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    Una morte tragica

    Gianfranco Ravasi

    Andrea Mantegna 022
    Andrea Mantegna, La preghiera nel giardino degli Ulivi (1806), 
    Tours, Museée des Beaux Arts

    «"Ponzio, ti ricordi di Gesù il Nazareno che fu crocifisso non so più per quale delitto?" Ponzio Pilato aggrottò le sopracciglia, si portò la mano alla fronte come chi vuole ritrovare un ricordo. Poi, dopo qualche istante di silenzio: "Gesù," mormorò "Gesù il Nazareno? No, non ricordo"». Così Anatole France nel racconto Il procuratore di Giudea (1902) fa reagire un Pilato, ormai pensionato, alle sollecitazioni dell'ex collega governatore di Siria. Nella sua memoria si era spenta l'eco di quel processo che Tacito ha registrato nei suoi Annali: «Nerone dichiarò colpevoli e condannò ai tormenti più atroci coloro che il volgo chiamava cristiani... i quali prendevano nome da Cristo, condannato a morte a opera del procuratore Ponzio Pilato sotto l'impero di Tiberio» (XV, 44,2-5).
    Lo storico giudaico Giuseppe Flavio ha evocato nell'opera Antichità giudaiche la stessa vicenda in un passo sorprendente, probabilmente ibridato da qualche glossa cristiana posteriore e simile a un cammeo di tutta l'esistenza storica di Gesù e dell'approdo finale trascendente: «Gesù fu uomo saggio, se pur conviene chiamarlo uomo: egli, infatti, compiva opere straordinarie, ammaestrava gli uomini dhe con gioia accolgono la verità e convinse molti giudei e greci. Egli era il Cristo. Dopo che Pilato, dietro accusa dei maggiori responsabili del nostro popolo, lo condannò alla croce, non vennero meno coloro che fin dall'inizio lo avevano amato. Apparve loro il terzo giorno di nuovo vivo, avendo i profeti di Dio dette queste cose su di lui e moltissime altre meraviglie. Ancora fino a oggi non è scomparsa la tribù dei cristiani che da lui prende nome» (XVIII, 63-64). Quella sentenza – come scriverà lo studioso inglese Samuel G.F. Brandon nel suo Processo di Gesù (1968) – è divenuta «la più importante della storia dell'umanità. Nessuna azione giudiziaria intentata contro una persona è conosciuta da un numero altrettanto grande di persone. Gli effetti del processo di Gesù sulla storia umana sono incalcolabili».

    Fra gli ulivi del Getsemani

    I più celebri casi giudiziari, come quello contro Socrate ad Atene nel 399 a.C., quello che mandò al rogo Giovanna d'Arco nel 1431 o quello aperto dall'Inquisizione nei confronti di Galileo nel 1633, impallidiscono di fronte alle due sbrigative sessioni processuali – durate poche ore e celebrate davanti alla massima autorità giudaica, il Sinedrio, e a quella imperiale del governatore romano – che condannarono alla pena capitale il predicatore ambulante galileo di nome Gesù di Nazaret attorno all'anno 30. Quelle ore hanno inciso radicalmente nella trama della storia. Ogni anno milioni di persone in tutto il mondo rievocano quegli eventi e li rivivono nella liturgia cristiana, con una intensità simile a quella che sboccia dalle parole e dalla musica della Passione secondo Matteo di Bach: «Anche se il mio cuore nuota nelle lacrime perché Gesù prende congedo da me, il suo testamento mi rallegra: egli lascia nelle mie mani la sua carne e il suo sangue ... Voglio donarti il mio cuore perché tu vi discenda, mio Salvatore! Voglio sprofondarmi in te. Ma se il mondo è troppo piccolo per te, allora tu solo devi essere per me più del mondo e più del cielo!».
    Un esegeta, Martin Kähler, ha affermato che «i Vangeli sono in realtà un racconto della passione, morte e risurrezione di Cristo con un'ampia introduzione». Noi non possiamo seguire integralmente quei racconti né coglierne tutte le risonanze all'interno del Nuovo Testamento: la Pasqua di Cristo è, come già si è affermato, l'evento centrale del cristianesimo. Ci accontenteremo di procedere selezionando qualche scena e qualche figura, rimandando alla lettura dei quattro racconti evangelici. Essi, per altro, costituiscono una sorta di «grande codice» dell'arte e in genere della cultura occidentale. Il senso intimo teologico era già stato rappresentato da Gesù nell'ultima cena, che è alle spalle della nostra narrazione e riflessione.
    La donazione sacrificale della carne e del sangue, cioè di tutto se stesso, era stata celebrata da Cristo con i segni del pane e del vino di quel banchetto svoltosi nel Cenacolo. Essa sarà realizzata e consumata in pienezza negli atti che seguiranno a partire da quella notte iniziata con la preghiera drammatica fra gli ulivi del Getsemani. Questo momento viene descritto soprattutto dall'evangelista Luca come un'«agonia», cioè una lotta estrema. Egli la scandisce secondo ben cinque menzioni della preghiera di Gesù, la incornicia con un duplice appello d'apertura e chiusura («Pregate per non entrare in tentazione!») e l'accompagna con quella strana diapedesi di sangue che essuda dai pori della pelle di Cristo come indizio di un'estrema e tragica tensione. Vorremmo ora affidare la «ri-creazione» ideale di quella scena notturna a una selezione evocativa fra le mille possibili, desunta dalla storia della cultura occidentale. È un modo per ricordare che l'interpretazione dei Vangeli non avviene solo a livello esegetico-teologico, ma anche attraverso le intuizioni artistiche.
    Teniamo, allora, in sottofondo quel Cristo al monte degli Ulivi, op. 85, unico oratorio composto da Beethoven fra il 1803 e il 1804 con tre attori: Gesù (tenore), Pietro (basso) e un serafino (soprano); suggestivi sono i dialoghi fra questo angelo e Gesù per confortarlo, oppure con il coro. Davanti agli occhi si potrebbe avere anche l'emozionante tela di Andrea Mantegna (1460) conservata al museo di Tours con la pesante corporeità dei discepoli assonnati in primo piano e con il Cristo sospeso su una rupe e solitario in tesa orazione. «Gesù sarà in agonia fino alla fine del mondo: non bisogna dormire fino a quel momento» scriveva Pascal nel celebre Pensiero 553 (ed. Brunschvicg), traducendo il valore salvifico universale della passione e morte di Cristo. Un tema che percorrerà il Diario di un curato di campagna di Bernanos (1936), il cui protagonista è definito «prigioniero della santa Agonia».
    «Agonia» è il titolo di uno degli Ultimi poemi di Max Jacob, mentre egli attende, come Cristo nel Getsemani, la fine nel campo di concentramento nazista. Ma, come ci insegna Il monte degli Ulivi (1839) di Alfred de Vigny, quelle ore notturne sono anche il simbolo dell'angoscia di ogni persona, quando attorno a essa si addensa il silenzio di un Dio apparentemente «muto, cieco e sordo al grido delle sue creature». Anche Gérard de Nerval le riproporrà nel sonetto Cristo negli ulivi (1854): «Dio manca all'altare del mio sacrificio... Dio non c'è! Dio non è più! Ma essi continuano a dormire». E sarà il regista Ingmar Bergman a rappresentare il dramma di questo silenzio del Padre nelle parole semplici del sagrestano del film Luci d'inverno (1962): al pastore in crisi egli presenta la solitudine totale di Cristo come l'emblema supremo dell'esperienza che anche il credente fa dell'assenza di Dio nel tempo della tenebra. Abbiamo voluto con questo excursus culturale – che potremmo ripetere per ogni altra scena del racconto della passione di Gesù che stiamo per ricostruire nella sua storicità – attestare quanto sia decisiva per la nostra civiltà la vicenda che si svolse in quella remota provincia dell'impero, in una altrettanto remota coordinata cronologica.
    In quella notte, fra gli ulivi del Getsemani, avanza Giuda, figlio di Simone, detto Iscariota (forse «di Kariot», villaggio palestinese meridionale, o deformazione da sicarius, nome dei ribelli al potere romano, o 'ish-karja' , «uomo della falsità», per un soprannome posteriore, o forse anche «tintore»). Egli appariva già precedentemente nei Vangeli, per esempio, nella città di Cafarnao, dopo il discorso di Gesù sul «pane di vita», quando Cristo aveva esclamato: «Non ho forse scelto io voi, i dodici? Eppure uno di voi è un diavolo!». E Giovanni annota: «Parlava di Giuda, figlio di Simone Iscariota: costui, infatti, stava per tradirlo, lui, uno dei dodici!» (6,70). Era riapparso durante una cena a Betania, sobborgo di Gerusalemme, in casa degli amici di Gesù, Maria e Lazzaro, nell'ultima settimana della vita di Cristo, quando aveva protestato per lo spreco del profumo di nardo versato sui piedi del Maestro da Maria, sorella di Lazzaro, meritandosi dall'evangelista anche il titolo di «ladro» (Gv 12,6). Matteo (26,14-16) ritorna su questo aspetto quando lo raffigura mentre pattuisce la somma di trenta monete d'argento per consegnare Cristo ai sommi sacerdoti, una notizia che, almeno nella cifra, è però modellata su un passo del profeta Zaccaria ove di scena è un pastore giusto rigettato dal suo popolo («essi pesarono trenta sicli d'argento come mia paga» 11,12).
    Giuda è seduto a mensa con Gesù nell'ultima cena, quando «il diavolo gli aveva già messo in cuore di tradire» il suo Maestro che in quel momento gli offre il «boccone dell'ospite», un segno di amicizia: «dopo quel boccone Satana entrò in Giuda» annota ancora Giovanni (13,2.27). E Matteo mette sulle labbra di Gesù l'annunzio del tradimento, sempre in quella sera, nel Cenacolo, e Giuda ipocritamente reagisce: «Rabbì, sono forse io? Gli rispose Gesù: Tu l'hai detto!» (Mt 26,20-25). Quelle parole, dette quasi in un soffio, fanno calare il sipario sulla vicenda di Giuda, discepolo di Gesù. Egli riappare al Getsemani per quel bacio dato a Cristo come un probabile segno di identificazione offerto nell'oscurità a chi doveva arrestare il Nazareno e divenuto l'immagine del tradimento. «Giuda con un bacio tradisci il Figlio dell'uomo?» (Lc 22,48). Queste parole amareggiate di Gesù sono sostituite in Matteo da un secco Ef'ho pàrei, «Per questo sei qui!», ma accompagnato da un triste etàire, «amico, compagno» (26,50). Sarà solo Matteo, però, a registrare la tragedia di quest'uomo, che poco dopo corre dai suoi mandanti a restituire il prezzo di un tradimento, divenuto già insopportabile (27,3-10).
    La fine drammatica ormai incombe. Matteo l'affida a una sola riga: «Giuda, scagliate nel tempio le monete d'argento, si allontanò e andò a impiccarsi» (27,5). Luca, nella sua seconda opera, gli Atti degli Apostoli, ci offrirà una versione più clamorosa di quella fine, rimandando forse a un passo della Bibbia (Sap 4,19) ove si dipinge a tinte forti il destino dei malvagi: «Giuda, precipitando in avanti, si squarciò in mezzo e si sparsero fuori tutte le sue viscere» (At 1,18). Una morte atroce, comunque essa sia accaduta, funge da sigillo a una vita forse segnata dall'illusione e dalla delusione, causate da una falsa immagine di Gesù, sognato come un messia politico e scoperto alla fine solo come un maestro dall'orizzonte troppo alto e remoto. Giuda rimarrà simbolo universale di tradimento, tant'è vero che esiste tutta una letteratura che talora lo ha persino trasfigurato, facendolo tramite inconsapevole di un progetto trascendente.
    In realtà, Giuda, rimane responsabile del suo atto, ma è proprio attraverso l'oscurità del tradimento e poi dell'odio, della violenza e della morte che agli occhi degli evangelisti si celebra la fecondità della redenzione e dell'amore di Gesù che si dona, divenendo autenticamente fratello dell'umanità che soffre, è abbandonata, tradita, e muore. È giunto ormai il momento di uscire dall'orto del Getsemani e di entrare nelle stanze del potere religioso e civile dove si consuma il destino del rabbì di Nazaret.

    Davanti al Sinedrio

    Contro la tradizionale accusa di «deicidio» rivolta nei secoli nei confronti dei «perfidi giudei» si è levata la voce del concilio Vaticano II: «Sebbene autorità ebraiche con i propri seguaci si siano adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione non può essere imputato né indistintamente a tutti gli ebrei allora viventi né agli ebrei del nostro tempo» (Nostra aetate, 4). Seguendo sempre la linea della storia, componente fondamentale dell'«incarnazione», tipica della fede cristiana, cerchiamo, dunque, in modo essenziale di definire le due assise processuali che condussero Gesù alla pena capitale.
    Sulla responsabilità effettiva di quell'esito fatale si confrontano due interpretazioni. Per alcuni - e fra questi è da segnalare Josef Blinzler con il suo noto Processo a Gesù (19694) - il procedimento penale davanti alla massima autorità giudaica, il Sinedrio, fu intenzionalmente connotato in senso politico così da favorirne l'accettazione a ruolo e la conferma presso il tribunale romano, l'unico che poteva emettere sentenze capitali. Si tratterebbe, quindi, di una responsabilità effettiva del Sinedrio. Per altri, invece, l'organo giudaico istruì solo la causa, sostenendo la qualità politica della predicazione e dell'operato di Gesù perché tale era il convincimento del Sinedrio e tale era l'interpretazione data dalla folla. Il tribunale romano, competente in materia, emise la sentenza della quale ebbe piena responsabilità giuridica e morale.
    Stando ai Vangeli, Gesù è trasferito sotto scorta prima da Anna (diminutivo di Giovanni), ex sommo sacerdote (dal 6 al 15) ma ancora molto influente: aveva collocato in quella carica ben cinque suoi figli e il genero Caifa, che resse il Sinedrio dal 18 al 36. Dalla residenza di Anna, che forse svolge un primo interrogatorio informale, Gesù è poi trasferito davanti al sommo sacerdote in carica, Caifa, che presiede una seduta notturna nel suo palazzo, individuando un capo d'accusa religioso contro Gesù, quello della bestemmia per essersi arrogato un messianismo non solo regale-davidico ma anche trascendente-apocalittico, sulla base di un passo del profeta Daniele (7,14). In esso si parlava di un misterioso «Figlio dell'uomo» che riceveva da Dio un potere cosmico e che veniva insediato accanto a lui «sulle nubi del cielo»: il giudaismo aveva inteso questo testo in un senso messianico superiore (come è noto, il messia era considerato solo come una creatura, mentre qui appariva con un potere trascendente). Ebbene, Gesù dichiara di sé: «Vedrete il Figlio dell'uomo seduto alla destra della Potenza divina e venire sulle nubi del cielo» (Mc 14,62). Il reato di bestemmia comportava la pena capitale per la legge ebraica, pena che doveva essere però convalidata dal potere romano.
    Si è obiettato che nel trattato Sanhedrin, che raccoglie le norme giudaiche antiche riguardo al Sinedrio, i processi capitali dovevano essere trattati solo in seduta diurna e nell'aula ufficiale sinedrale detta «della pietra squadrata». La sentenza di quella notte, nel palazzo di Caifa, sarebbe allora illegale e invalida. Tuttavia, Luca sottolinea che «appena fu giorno, si riunì il consiglio degli anziani del popolo, con i sommi sacerdoti e gli scribi e condussero Gesù davanti al Sinedrio» (Lc 22,66) per celebrare il processo formale. La maggiore attenzione alla storicità, dichiarata esplicitamente da Luca, rende più attendibile la notizia da lui offerta, senza inficiare quella di Marco e Matteo che probabilmente evocano le due sedute informali notturne presso Anna e Caifa, ma non ignorano l'assise mattutina, considerata da loro solo come siglatura formale di quella notturna.
    Condannato a morte, Gesù è trasferito al pretorio del procuratore romano Ponzio Pilato, in carica in Giudea dal 26 al 36. Sulla collocazione topografica di questo palazzo esiste un'annosa controversia archeologica. Giovanni parla di un «litostroto», di un «lastricato», detto in aramaico gabbatà, cioè «altura» (19,13): sarebbe questo il luogo ove Gesù fu processato dal procuratore. Un pavimento – venuto alla luce a metà del secolo scorso nei sotterranei di un convento femminile nella Gerusalemme antica – reca inciso sulle sue lastre il cosiddetto «gioco del re» e uno scorpione, simbolo della X Legione Fretense di stanza in Giudea: si è così ipotizzato che qui Gesù fosse stato giudicato e sottoposto a quel «gioco»-tortura, evocato anche dai Vangeli (Mc 15,16-20). Ma la determinazione cronologica di quel reperto sembra condurci a un'epoca successiva.

    Davanti al pretorio di Pilato

    «Uomo per natura inflessibile e, in aggiunta alla sua arroganza, duro, capace solo di concussioni, di violenze, rapine, brutalità, torture, esecuzioni senza processo e crudeltà spaventose e illimitate.» Così Filone, filosofo ebreo di Alessandria d'Egitto contemporaneo di san Paolo, dipingeva Pilato, il «prefetto» romano di Giudea, il cui nome è venuto alla luce anche su un masso di calcare ritrovato a Cesarea Marittima, la sua residenza ufficiale, durante gli scavi condotti fra il 1959 e il 1964. L'evangelista Matteo è, invece, decisamente benevolo nei suoi confronti. A lui era stato consegnato Gesù di Nazaret da parte del Sinedrio, con un capo d'imputazione politico: «Abbiamo trovato costui che sobillava il nostro popolo, impediva di dare tributi a Cesare e affermava di essere il Cristo re» (Lc 23,2). Prima di ratificare l'accusa giudaica, Pilato apre un'istruttoria e adotta una tecnica dilatoria: sappiamo dallo storico ebreo Giuseppe Flavio che egli amava provocare la popolazione ebraica a lui affidata, ricorrendo ora a sgarbi, ora a dure repressioni. Luca annota anche il tentativo di deferire Gesù a Erode Antipa, un figlio di Erode il Grande che aveva giurisdizione sulla Galilea, considerata regione di origine di Gesù, e che in quei giorni pasquali si trovava a Gerusalemme.
    Pilato rispolvera pure, stando agli evangelisti, un non altrimenti noto «privilegio pasquale» che comprendeva, in occasione della Pasqua, l'amnistia per un carcerato, la cui selezione era affidata a una specie di giuria assembleare popolare. Anche in questo caso la manovra fallisce, perché viene preferito a Gesù «un prigioniero famoso», tale Barabba, forse un rivoluzionario zelota. Matteo aggiunge anche l'intervento della moglie di Pilato, «turbata in sogno a causa di quell'uomo giusto» Gesù (27,19). Giovanni (18,33-38) riferisce e rielabora un dialogo di forte tensione fra Cristo e Pilato, che ha offerto la sostanza letteraria a una delle parti più alte del romanzo Il maestro e Margherita (1928-1940) di Michail Bulgakov. In esso Pilato ne emerge come un eroe complesso, tormentato nell'anima e perseguitato nel fisico dall'emicrania, sconcertato di fronte a un Maestro che gli propone un radicale sistema alternativo di valori. Alla fine del romanzo, si incontrerà ancora Pilato mentre guarda impietrito la luna e contempla i cocci della brocca nella quale si era lavato le mani in quel giorno fatidico.
    La lavanda delle mani – gesto biblico come bibliche sono le parole che pronunzia («Non sono responsabile di questo sangue») – è l'ultimo lineamento positivo che Matteo introduce nel suo ritratto di Pilato, il quale, però, rimane il responsabile effettivo della condanna a morte di Gesù. Le tensioni che correvano ormai fra la nuova religione cristiana, aperta anche al mondo romano, e la comunità ebraica d'origine spiegano questa rilettura positiva matteana della figura di Pilato, che gli scritti cristiani apocrifi posteriori esalteranno arrivando al punto di farlo convertire al cristianesimo oppure di farlo perire suicida come Giuda, nella disperazione per una sentenza sentita come una tragica pietra miliare della sua storia personale e di quella imperiale. Certo è che Pilato rimane una presenza statuaria nel processo a Gesù: essa ha varcato i secoli perché ogni domenica nel culto cristiano si ripete il suo nome nel Credo («fu crocifisso sotto Ponzio Pilato...»). Ha anche conquistato la letteratura in un'immensa serie di romanzi, drammi, racconti e saggi a lui dedicati, ma è stato accolto anche dalla pittura, dalla scultura, dal cinema e persino dalla musica come testimone e artefice di un evento superiore alla sua statura di modesto funzionario romano.

    «Lanciando un forte urlo, spirò»

    C'è nella città vecchia di Gerusalemme una strada che porta ancor oggi il nome di «via dolorosa». In un giorno primaverile attorno all'anno 30 il corteo con il condannato a morte Gesù di Nazaret avanzava su quel percorso sotto la direzione dell'exactor mortis, il centurione romano incaricato dell'esecuzione capitale per crocifissione. Scortato da quattro soldati armati di lancia e dalla solita folla di curiosi, Gesù procedeva recando sulle spalle probabilmente il patibulum, cioè l'asse trasversale della croce. Quello verticale era già infisso nel terreno del Golgota, il colle dell'esecuzione, posto fuori le mura di Gerusalemme per evitare che una condanna a morte inquinasse la purità rituale della città. Soste, incontri, piccoli episodi della narrazione evangelica sono divenuti le «stazioni» della Via crucis, la famosa pratica devozionale cristiana sorta già al tempo delle crociate. Molteplici sono gli eventi evangelici che accompagnano la via e l'approdo terminale di quella piccola processione con il condannato Gesù al Golgota-Calvario, piccola prominenza rocciosa ora inglobata nella mastodontica basilica del Santo Sepolcro.
    Alcuni sono segni simbolici che cercano di cogliere il senso trascendente della vicenda che sta consumandosi lassù. Pensiamo alle tenebre che si stendono come un sudario «su tutta la terra da mezzogiorno alle tre pomeridiane» (Mt 27,45), segno del giudizio divino secondo il profeta Amos: «In quel giorno farò tramontare il sole a mezzogiorno...» (8,9). Nella stessa linea è da interpretare la lacerazione improvvisa del velo che celava agli sguardi umani il Santo dei Santi, cioè il luogo più sacro del tempio: è il segno della «rivelazione» del mistero di Dio proprio nel Cristo crocifisso. Anche la nota di Matteo su alcune tombe scoperchiate e su morti risuscitati «dopo la sua risurrezione» (27,52-53) sono un'anticipazione simbolica dell'evento glorioso del giudizio e della meta ultima dell'essere e della storia umana, redenti dall'evento sacrificale di Cristo. Altri fatti narrati dagli evangelisti riflettono, invece, la reale tortura subita da Gesù in quelle ore: nel 1969 è stato presentato a Gerusalemme uno scheletro ritrovato in un ossario di Givat ha-Mivtar, identificato come quello di un certo Jehohanan (Giovanni); esso aveva le caviglie tenute insieme lateralmente e perforate da un chiodo di crocifissione.
    Significativa è anche la menzione della posca, che in latino indica una bevanda di vino forse blandamente anestetica (miscelata con fiele o, come dice Marco, con mirra), offerta a Gesù. Ma la tradizione ha posto giustamente l'accento sulle ultime parole di Gesù. Contrariamente a quanto afferma un verso di un famoso spiritual afroamericano - «lo inchiodarono sulla croce e non mormorò nemmeno una parola...» - divenuto il titolo di un romanzo di Heinrich Böll, E non disse nemmeno una parola (1953), storia di una coppia di «esseri umani crocifissi», Gesù in croce, secondo i vari Vangeli, pronunzia sette frasi che sono state ordinate, soprattutto nella tradizione musicale, all'interno di una sequenza (si pensi alle celebri Le sette parole del Redentore sulla croce di Haydn). Eccole:

    1. Ai crocifissori: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno!» (Lc 23,24).
    2. Alla madre, Maria: «Donna, ecco tuo figlio». Al discepolo amato, Giovanni: «Ecco tua madre» (Gv 19,26-27).
    3. Al malfattore pentito, crocifisso accanto a lui: «In verità ti dico: oggi sarai con me nel paradiso» (Lc 23,43).
    4. «Elì, Elì, lemà sabachtani? Che significa: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46; cfr. Sal 22,2).
    5. «Ho sete!» (Gv 19,28).
    6. «Tutto è compiuto!» (Gv 19,30).
    7. «Padre, alle tue mani affido il mio spirito» (Lc 23,46; cfr. Sal 31,6).

    Tutte queste parole meriterebbero un'indagine accurata, come è stato fatto dall'esegesi. Noi ci accontentiamo di segnalare che esse rivelano la gamma variegata dei sentimenti di Gesù e dei temi teologici che si affollano in quelle frasi brevi, ora sussurrate, ora urlate. Due soli aspetti vorremmo sottolineare. Da un lato, il realismo della crocifissione è per i Vangeli una forte prova dell'incarnazione: Cristo passa veramente e non solo metaforicamente attraverso il terreno proprio dell'uomo, quello del limite, della morte, della finitudine, divenendo fratello di tutti gli uomini e di tutte le donne. Nel suo Cristo in croce Borges scriveva:

    La nera barba pende sopra il petto.
    Il volto non è il volto dei pittori.
    È un volto duro, ebreo.

    Non lo vedo
    e insisterò a cercarlo
    fino al giorno
    dei miei ultimi passi sulla terra.

    D'altro lato, ha sempre impressionato il silenzio del Padre, cioè di Dio. Luca tempera questa assenza desolata con un'invocazione di fiducia posta sulle labbra morenti di Gesù, cioè la settima e ultima parola: «Padre, alle tue mani affido il mio spirito». L'incarnazione, comunque, suppone il passaggio anche attraverso la tenebra interiore, esperienza vissuta da Giobbe, una figura biblica spesso riletta in chiave cristologica. Gesù entra, dunque, in una morte dura, segnalata da Matteo e Marco: «Lanciando un forte urlo, spirò». È questo il segno più esplicito di quella storicità e «carnalità» che regge il Credo cristiano come sua prima componente. Essa continua a essere rimarcata dagli evangelisti anche nella successiva sequenza della narrazione, quando Cristo è ridotto a un cadavere.

    «Subito uscì sangue e acqua»

    Scegliamo allora una rappresentazione della crocifissione che è divenuta la matrice di tutte quelle che si sono succedute nei secoli attraverso l'arte e la devozione popolare, quella dell'evangelista Giovanni (19,31-37). Ai crocifissi i soldati applicavano spesso uno sbrigativo sistema di eutanasia: spezzando gli arti inferiori si accelerava il soffocamento e la fine del disgraziato. Su Gesù già spirato i soldati infieriscono con una specie di brutale verifica del decesso avvenuto: gli trapassano con una lancia il costato. «Subito» nota l'evangelista «uscì sangue e acqua», forse dal pericardio o dall'organismo stesso che nell'antica fisiologia orientale era ritenuto composto di sangue e acqua. Giovanni, secondo la prospettiva costante del suo Vangelo, intuisce in quell'evento, da lui solennemente attestato, un significato ulteriore e trascendente che spiega ricorrendo a due citazioni anticotestamentarie.
    La prima è un ovvio riferimento all'agnello pasquale le cui ossa dovevano rimanere intatte: «Non gli sarà spezzato nessun osso» (Es 12,46). Gesù, morto alla vigilia di Pasqua secondo il quarto Vangelo (la cosiddetta «Parasceve» o «preparazione»), è il perfetto agnello pasquale della piena liberazione. La citazione successiva destinata a illustrare il fatto è desunta, invece, dal profeta Zaccaria: «Volgeranno lo sguardo a chi hanno trafitto» (12,10). Il contesto della citazione profetica è importante. Nel brano si parla di Israele che si converte contemplando un uomo sacrificatosi per gli altri, e si descrive, più avanti, una sorgente d'acqua che sgorga dal tempio di Sion e si irradia verso il Mar Morto e il Mediterraneo (Zc 14,8). L'evangelista vede nell'acqua cantata dal profeta un riflesso di quella che ora esce dal costato di Cristo, il nuovo tempio divino a cui si accede per essere lavati dall'acqua battesimale e per bere il sangue eucaristico.
    Si ha, in un certo senso, attraverso l'interpretazione giovannea, il trapasso all'ulteriore dimensione degli eventi vissuti da Gesù: è quella seconda componente trascendente che sarà illustrata dalla Pasqua di Cristo. Annotava uno studioso di Giovanni, Ignace de la Potterie: «Nell'ora decisiva, sul trono della croce, la morte di Cristo rivela la sua misteriosa fecondità. L'acqua e il sangue sono lo Spirito che darà vita all'umanità morta e peccatrice. È per questo che Giovanni scandisce con insistenza la sua "testimonianza vera", cioè il senso profondo e misterioso di quest'evento a prima vista secondario».
    Secondo una diffusa prassi romana, i morti in croce dovevano restare sul patibolo fino alla consunzione del cadavere, profanato da animali selvatici, contro la legge biblica che ordinava di seppellire al tramonto in una fossa comune i condannati a morte (Dt 21,22-23). Tuttavia era possibile che i parenti o una personalità autorevole richiedessero la salma del crocifisso per una sepoltura privata; la concessione era poi automatica, stando a Filone d'Alessandria, in occasione del genetliaco dell'imperatore o dei prefetti romani locali. I Vangeli introducono una persona ricca e nota, Giuseppe di Arimatea, originario di un centro identificato con l'antica Rama di Efraim, l'attuale Rentis, non lontana da Lidda (l'attuale Lod). Costui aveva la residenza a Gerusalemme, ove possedeva una tomba di famiglia. È lui, descritto da Marco e Luca come simpatizzante del cristianesimo («in attesa del Regno di Dio»), a intercedere presso Pilato per ottenere la sepoltura del corpo di Gesù. Accanto a lui nel momento della deposizione dalla croce c'è un'altra personalità, quel Nicodemo membro del Sinedrio che Gesù aveva incontrato segretamente una notte (Gv 3). Secondo l'uso antico il corpo veniva lavato e unto con olio (non lo si imbalsamava come in Egitto), raramente era cosparso di aromi. Nicodemo, però, in segno di omaggio, porta «una miscela di mirra e di aloe di circa cento libbre», cioè di 32-34 chili (Gv 19,39), quasi ad attribuire a Cristo una sepoltura regale. Per l'incombere del riposo sabbatico che inizia la sera del venerdì, non si può, però, procedere a questa operazione, rimandata al «primo giorno della settimana», dopo il sabato. Il cadavere solitamente era avvolto in un lenzuolo, in greco sinclón; ma Giovanni evoca anche il sudario per il volto e le bende che bloccavano mento, piedi e braccia: «avvolgere il morto nei suoi lini» era una locuzione popolare giudaica che indicava la fine di una persona. Matteo (28,12-14) e l'apocrifo Vangelo di Pietro introducono anche una custodia militare alla tomba di Gesù e ne narrano l'esperienza traumatica all'apparizione dell'angelo e la relativa corruzione da parte del Sinedrio perché non abbiano a testimoniare questo evento. In realtà, il taglio di questo racconto rivela, però, un'impronta apologetica: le guardie diventano i testi neutri e indiscutibili della risurrezione avvenuta e la smentita dell'accusa di sottrazione del cadavere di Gesù da parte dei discepoli propalata dal giudaismo ufficiale. La storicità dell'episodio delle guardie può, quindi, essere considerata sospetta, mentre significativo rimane il suo valore teologico.
    Fin qui la vicenda storica terrena terminale di Gesù di Nazaret, ricostruita per sommi capi attraverso la documentazione a noi disponibile, quella dei Vangeli. Già si è intuito come essa non si accontenti mai di offrire un mero resoconto documentario. Il genere letterario dei Vangeli obbedisce, infatti, a quel canone che abbiamo già definito secondo il quale storia e interpretazione procedono insieme. Fra l'altro, ogni storiografia adotta necessariamente un approccio analogo: l'oggettività fattuale è, infatti, formulata attraverso la soggettività esperienziale e interpretativa. L'ermeneutica cristiana si affida, però, a un registro particolare, quello di un significato trascendente che si annida negli eventi.
    Nel Credo paolino da cui siamo partiti, infatti, già la morte e sepoltura, indubbi fatti storici, erano visti all'insegna delle «Scritture» e della finalità redentiva («per i nostri peccati»). Era, però, l'altro articolo di quella professione di fede a essere decisivo per l'interpretazione dell'evento storico, cioè la risurrezione. Essa di sua natura, come vedremo, appartiene a un altro ordine di realtà e di conoscenza; eppure incide nella storia, in essa insiste pur trascendendola. Per altro, l'infinito non è riconducibile e riducibile allo spazio finito, eppure lo comprende, così come l'eterno non è un tempo prolungato, eppure contiene in sé anche la limitatezza e la finitudine temporale superandola.

    (Gianfranco Ravasi - Luc Ferry, Il cardinale e il filosofo. Dialogo su fede e ragione, Mondadori 2014, pp. 109-124)


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