comprendere il suo pensiero sui laici e cioè che la chiesa, popolo di Dio, è il sacramento posto nel mondo, è il sacramento, cioè il segno, che dice, anticipa, e anche realizza il disegno di Dio, che è un disegno di salvezza per tutti. E proprio per questo la chiesa-popolo di Dio è strutturalmente missionaria. Queste sono dimensioni fondamentali dette di tutti i cristiani e dunque anche dei laici. Perché non si può essere cristiani se non sentendo che si ha tutti la stessa dignità, in quanto partecipi di Cristo, e che si ha tutti, in quanto cristiani, un'unica responsabilità, che è quella della missione della Chiesa.

    L'indole secolare come specificità laicale: tensioni tra i documenti

    Poi il Concilio, trattando della specificità di ciascun soggetto ecclesiale, quando parla dei laici, presenta, per usare un'espressione evangelica, "cose antiche e cose nuove".
    Tra le cose antiche c'è il decreto esplicitamente dedicato ai laici, Apostolicam actuositatem. Vi cito alcune frasi del capitolo 7 per farvi cogliere quelli che, a mio parere, sono gli aspetti problematici di questa visione. Dopo aver affermato che è compito di tutta la chiesa operare affinché gli uomini siano resi capaci di ben costruire tutto l'ordine temporale e di ordinarlo a Dio per mezzo di Cristo, così distingue il compito dei pastori da quello dei laici:"È compito dei pastori enunciare con chiarezza i principi circa il fine della creazione e l'uso del mondo, dare gli aiuti morali e spirituali affinché l'ordine temporale venga instaurato in Cristo. I laici devono assumere il rinnovamento dell'ordine temporale come compito proprio e in esso, guidati dalla luce del Vangelo e dal pensiero della Chiesa e mossi dalla carità cristiana, operare direttamente e in modo concreto"
    Perché questo testo fa problema rispetto a quanto si diceva prima? Primo, perché sembra che ci sia una parte di chiesa, cioè la gerarchia, non coinvolta nelle cose del mondo, il che è assolutamente fittizio. Secondo, perché sembra che le cose del mondo non tocchino la chiesa direttamente, e che i laici operino nella realtà del mondo quasi come una forma di intermediazione tra il mondo e la chiesa.
    Di diverso tenore è invece il capitolo IV della Lumen Gentium che parla esplicitamente dei laici. Di particolare interesse è il n° 31 dove si dice che "Il carattere secolare è proprio e peculiare dei laici", ma nella consapevolezza che i laici "per la loro parte compiono nella chiesa e nel mondo la missione propria di tutto il popolo cristiano". È nell'orizzonte di una missione unica della chiesa, comune a tutti i cristiani, che i padri conciliari cercano la specificità dei laici, che è vista nell'indole secolare, propria e particolare dei laici. Con questo intendono dire che, per loro vocazione, sarebbe proprio dei laici "cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio". I laici cioè sono quei cristiani che, non uscendo dalle cose del mondo, devono vivere trattandole, quasi dall'interno come fermento, secondo il Regno di Dio.
    Questo è fondamentale, per l'immagine di chiesa che ne ricaviamo, dove si chiarisce che tutti hanno la stessa dignità, ma anche delle differenze, delle specificità.
    Di tenore più o meno uguale è un altro documento importante, Gaudium et Spes, che al punto 43 parla dei laici sulla stessa linea di Lumen gentium.
    Sinteticamente, si può dire che il Concilio parla dei laici in una duplice cornice. In prima battuta, nell'orizzonte di una chiesa vista come popolo di Dio, il laico è anzitutto un cristiano, che gode della dignità e della responsabilità di tutti i cristiani (a prescindere dal modo concreto in cui vive questa dignità e questa responsabilità). In seconda battuta, quando, specificando il modo proprio in cui i laici appartengono alla chiesa, sono popolo di Dio, cioè cristiani, i testi conciliari rintracciano questa specificità nell'indole secolare. Questo però porta, secondo il decreto Apostolicam actuositatem, a una sorta di separazione dei compiti, mentre può alludere a un modo proprio anche se non esclusivo, come nel caso di Lumen Gentium 31 (cap. IV).
    Ho citato brevemente alcuni testi conciliari per mostrarvi che già in quei documenti riscontriamo qualche tensione non risolta. E anche nel dibattito post-conciliare, che De Giorgi dichiarava essere stato vivo negli anni immediatamente successivi al concilio, avete visto che ci sono state tesi diverse, a seconda delle prospettive che già nel concilio erano apparse.

    Una chiesa tutta ministeriale

    Negli anni 70, quindi qualche anno dopo la chiusura del Concilio, Yves-Marie Congar, riprende il tema dei laici, di cui aveva già scritto negli anni preconciliari. Proprio alla luce dei testi conciliari e proseguendo nella direzione da loro indicata, occorre, secondo il teologo domenicano, pensare ad una chiesa tutta ministeriale, dove ciascuno vive un ministero (un servizio). Non soltanto i preti e i vescovi, ma tutti. Si supera così una visione di chiesa secondo lo schema: "Cristo - gerarchia - laici", a favore dello schema di chiesa: "Cristo - comunità cristiana", dove ciascuno vive un ministero.
    Questa visione ebbe anche un'eco in un importante documento di Paolo VI, del 15 agosto 1972, Ministeria Quaedam, cioè "sui ministeri", in cui si modificava l'itinerario per diventare preti. Nel presentare il cambiamento di questo itinerario, si affermava che i cosiddetti "ordini minori", il lettorato (il poter leggere la Parola di Dio in chiesa) e l'accolitato (il poter servire) non erano appannaggio di quelli che sarebbero diventati preti, ma erano dei ministeri da affidare anche ai laici. Con una significativa limitazione però oggi molto discussa: quei ministeri erano riservati soltanto agli uomini!

    Oltre la ministerialità liturgica

    È interessante la recezione che si ha dell'idea di essere una comunità cristiana, in cui tutti possono svolgere un ministero. Il primo ministero a cui si pensa è quello liturgico. Ma questo è pericoloso, perché sembra che la corresponsabilità ci sia solo se tutti fanno qualche cosa nella celebrazione.
    Il documento della Cei del 1977 "Evangelizzazione e ministeri" tentava di ovviare a questo problema immaginando dei ministeri come quelli di annuncio del vangelo, di estroversione della Chiesa. Possono esserci nella chiesa dei ministeri che non riguardano solo il momento in cui ci troviamo a celebrare l'eucarestia. Ad esempio, sono ministeri nella Chiesa la catechesi, il servizio della carità e, perché no, anche la politica. A seconda di che cosa intendiamo come ministeri, ne va anche dell'immagine di chiesa che abbiamo. La chiesa non è solo il campanile...

    Specificità non vuol dire superiorità: il problema del ministero ordinato

    Ciò non toglie che questa posizione, dal punto di vista teologico, fa problema. Perché, anche se diciamo che tutti hanno un ministero, il ministero di un prete è legato al sacramento dell'ordine. E nella vita della chiesa, il sacramento è qualcosa di importante, che dice un modo di essere conformati a Cristo. I laici, invece, avrebbero dei ministeri, ma non legati a un sacramento. C'è allora una differenza che fa problema e che non aiuta a cogliere la specificità dei laici. (Non si risolve il problema parlando del sacramento del matrimonio, in primo luogo perché il matrimonio non si riferisce immediatamente ad una ministerialità, e in secondo luogo perché non tutti i laici sono sposati. E neanche riferendosi al battesimo e alla cresima, che sono sacramenti che anche il prete ha ricevuto.)
    Nel post-concilio, qualcuno, come per esempio Bruno Forte, disse che si doveva allargare la categoria di laicità e dire che tutta la chiesa è laica, che cioè c'è una laicità, una secolarità di tutta la chiesa. È un'idea molto bella con cui si intende dire che tutta la chiesa è immersa nelle cose del mondo. Il problema è che, come spesso succede allargando i concetti, sembra quasi che non esistano più i laici nella chiesa. Un laico di prim'ordine come fu Lazzati, rispetto a questa posizione, reagì in maniera molto critica. Se diciamo che tutta la chiesa è laica, questo sarà un modo per non parlare più dei laici e del loro posto nella chiesa. E inoltre non si risolve il problema legato al fatto che il prete ha ricevuto un sacramento per svolgere il suo ministero, mentre il laico no.
    Dovremmo invece riuscire a cogliere una specificità che non sia né superiorità né inferiorità. Questo è il vero punto per me.
    Alla facoltà di teologia di Milano si fece un convegno nel 1987, durante il quale Giuseppe Colombo disse che il problema dei laici era solamente un problema pastorale perché il laico è un cristiano, un cristiano e basta. È una prospettiva molto importante che ci riporta alla lezione più grande del Concilio Vaticano II: la chiesa come popolo di Dio, il fatto che tutti abbiamo la stessa dignità.
    Cionondimeno, a mio parere, qualche criticità rimane, perché anche il prete è un cristiano e basta. E resta da spiegare perché il prete riceva il sacramento dell'ordine. Io, anche se ho ricevuto il sacramento dell'ordine, mi ritengo un cristiano e basta, perché non credo che esista una dignità che vada al di là dell'essere cristiani, la dignità che è data a tutti dal battesimo, dalla cresima. Il laico è un cristiano e basta, però vive il suo essere cristiano in un modo particolare, che è diverso da quello del prete, evidentemente.
    Mi sembra allora che ci sia lo spazio per poter e dover ripensare le cose in un orizzonte che non sia quello che guarda all'unità di tutti senza cogliere le differenze. Non è lo stesso vivere da cristiani in quanto preti, o in quanto religiosi (facendo il voto di verginità per il regno), o in quanto laici (vivendo da sposati, lavorando, ecc.). O pensiamo che queste cose siano indifferenti rispetto all'essere cristiani, oppure ci sono delle differenze. La vera sfida è non fermarci ad affermare che siamo tutti cristiani e basta, ma cogliere le differenze in modo tale che non significhino la superiorità o l'inferiorità dell'uno nei confronti degli altri.
    Vi presento la mia prospettiva, frutto di un'elaborazione di sollecitazioni fatte da Giacomo Canobbio.
    Canobbio dice che la chiesa vive di due movimenti essenziali al suo essere chiesa, uno di introversione e uno di estroversione. Se fosse soltanto introversa, prima o poi diventerebbe una setta, non intercetterebbe più il mondo. Se fosse soltanto estroversa, prima o poi perderebbe la sua identità. Quindi entrambi i movimenti sono essenziali. I cristiani sono della gente che si raccoglie intorno a Cristo e poi insieme vive e annuncia questo Cristo nel mondo.
    Secondo Canobbio, i ministri ordinati (preti, vescovi...) nella chiesa sono figura simbolica della introversione (della stabilità della Chiesa). È un aspetto che riguarda tutti, non soltanto i preti, ma simbolicamente sono i ministri ordinati che richiamano a tutti che per la Chiesa è necessario avere una stabilità, raccogliersi attorno a Cristo. La diversità è qui considerata superando il problema della superiorità o inferiorità. I laici, secondo Canobbio, sarebbero figura simbolica della estroversione: non è che soltanto loro vivono nelle cose del mondo, anche il prete se ne occupa, ma con la loro vita i laici richiamerebbero un aspetto che è di tutti.

    La chiesa popolo di Dio nella forma del corpo di Cristo

    Trovo questo molto interessante, e mi spinge a fare un passo successivo.
    È sufficiente dire che la chiesa è il popolo di Dio, come fa il Concilio Vaticano II? Sì e no. Riprendendo cose già dette a suo tempo da Ratzinger, da Congar e da altri, direi che la chiesa è popolo di Dio nella forma del corpo di Cristo.
    È il popolo di Dio come era Israele, ma in un modo particolare, secondo la novità costituita da Cristo. Cristo ha dato il suo corpo, ha donato la sua vita, per trapassare in quel corpo fatto di cristiani che è la chiesa. La chiesa è un popolo di Dio nella forma del corpo di Cristo. Dunque è un popolo che ha una forma particolare, quella del corpo di Cristo.
    Noi abbiamo spesso usato l'espressione "corpo mistico" di Cristo, quasi intendendo "un corpo per modo di dire". Ma in San Paolo quell'aggettivo non c'è. San Paolo in 1Corinzi 12, in Romani 12, parla della chiesa come "corpo di Cristo". Perché è il corpo reale di Cristo, è il suo modo di essere vivo e presente. È presente nell'eucarestia per renderci corpo di Cristo. Noi celebriamo l'eucarestia semplicemente per questo. Andiamo tutte le domeniche alla messa per diventare sempre di nuovo il corpo di Cristo. Ci cibiamo di quel pane per diventare noi corpo di Cristo. La chiesa è popolo di Dio nella forma del corpo di Cristo.

    Preti, religiosi, laici: diverse figure simboliche del corpo di Cristo

    Cristo è colui che è venuto 2000 anni fa una volta per tutte, è quello che hanno conosciuto Pietro, Giacomo e Giovanni, ed è colui che continua ad essere vivo e operante proprio attraverso la chiesa, il popolo di Dio nella forma del corpo di Cristo, ed è colui che attendiamo per la fine dei tempi.
    Cristo è colui che è venuto, si è incarnato una volta per tutte, ma è lo stesso che continua ad essere vivo, certo in un modo singolare, unico, continuando a prendere carne in noi. Ed è colui anche che aspettiamo alla fine dei tempi. Tutte le volte che ci raduniamo, lo facciamo appunto "nell'attesa della sua venuta". (30,11)
    Allora mi sembra che possiamo dire così: i preti, i ministri ordinati, sono figura simbolica (nel senso che indicava don Giacomo Canobbio) del radicamento della Chiesa in quel Gesù che hanno conosciuto Pietro, Giacomo e Giovanni e che è venuto una volta per tutte. E questo loro ruolo simbolico è fondamentale perché se si perde quella memoria, si perde la radice, la Chiesa potrebbe diventare qualunque cosa.
    Certo, ogni cristiano deve richiamarsi a quel Gesù che è venuto una volta per tutte. Non ci si può inventare un Gesù a proprio uso e consumo.
    Ma i ministri ordinati, storicamente, con la loro stessa esistenza, sono figura simbolica che richiama tutti alla necessità di fare sempre riferimento a Gesù.
    I religiosi sono figura simbolica del Cristo atteso. La verginità scelta ha un senso, se ce l'ha, in quanto dice che questo mondo non è tutto, che noi stiamo aspettando il Cristo, che è lo stesso Cristo che è venuto, ma che apparirà in un modo che ancora non conosciamo. Potremmo dire, volendo essere un po' evocativi, che sono la nostalgia della Chiesa, il desiderio.
    E i laici sono invece figura simbolica della continua "incarnazione" di Cristo nella realtà del mondo. I laici richiamano il fatto che quel Cristo che è venuto, che è il nostro fondamento e che aspettiamo, continua e deve continuare ad essere vivo e operante nelle cose che costituiscono la realtà della vita di tutti: gli affetti, la famiglia, il lavoro, la politica, la cultura. Non che quello spazio sia un loro spazio esclusivo e che non possano occuparne altri, ma con la loro stessa esistenza i laici richiamano a tutta la Chiesa che è necessario che attraverso loro, attraverso la loro carne, Cristo continui a santificare le realtà del mondo.
    In questo modo, ognuno, prete, religioso o laico, con il suo "stato di vita", richiama un determinato aspetto in riferimento a Gesù Cristo. Ma questo non significa che il laico, o il prete, o il religioso si accaparri in modo esclusivo quel determinato aspetto. Il rimando al Gesù storico è di tutti, e tutti siamo membra del corpo di Cristo che vive nella realtà di oggi, e tutti aspettiamo la sua venuta. Ma simbolicamente ognuno richiama l'importanza di un aspetto specifico.

    Necessità strutturale del camminare insieme

    In questo modo, non c'è nessun soggetto ecclesiale che possa dire di essere la Chiesa, se non nella comunione, nella relazione costante con tutti gli altri. Ecco perché c'è una corresponsabilità, un camminare insieme che è strutturale.
    Ma i laici in modo del tutto particolare dovrebbero richiamare, che c'è chiesa in tutte quelle dimensioni che noi cristiani viviamo e abitiamo.
    Qualche volta la retorica della corresponsabilità e della sinodalità fa in modo che sembra che siamo tutti corresponsabili e camminiamo insieme solo se tutti ci occupiamo della stessa cosa. Secondo me questa è una sciocchezza che genera clericalismo, perché in questa idea implicito è il concetto che in fondo il cristiano vero continua ad essere il prete. .
    Molto diverso è pensare che c'è una corresponsabilità, un dialogo, un discernimento comune, per cui per un cristiano passare otto ore in una fabbrica o in un sindacato o in un ospedale o educare i bambini, ecc., non è qualcosa al di fuori dell'esperienza ecclesiale. Se pensassimo questo, il laico sarebbe sempre condannato a vivere la sua appartenenza ecclesiale solo nel tempo libero. E questo secondo me è sciocco. Oltre che essere un danno per il camminare insieme specifico della chiesa.
    Ne potrebbero derivare della cose interessanti anche sul piano pratico. Ad esempio, quegli organismi di partecipazione che non tengano conto del fatto che la stragrande maggioranza di coloro che fanno parte della comunità cristiana vivono nelle cose del mondo, fanno un'omissione. Cioè bisognerebbe poter portare nei momenti di dialogo e di discernimento comune, non soltanto questioni terra terra (se facciamo o meno la festa della polenta o della bagna cauda qui in parrocchia...), ma anche che cosa significa essere chiesa nel lavoro, nella politica, nella cultura. Se non si fa questo, il pericolo è veramente quello di una chiesa sempre più clericale. E non solo nel senso che qualcuno detiene un potere su altri, ma anche nel senso che non riconosciamo come autenticamente ecclesiali delle dimensioni fondamentali della nostra vita e fondamentali dell'essere della chiesa.

    Dibattito

    A proposito del rapporto chiesa-democrazia
    Intervento: Nella Chiesa manca spesso un atteggiamento democratico. Non trovo corretto svilire la democrazia, che in Italia si è costruita faticosamente e ha avuto tra i "padri costituenti" anche cattolici del valore di Dossetti, La Pira, ecc. Lei dice che la chiesa "va oltre", ma storicamente la chiesa istituzionale, fin dal Risorgimento, non ha favorito una partecipazione costruttiva dei cattolici...
    Risposta: vorrei chiarire che io non intendevo fare un discorso né da giurista, né da politico, ma semplicemente affermare, all'interno di una relazione teologica, che la chiesa vive in un contesto inculturato. Intendevo solo dire che non si può pensare la chiesa se non all'interno di una cultura, come la nostra, segnata dalla democrazia.
    Credo che la chiesa abbia da imparare molto dalla democrazia, ma credo anche che non sarà mai, e che non debba essere, una democrazia, proprio perché ha la pretesa di essere un "di più". So molto bene che non sempre realizza questo "di più", che in certi processi è al di sotto, non al di là. Ma so anche che questo essere al di sotto si chiama peccato. E dire che cosa dovrebbe essere mi sembra che aiuti a riconoscere questa negatività. È il piccolo servizio della teologia, piccolo però prezioso.
    Come dicevo al termine del libro sull'unità della Chiesa, il senso della riflessione teologica è proprio quello di far vedere ciò che dovrebbe essere e non solo ciò che è. La teologia ha in questo senso una carica profetica, mostrando anche quello che non necessariamente si dà nella realtà.
    Se la realtà è lontana da ciò che dovrebbe essere, personalmente ritengo che sia per colpa di tutti. Per questo ho concluso la prima relazione con l'invito alla conversione. Non mi sembra maturo l'atteggiamento di chi, di fronte ad un problema, cerca il colpevole sempre fuori. E non mi sembra evangelico. La lettura del vangelo della prima domenica di quaresima ci mostra le tentazioni di Gesù, e vediamo che Gesù nel deserto non ha cominciato a mormorare come facciamo noi a volte, ma le ha assunte su di sé.
    Ad esempio, i laici tendono a vedere i problemi in quello che la gerarchia fa o non fa. Pur avendo io il massimo rispetto per il papa e i vescovi, la mia profonda convinzione è che il papa e i vescovi non sono la chiesa. La chiesa è formata da tutti i cristiani, anche dai laici, e quindi tendo ad allargare a tutti i componenti la responsabilità, anche in senso giuridico. A proposito, ad esempio, della povertà nella chiesa, penso che molti cristiani che vengono a messa la domenica abbiano dei conti in banca che farebbero veramente scandalo... Ciascuno ha le sue responsabilità, secondo il ruolo che vive.

    Piramide, gerarchia, autorità
    Intervento: Penso che purtroppo nel dna dell'uomo sia radicata una concezione piramidale. Perfino i discepoli litigavano per avere posizioni di privilegio... Ma se dobbiamo costruire il regno di Dio, dobbiamo sentirci tutti uguali di fronte a Lui.
    Risposta: La concezione piramidale o gerarchica non è un'esclusiva della chiesa. Per quanto riguarda la filosofia, c'è tutta una linea di pensiero di ascendenza platonica o plotiniana (Dionigi l'Aeropagita), per cui tutto ciò che si allontana dall'uno è in decadenza, visione che ha segnato profondamente anche l'ecclesiologia. Il tentativo di fare piramidi lo troviamo ovunque. E si sposa con un altro problema che è quello dell'autorità. Io non credo che un camminare insieme, a tutti i livelli, possa fare a meno dell'autorità. Il vero problema è chiarire che cos'è l'autorità. Una delle etimologie possibili di auctoritas, che trovo molto bella, è "rendere attore qualcun altro". L'autorità sarebbe la capacità di rendere attori altri. Ad esempio, il padre esercita veramente l'autorità nei confronti del figlio, non quando fa del figlio un eterno bambino, ma quando lo rende attore. Di Gesù si dice che insegnava con autorità. Gesù ha preso le distanze dal potere, cioè dalla sopraffazione di qualcuno su altri, ma non ha tolto l'autorità. In che cosa è consistita l'autorità di Gesù? Precisamente nel permettere ad altri di realizzarsi pienamente.
    Ma noi dobbiamo fare i conti con la mentalità in cui viviamo. Ad esempio, ora che a Torino c'è un nuovo vescovo, mi capita di sentirmi dire "Adesso hai cambiato il capo!" Veramente a me sembra di aver soltanto un capo, che si chiama Gesù Cristo! Il fatto è che trasponiamo nella chiesa la realtà che viviamo ad esempio nel mondo del lavoro...

    Ministeri e liturgia

    Interventi:
    ''La tendenza in molte diocesi a istituzionalizzare ministeri, soprattutto di tipo liturgico come il lettorato o come il portare la comunione agli ammalati, non favorisce forse processi di delega, di deresponsabilizzazione, di clericalizzazione laicale?
    Sarebbe interessante analizzare come intendere la liturgia, se solo come un qualcosa che si svolge dentro i muri di una chiesa o se invece è qualcosa che esce e si espande, che può essere vissuto come il culto della vita...
    Gesù ha detto di essere venuto per servire. Se noi laici siamo figura simbolica del Cristo che si incarna nella storia, penso che anche certe attività di volontariato, di servizio ai più deboli, siano da considerare liturgia, sacramento...''
    Risposta: A mio avviso, c'è un problema di formazione delle persone. Nell'immediato post-concilio, con l'idea che tutti sono cristiani, e dunque possono fare tutto, si è abolito ogni tipo di associazionismo. La conseguenza è che prima del concilio, paradossalmente, c'erano dei laici formati, mentre oggi sono scomparsi. Comincio quindi a riflettere, ad esempio, sulla necessità di un associazionismo perché, a volte, siccome nella chiesa cattolica, l'unico ministero evidente per adesso è quello del prete, il rischio è che rimanga poi soltanto lui.
    A proposito della liturgia, mi rendo conto, più da teologo che da prete, che oggi c'è una sete di luoghi di preghiera, di luoghi di incontro col Signore, e che una cosa a mio parere brutta è che le nostre comunità cristiane e le nostre liturgie non permettono questo. Con un doppio effetto, che mi sembra deleterio in entrambi i casi. Il primo è che quando le persone vogliono fare un cammino autentico anche di ricerca spirituale, vanno nei monasteri: con tutto il bello dei monasteri, questo fatto ci deve far sorgere degli interrogativi... Il secondo è che una certa forma di relazione e certi modi di gestire la liturgia non hanno più permesso, per esempio, il silenzio, o un certo ordine e che, per reazione, ci sia un ritorno a forme tradizionaliste. Tutt'e due le cose a me creano qualche problema, perché io credo fermamente che si possa fare una liturgia che dica la trascendenza di Dio e che sia in sintonia con la sensibilità moderna.
    Ad esempio, è vero che tutti sappiamo leggere, ma proclamare la parola del Signore è un'altra cosa. Certo questo vale anche per i preti...
    Bisogna accogliere la diversità, anche dei ministeri, che non è necessariamente sinonimo di superiorità o inferiorità. Neanche tra maschio e femmina è così. È l'umano che si dà in una diversità Il punto nevralgico è evitare che il ministero diventi un potere, ma questo vale per tutti. Vale per i preti, per i religiosi, per i laici. Pensate che ho visto persone fare della raccolta delle offerte alla messa un potere, e che non accettano di buon grado di essere sostituite!

    Un breve riassunto

    Oggi la coscienza sinodale, la coscienza della corresponsabilità e del camminare insieme si è molto allentata rispetto agli anni immediatamente successivi al concilio. C'è una diffusa insoddisfazione del funzionamento degli organi di partecipazione ecclesiale, dal sinodo dei vescovi ai consigli pastorali delle parrocchie. Le responsabilità di questa situazione, seppure diversificate, sono diffuse, sia per la difficoltà da parte di chi ha funzioni di governo di dare effettivamente la parola ad altri, sia per la fatica di prendere con coraggio la parola da parte dei più.
    Innanzitutto il senso e l'esigenza di una pratica sinodale all'interno della chiesa sono oggi maggiormente avvertiti per il fatto che il cristiano è abituato a vivere, almeno in Occidente, come cittadino di uno stato democratico, con la possibilità di partecipare a dibattiti di pubblico interesse e di esprimere con il voto il proprio parere, scegliendo i propri rappresentanti. Ciò che viene percepito come valore nella società civile si ritiene che debba essere vissuto anche nella comunità cristiana.
    Ma il nesso tra pratiche sinodali e cultura democratica ha ripercussioni anche sulla riflessione teologica. La democrazia in cui siamo abituati a vivere interpella la chiesa, la quale può vivere solo inculturandosi in una data società e cultura.
    Di certo la chiesa non può solo adeguarsi alla cultura, perché altrimenti perderebbe la propria identità: la chiesa non solo accoglie quanto di buono e di bello c'è nella cultura e nella società contemporanea, ma assume anche un atteggiamento critico, di rottura, nei confronti di quanto non appare come autenticamente evangelico, come lo strapotere dell'economia proprio del capitalismo sfrenato che caratterizza le nostre democrazie o come la produzione di scarti umani dell'attuale processo di globalizzazione.
    Il senso del camminare insieme e della corresponsabilità non nasce solo dal confronto con le democrazie attuali, ma ha la sua radice nell'essere stesso della chiesa.
    La chiesa, come afferma il Vaticano II, è anzitutto mistero, è il luogo della presenza del Dio uno e trino: è il popolo di Dio Padre, è il corpo di Cristo, è il tempio dello Spirito Santo. Tutti i cristiani sono dimora del Dio di Gesù Cristo: in questo risiede la radice più profonda del fatto che il camminare insieme costituisce un aspetto essenziale dell'essere della chiesa. Quando si afferma che la chiesa non è una democrazia non si intende sostenere che nella chiesa non si possano vivere i valori propri della democrazia come il dialogo, il confronto, le scelte condivise, ma che la chiesa è qualcosa di più: è quel soggetto collettivo che è dimora di Dio.
    L'uguaglianza nella dignità e nell'azione comune di tutti fedeli, affermata dal concilio con la Lumen Gentium, non può essere realmente creduta e sostenuta senza la ricerca altrettanto reale di un'autentica corresponsabilità e di strutture concrete che possono garantirla. Come pure non si può pensare ad una chiesa dove non sia normale un regime di ascolto reciproco, nell'intento di riconoscere e discernere ciò che lo Spirito sta dicendo alla chiesa. Se in quanto battezzati riceviamo il dono dello Spirito, l'ascolto dei doni dello Spirito non può che passare dall'ascolto di chi appartiene alla chiesa.
    Se questo è vero, in gioco c'è non solo una certa idea di chiesa, ma anche più profondamente una certa idea di Dio.
    La necessità del camminare insieme tra diversi per convergere in unità deriva dal modo in cui è concepito il rapporto tra Dio e gli uomini all'interno della chiesa, tra la libertà e trascendenza di Dio e la libera risposta degli uomini. Il Dio di Gesù Cristo è un Dio libero che si dona in modo unico e irripetibile a ciascuno, ed è un Dio trascendente, sempre al di là, non rappresentabile pertanto da un singolo soggetto ma dal soggetto collettivo che è la chiesa. E gli uomini in rapporto a questo Dio sono soggetti liberi, ognuno dei quali risponde in modo unico e irripetibile al dono di Dio.
    Se il camminare insieme si fonda sul rapporto che Dio intrattiene con gli uomini all'interno della chiesa, una chiesa in cui non si praticasse il dialogo, in cui non si fosse alla ricerca dei doni che lo Spirito ha effuso su ciascuno, in cui non ci fosse la capacità di valorizzare le competenze che si sono accumulate, in cui all'occorrenza non si dia anche una responsabilità condivisa, sarebbe una chiesa che oscura e deforma il volto del Dio di Gesù Cristo. Le difficoltà odierne nel praticare la sinodalità non sono tanto problemi di tipo organizzativo ma denunciano una mancanza di fede nella forza di un Dio libero e trascendente che vuole intrattenere un dialogo libero con gli uomini.
    La pratica della sinodalità comporta evidentemente un aspetto giuridico che consenta forme di responsabilità in certi ambiti. Il diritto però è una condizione necessaria ma non sufficiente. Esistono infatti già ora strumenti di pratica della corresponsabilità, ma utilizzati in modo discutibile. Il fatto che i consigli pastorali siano solo consultivi non vuol dire che siano di scarso peso, ma che si deve proseguire nel dialogo fino ad avvicinarsi il più possibile all'unanimità. Fa problema riconoscere che in ogni altro compagno di credenza io sono sempre costantemente chiamato non ad esprimere il mio pregiudizio, ma ad avere un pregiudizio in favore del suo carisma.
    Il laicato occupa un posto privilegiato in tutta la riflessione conciliare. Nella Lumen Gentium, dopo aver parlato della chiesa come mistero, cioè come il luogo della presenza di Dio, si presenta la chiesa come popolo di Dio nella storia, prima del capitolo sulla gerarchia. Ciò sta a significare che prima delle distinzioni, dei ministeri, degli incarichi che si assumono all'interno della Chiesa, ciò che è fondamentale è che tutti siamo cristiani e con pari dignità, e con un'unica responsabilità, che è quella della missione della chiesa, sacramento, segno che anticipa e realizza il disegno di Dio di salvezza per tutti.
    Nell'orizzonte dell'unica missione della chiesa comune a tutti i cristiani, vi è una specificità laicale, individuata dal concilio - a volte in termini di separazione di compiti, a volte in modo non esclusivo - nell'indole secolare, nell'essere immersi nelle cose di questo mondo.
    Nel solco della riflessione conciliare Congar parlerà di una chiesa tutta ministeriale, dove ciascuno, e non solo preti e vescovi, ha un ministero da vivere. La ministerialità non riguarda solo la liturgia, come spesso si ritiene, ma si estende alla catechesi, al servizio di carità, alla politica.
    Nonostante tutti abbiano un ministero, fa problema il fatto che il ministero del prete sia legato ad uno specifico sacramento, quello dell'ordine, che lo differenzia dal ministero degli altri cristiani. Come cogliere la specificità del prete senza declinarla in termini di superiorità? Non basta dire che siamo tutti cristiani con pari dignità, ma occorre cogliere anche le specificità del vivere da cristiani in quanto preti, in quanto religiosi o in quanto laici.
    Come è possibile mantenere la specificità non esclusiva dei vari ministeri? La chiesa è il popolo di Dio nella forma del Corpo di Cristo. Ora Cristo è colui che è venuto 2000 anni fa una volta per tutte; è colui che continua a essere vivo e operante attraverso la chiesa; è colui che attendiamo alla fine dei tempi ("nell'attesa della tua venuta").
    I preti sono figura simbolica del radicamento della chiesa in quel Gesù che è venuto una volta per tutte, richiamando tutti alla necessità di fare sempre riferimento a lui.
    I religiosi son figura simbolica del Cristo atteso. La verginità ha senso nel dirci che questo mondo non è tutto e che tutti siamo in attesa di colui che viene.
    I laici sono figura simbolica della continua incarnazione di Cristo nella realtà del mondo. Richiamano il fatto che Cristo continua ad essere vivo e operante nella vita di tutti: negli affetti, nella famiglia, nel lavoro, nella politica, nella cultura.
    Essere corresponsabili, vivere e praticare il camminare insieme, non vuol dire allora fare tutti la stessa cosa, ma ritenere che passare otto ore in fabbrica o in ospedale, educare i figli ecc. non è qualcosa di estraneo all'esperienza ecclesiale.

    Verbania Pallanza, 12 marzo 2011


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