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    “Raccontare” Gesù Cristo

    nostra speranza

    Bruno Forte

    Arcivescovo di Chieti-Vasto

     


    1. Il ritorno al racconto e la sua sfida alla “pretesa” cristiana

    L’esigenza di un ritorno alla narrazione nella comunicazione della fede è oggi quanto mai ampia: lo testimoniano molteplici segnali, dal diffondersi dei “racconti di esperienze” alla produzione di svariati modelli di catechesi biblica narrativa, dall’interesse alla “narratologia” e alla “retorica” nell’interpretazione dei testi sacri alla “teologia narrativa”. Questo “ritorno al racconto” - dopo una lunga fase in cui si è privilegiata la presentazione della “dottrina” in formulazioni il più possibile precise -  può essere meglio compreso se lo si considera nel più generale orizzonte storico-culturale della parabola di ascesa, trionfo e crisi della moderna razionalità ideologica e delle sue strategie argomentative. Il processo è così descritto da Max Horkheimer e Theodor W. Adorno all'inizio della loro Dialettica dell'Illuminismo: “L'illuminismo, nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso, ha perseguito da sempre l'obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma la terra interamente illuminata risplende all'insegna di trionfale sventura”[1]. L’ambizione di una comprensione solare del mondo, tesa a equiparare il reale all’ideale, si è scontrata col ceppo duro della realtà, sempre più ampia e complessa di qualsiasi riduzione ideologica, stimolando la presa di coscienza dell’impossibilità di ricondurre il mondo a formule semplificanti, generatrici di violenza nei confronti di tutto quanto sembrasse opporre loro resistenza. Il sogno dell’emancipazione da ogni dipendenza, proprio della ragione adulta protagonista dell’epoca dei lumi, si è così spesso risolto nelle sue applicazioni al reale in una vasta storia di alienazione, di cui sono tragica prova le atrocità di cui è stato disseminato il cosiddetto “secolo breve” (Eric Hobsbawn), di fatto aperto nel 1914 dallo scoppio della prima guerra mondiale e chiuso nel 1989 dal crollo del muro di Berlino.
    La razionalità argomentativa, presuntuosamente esaltata, si è mostrata inadeguata a garantire e promuovere l’umanità della vita per i singoli e per i popoli. La storia dell’inaudito bagaglio di sofferenza, frutto della violenza prodotta dalle pretese dalla ragione ideologica totalitaria, si è levata come un “contro-canto” teso a denunciare ogni riconciliazione astratta. Una prima reazione a questo processo ha indotto l’“homo emancipator”, al tempo stesso portatore e prodotto dell’ideologia, a crearsi dei meccanismi di autogiustificazione: è avvenuto così che il soggetto, affermatosi come unico protagonista della storia in forza del rifiuto del Trascendente operato dalla ragione emancipante, ha cercato altri soggetti su cui scaricare la responsabilità del fallimento, soggetti trascendentali (la natura, lo Spirito, come nell’idealismo) o soggetti storici (gli avversari, i nemici del proletariato, come nel marxismo). In tal modo, però, la ragione argomentativa ha spodestato se stessa: cercando altri soggetti cui imputare la storia della colpa, per riservare a sé la storia del successo, essa ha evidenziato la sua radicale incapacità a conciliare le contraddizioni del reale. In modo clamoroso, la razionalità ideologica si è rivelata muta di fronte al dolore dei vinti, a quell’effettiva e vasta storia della passione, che abbraccia anche la sofferenza dei morti. È andata così emergendo la chiara consapevolezza che “nessun miglioramento intramondano delle condizioni di libertà è sufficiente a rendere giustizia ai morti, nessun miglioramento raggiunge, trasformandoli, il torto e il non-senso delle sofferenze passate. Una storia emancipatoria della libertà, che sopprima o soppianti questa figura della storia della passione, diventa essa stessa la storia dimezzata, astratta, della libertà; il suo progresso, alla fine, diventa la marcia verso l’inumanità”[2]. La dialettica della ragione emancipante esige allora un superamento di essa, che può avvenire solo lì dove la colpa sia confessata ed assunta responsabilmente e sia spezzata la ferrea legge del “vae victis” in una reale solidarietà salvifica al dolore dei morti. Ciò non è possibile con una sorta di giustificazione puramente argomentativa, perché questa non sfugge al rischio di una conciliazione che resta “astorica e perciò sempre sospetta di mitologia”, volando alta “sulle teste degli uomini piegati, umiliati, distrutti dalla loro storia di passione”[3]. Ciò che urge è ritornare al concreto, a quella vita reale che proprio il racconto meglio esprime nelle sue incompiutezze e nelle sue possibilità aperte.
    La sfida che ne risulta si rivolge in modo particolare al pensiero e alla comunicazione della fede cristiana, chiamata a rendere ragione della propria “pretesa” di salvezza universale in Gesù Cristo senza cadere in formule astratte o cedere a riduzioni ideologiche del messaggio biblico. Il problema - che può essere riconosciuto come quello “centrale dell’attuale teologia in generale” - è di individuare “una ‘mediazione’ teologica tra redenzione e storia”, che prenda sul serio i due termini del rapporto, senza cadere “in un’ardua, audace e, alla fine, illusoria conciliazione speculativa”[4]. La scelta che si profila - coincidente anche con l’approdo più maturo delle ricerche della “critica biblica” degli ultimi due secoli - va nella direzione di una riscoperta dell’affidabilità delle narrazioni neotestamentarie e del loro valore esemplare anche dal punto di vista del modo di comunicare la fede. Dopo l’abbandono dell’“innocenza narrativa pre-critica” nella lettura dei Vangeli, consumatosi a partire dal “secolo dei Lumi” e portato al suo apice dagli sviluppi della critica ispirata alla ragione illuministica nella cosiddetta “Leben-Jesu-Forschung” (“ricerca sulla vita di Gesù”) di stampo liberale, è andato maturando fra gli esperti un consenso sempre più largo intorno a sorta di “innocenza narrativa post-critica”, che dia credito alla storicità dei racconti evangelici, evidenziandone l’affidabilità e la normatività. Si ritorna all’autorità del racconto delle origini, cui ci si sente chiamati a corrispondere narrando per l’oggi la medesima storia di rivelazione: non si tratta certo di ingenuità pre-critica, ma appunto di “una ‘seconda innocenza’, vale a dire di una narratività ormai passata attraverso la neutralità ‘libera da valori’ delle scienze e l’interiorizzazione della coscienza e approdata al convincimento che da una parte si può cominciare troppo presto a raccontare storie (coprendo così molte ingiustizie, mancanza d’amore e problemi reali); e d’altra parte che quando la ragione, dopo tutte le analisi e interpretazioni, non è più in grado di esprimere teoricamente quanto effettivamente resta ancora da dire, sarà spinta a enunciare quel ‘di-più’ nella realtà che le sfugge in racconti e parabole. Così anche la cristologia argomentativa dovrà sfociare in un racconto su Gesù, una cristologia narrativa, non in un ‘sistema cristologico’ teorico e onnicomprensivo”[5].

    2. Le ragioni del narrare e la comunicazione della fede in Gesù Cristo

    Di fronte ai fallimenti della cosiddetta “soteriologia argomentativa” si può dunque pervenire alla tesi che una dottrina e una comunicazione della salvezza offerta in Gesù Cristo, “che non condizioni o sospenda la storia della salvezza e che non ignori o superi dialetticamente la non-identità della storia della passione non può essere di carattere puramente argomentativo, ma dovrà essere esplicitata sempre anche in modo narrativo; sarà fondamentalmente una teologia memorativo-narrativa”[6]. Più di ogni altra forma di pensiero, il ricordo narrante della “historia salutis” offre “la possibilità di esprimere la salvezza nella storia - che senz’altro è storia di sofferenza - senza una riduzione di entrambe”[7]. Nei confronti della costrizione logica, imposta dalla mediazione speculativa, “il racconto opera in modo poco appariscente e senza pretese. Non possiede la chiave dialettica, né la deriva dalle mani di Dio, una chiave che consentirebbe di mettere in luce tutti i processi oscuri della storia senza averli prima percorsi e superati. Eppure non si muove nemmeno nel buio”[8]. Si potrà allora tentare una “breve apologia del narrare”, tesa a giustificare l’uso della memoria narrativa nel pensiero e nella comunicazione della fede. Il primo argomento a favore del “confessare narrando” la fede nel Crocifisso Risorto deriva dalla natura stessa dell’esperienza cristiana: “Il cristianesimo, in quanto comunione dei redenti in Gesù Cristo, non è, fin dall’inizio, primariamente una comunione di interpretazione e argomentazione, ma una comunione memorante e narrativa... Il lógos della croce e della risurrezione ha un’indispensabile struttura narrativa... Lo scambio di un’esperienza di fede... non ha la forma dell’argomento, ma del racconto”[9]. Il cristiano che narra non si muove in terra straniera: si inserisce al contrario nella concreta prassi della fede, nella tradizione narrativa, viva e contagiosa, che dalle origini ad oggi ha trasmesso e attualizzato nel tempo la memoria evangelica. Di conseguenza, una comunicazione della fede “che abbia smarrito la categoria del narrare, o che la consideri teoreticamente come forma precritica di espressione, riuscirà soltanto a comprimere le esperienze genuine ed originarie della fede nell’in-oggettività e nel mutismo... Su questa via la stessa esperienza di fede si renderà indeterminata e il suo contenuto persisterà soltanto nel linguaggio dei riti e dei dogmi, mentre la figura narrativa, che in essi si è tramutata in formula, non riuscirà più a mostrare il vigore dello scambio d’esperienza”[10].
    Un secondo argomento a favore di una ripresa narrativa nella interpretazione e nella comunicazione della fede è riconducibile al “senso pratico e performativo del racconto”: la narrazione tende per sua natura a coinvolgere e modificare tanto il narratore, quanto il destinatario. Esempi quali i racconti dei Chassidim per la tradizione ebraica[11] o le tradizioni narrative della religiosità popolare e i “racconti di esperienza” per quella cristiana rivelano “in modo del tutto singolare il carattere pratico - liberante delle narrazioni”, e mostrano in modo convincente “come il racconto tenda alla comunicazione pratica dell’esperienza in esso riassunta e come il narratore e gli ascoltatori vengano inseriti nell’esperienza narrata”[12]. Nel racconto opera in modo evidente l’interesse, che soggiace d’altronde a ogni forma di conoscenza, anche a quella puramente teorica e astratta: in esso però l’interesse è direttamente finalizzato a suscitare l’esperienza, a fare della narrazione un’“azione linguistica”, nella quale la parola sia efficace per la vita. Si comprende come questo aspetto sia importante per la comunicazione della fede, chiamata non solo a interpretare, ma a trasformare la prassi. È peraltro un dato di fatto - oggi particolarmente verificabile - che moltissimi gruppi e movimenti cristiani “non argomentano, ma narrano, o meglio si sforzano di narrare. Raccontano le loro storie di conversione, ripetono i racconti biblici”: rifiutare a priori questo fatto sarebbe un grave errore. “Non si sta qui affermando qualcosa - si chiede Johannes Baptist Metz - che nella vita pubblica e ufficiale del cristianesimo sembrava troppo represso?”[13]. Non emerge qui la forte valenza pastorale di una ripresa narrativa nel pensiero cristiano? Si potrebbe certo obiettare che questo effetto pratico-critico del narrare rischia di essere una sorta di ricaduta nella sfera del privato o del gusto estetico. Senza dubbio il rischio c’è: bisogna tuttavia ricordare che si danno storie e storie. “Non esistono forse anche nella nostra epoca cosiddetta post-narrativa, narratori delle più diverse specie, che fanno capire ciò che le storie possono essere [...] e appunto non soltanto creazioni artistiche, produzioni qualsiasi, private, bensì racconti con effetti stimolanti nella società, in certa misura critico-sociali, quindi ‘storie pericolose’?”[14].
    Infine, è necessario rilevare a favore della mediazione narrativa il senso fortemente teologico che essa racchiude: narrare non è solo rispondere a un’istanza pedagogica. “Una distinzione del tipo: la predicazione narra - la teologia argomenta è troppo affrettata, superficiale, e compromette la struttura in cui si articola la teo-logia”[15]. La distinzione da richiamare è piuttosto quella che fa Pascal nel suo Memoriale fra “il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio narrato, e il Dio della ragione puramente argomentativa, il Dio dei filosofi”[16]. Riesporre fedelmente la parola del Dio vivo, mediare autenticamente fra la salvezza e la storia umana della sofferenza, significa per la fede cristiana tener desta la “memoria pericolosa” delle gesta di redenzione operate dal suo Signore, per attualizzarle in modo sempre nuovo nel presente. Non si tratta di sostituire alla teologia argomentativa una nuova teologia, puramente narrativa: “Si tratta piuttosto di relativizzare la teologia argomentativa, che in primo luogo ha il compito di garantire il ricordo narrativo della salvezza nel nostro mondo scientifico, di porlo criticamente in gioco nella sospensione argomentativa e di indirizzarlo sempre di nuovo verso un racconto, senza che l’esperienza della salvezza rimanga muta”[17]. Si tratta di riconoscere la struttura fondamentalmente narrativa della ragione critica, anche teologica, che non è mai oggettiva e disincarnata rispetto alla tradizione viva in cui è posta, ma che ha bisogno di ricordo, e perciò di narrazione, per non svilire la sofferenza passata e non cedere alla tentazione di una conciliazione astratta.
    Solo le tante storie di passione, richiamate dalla memoria narrativa, “infrangono l’incantesimo di una totale ricostruzione della storia ad opera della ragione astratta, sconfessano il tentativo di ricostruire la coscienza procedendo dall’unità astratta dell’‘Io penso’ e mostrano invece come la nostra sia una coscienza ‘impigliata in storie’, che rimane orientata verso una identificazione narrativa e che non può rinunciare, dopo la dissoluzione della figura argomentativa dell’‘historia magistra vitae’, dopo la detronizzazione del ‘magistero’ della storia, al ‘magistero delle storie’”[18]. Il racconto si rivela particolarmente adatto a garantire alla ragione teologica, e in generale alla ragione critica, la capacità di prendere sul serio la storia umana; il racconto consente al pensiero di mediare in maniera particolarmente sensata i contenuti della storia salvifica nella storia presente. Una teologia o una catechesi che in nome delle esigenze critiche sacrificassero la narratività considerandola prescientifica e ingenua, sarebbero perciò non solo una falsa teologia e una catechesi insufficiente, ma anche una teologia e una catechesi falsamente critiche. Il compito che si impone è di porre l’argomentazione a servizio della narrazione, è di narrare in un modo che il racconto risulti sensato per gli uomini e le donne cui ci rivolgiamo. Emerge qui in tutta evidenza il bisogno di assumere coscientemente la circolarità ermeneutica nella comunicazione della fede: narrare è azione del soggetto, che concretamente si situa nella vivente trasmissione dell’oggetto dell’annuncio, per riesporlo nell’oggi con effetto pratico-critico. Ma narrare è anche azione “pericolosa” dell’oggetto, che non si lascia catturare dalle maglie di una dialettica argomentativa, ma le spezza, per parlare sensatamente, nella forza della memoria narrativa, alla storia concreta delle sofferenze umane. La narrazione delle meraviglie della salvezza è la storia di un incontro col Dio vivente che diventa a sua volta incontro che apre futuro e fa nuova la storia presente facendovi irrompere il domani da Lui promesso e donato.

    3. La forza performativa del racconto e l’esperienza del Vivente

    La prassi sta così all’inizio e alla fine di questo processo del ritorno al narrare: è insieme l’esperienza universale delle storie umane di dolore e la prassi della comunione memorante-narrativa in cui è trasmesso efficacemente l’annuncio della salvezza. La comunità narrante fa memoria al tempo stesso della storia normativa e fontale della redenzione e delle tante storie di passione per non dimenticare il dolore dei vinti e per non conciliare astrattamente le contraddizioni del reale. Nel narrare soggetto e oggetto si coniugano in una feconda, costante reciprocità e teoria e prassi si rapportano non solo come teoria della prassi e prassi della teoria, ma anche come teoria nella prassi e prassi nella teoria, come memoria narrativa al centro della ragione critica e come vivente sequenza pratica del santo ricordo della nostra salvezza. Il racconto è “storia aperta” che rimanda a un prima, fatto di preparazione e di attesa, e dischiude a una sua continuazione nella vita di chi narra e di chi ascolta. Proprio così il racconto ha una forza “performativa”, tale cioè da unire narratore e destinatario in una medesima esperienza di coinvolgimento e di trasformazione: è quanto mostrano le testimonianze delle origini del movimento cristiano raccolte nel Nuovo Testamento. Nella sua forma propria il Vangelo è il racconto di una storia, che unisce in maniera paradossale la vicenda terrena del Profeta galileo e la sua esaltazione gloriosa, affermando una vera e propria “identità nella contraddizione” fra il Crocifisso e il Risorto. Questa “identità nella contraddizione” non verrebbe però annunciata se chi l’annuncia non fosse convinto del suo significato salvifico per chiunque la riconosca: in altri termini, chi proclama l’“identità nella contraddizione” fra l’Umiliato e l’Esaltato lo fa perché ha sperimentato in se stesso una sorta di “contraddizione nell’identità”, scaturita dall’incontro col Vivente. Lo stesso fuggiasco del Venerdì Santo, pavido e deluso, è divenuto il testimone convinto e audace, che non esiterà a dare la vita per la confessione del Nome al di sopra di ogni altro nome, il Cristo Gesù. E la proclamazione della buona novella è tesa a sua volta a suscitare una terza “identità nella contraddizione”, quella fra il destinatario dell’annuncio come era prima e lo stesso come sarà dopo aver accolto il Vangelo.
    È di questo triplice paradosso che vive la trasmissione della buona novella, specialmente attraverso i “racconti pasquali” in cui si narra l’esperienza dell’incontro con il Risorto, che ha suscitato la vita nuova nel cuore dei discepoli e li ha spinti a confessare il Nazareno come Signore e Cristo, rileggendo il loro passato con Lui, il loro presente e il futuro della storia nella luce di Lui, risorto dai morti e vivente nello Spirito. Dall’esperienza fatta con il Vivente il testimone passa alla narrazione di quella stessa esperienza al fine di suscitare nella vita di chi lo ascolta un’analoga esperienza di trasformazione e di gioia. Il ricorso all’idea di “esperienza” per descrivere questo processo mette bene in luce la capacità performativa dei racconti che sono all’origine del cristianesimo e che sempre di nuovo suscitano nella storia la sequela di Gesù. Composto da “ex” e “perior”, il termine latino “experientia” evoca da una parte un “uscire da” ed “andar verso”, dall’altra - grazie all’uso del verbo “perior”, presente solo in termini composti - denota i due campi di significato legati a questa parola, espressi rispettivamente dai termini “peritus” e “periculum”: “peritus” è chi ha una conoscenza immediata e diretta delle cose; “periculum” dice il rischio, la prova, la componente imponderabile connessa ad ogni contatto diretto e immediato, cui ci si apre oltrepassando una soglia (alla stessa etimologia si collegano parole come “porta” e “porto”). L’esperienza è un arrischiarsi verso l’ignoto, caratterizzato dall’immediatezza della visione e del sapere. La conoscenza di esperienza è dunque concreta e diretta, non basata sul sentito dire, ma sul contatto personale, tale da coinvolgere la totalità del protagonista sul piano sensibile e su quello intellettuale, implicando  rischio ed audacia e stimolando la persona ad essere attiva di fronte a ciò che accade: una conoscenza non risolvibile nel solo mondo interiore.
    Le caratteristiche appena descritte del “fare esperienza” vengono ad attuarsi puntualmente nelle narrazioni dell’incontro pasquale con il Signore Gesù: anche in esse c’è un’immediatezza, riscontrabile nell’incontro personale, diretto e trasformante con il Vivente. Anche in esse c’è un rischio: la prova è implicata nel fatto che attraverso il visibile e l’udibile il protagonista umano dell’incontro è chiamato ad aprirsi all’invisibile e al non detto, silenzioso e raccolto, fino a riconoscere il Signore in Colui che si mostra vivente. E tutto questo avviene nella decisione libera della donazione di sé al Dio che si rivela, sorgente di testimonianza e di missione. È quanto il racconto della fede in Gesù Cristo è chiamato sempre di nuovo a realizzare nella vita di chi narra e di chi ascolta. In ciò che è specificamente cristiano, tutto nasce da questa narrazione, che è la buona novella, e tutto deve continuamente ritornare ad essa e a chi ne è garante e testimone nella continuità della missione degli Apostoli, veri narratori e contagiatori dell’esperienza del Signore vivente: lo mostra con commovente eloquenza la testimonianza resa agli inizi del II secolo da Ignazio di Antiochia, che - preparandosi all’imminente martirio per amore di Gesù - così scrive ai cristiani di Filadelfia: “La vostra preghiera mi renderà perfetto in Dio, affinché compia la sorte misericordiosamente assegnatami, rifugiandomi nel Vangelo come nella carne di Gesù e negli Apostoli come nel presbiterio della Chiesa. Amiamo anche i profeti, perché anche loro annunziarono il Vangelo e sperarono in Cristo e lo attesero, lui per mezzo del quale i credenti hanno conseguito la salvezza, permanendo nell’unità di Gesù Cristo, santi nell’amore e degni di ammirazione, partecipi della testimonianza di Gesù Cristo e annoverati nel Vangelo della comune speranza”[19]. Il Vangelo - “narratio Verbi” - è la carne di Gesù, che ci innesta nella Chiesa degli Apostoli, narratori dell’incontro con Lui, e ci unisce da una parte ai profeti dell’attesa, dall’altra al popolo della speranza del compimento pieno e definitivo in Dio. Rifugiandosi in questo Vangelo, il discepolo diviene pronto a rendere la sua testimonianza e a convertirsi così in Vangelo vivente, narrato con l’eloquenza silenziosa del dono di sé fino alla fine, per la gloria di Dio e la salvezza di ogni creatura.

    4. Verso un esercizio concreto del narrare nella comunicazione della fede in Gesù Cristo

    Quali conseguenze sul piano del metodo e della forma retorica comporta questa riscoperta della narratività nella comunicazione della fede in Gesù Cristo? In primo luogo, ciò che si richiede ai comunicatori della fede è il ricorso costante ai racconti originari contenuti nella Scrittura del Primo e del Nuovo Testamento: è la storia dell’amore di Dio per gli uomini, la storia dei Suoi interventi salvifici, quella che va narrata, al fine di inserire nell’esperienza di quell’amore coloro a cui essa viene annunciata. Come sottolinea Agostino nel De catechizandis rudibus – splendida ed attualissima risposta alla domanda “come annunciare la fede in Gesù Cristo ai cercatori di Dio?” – è la narrazione dell’amore che ci precede e ci accompagna la forma di discorso più adeguata a comunicare la gioia e la grazia di questo amore: “Nulla est enim maior ad amorem invitatio quam praevenire amando” – “Non c’è invito più grande all’amore che prevenire nell’amore” (4. 7). E che cos’è la narrazione dei “mirabilia Dei” nella storia della salvezza se non la testimonianza dell’amore che previene e cambia il cuore e la vita? Sono i racconti biblici ad avere forza normativa, non solo dal punto di vista del contenuto della rivelazione, ma anche da quello della forma della mediazione fra la salvezza donata da Dio e l’esperienza degli uomini cui è proposta. L’annuncio e la catechesi o sono fondati nella Parola di Dio, permeati da essa e strutturati sul modello della comunicazione dell’amore salvifico in essa offerto, o risultano svuotati nel contenuto e fragili nella forma della trasmissione del messaggio. La Sacra Scrittura è “norma normans” tanto sul piano dell’oggetto della fede, quanto su quello della maniera storico-narrativa in cui esso è veicolato.
    Questo riferimento decisivo alla Parola di Dio è naturalmente inseparabile dalla mediazione interpretativa: la rivelazione affidata alla Scrittura è vitalmente trasmessa nella tradizione fondata sulla testimonianza degli Apostoli e custodita nella vivente tradizione apostolica. È l’orizzonte unitario della fede trasmessa e ricevuta in questa tradizione vivente che aiuta a cogliere e proporre nella varietà dei racconti biblici il “filo rosso” dell’alleanza, amore offerto dall’alto ed accolto nell’obbedienza della fede. Nell’utilizzazione dei racconti biblici, come di quelli elaborati nella trasmissione della fede e legati al vissuto della santità maturatosi nella storia, occorrerà procedere pertanto secondo le regole fondamentali dell’interpretazione, di quell’atto ermeneutico cioè che consente l’incontro vitale fra il passato narrato e il presente cui si narra. In questo sforzo di mediazione interpretativa tre elementi andranno sempre tenuti in conto: l’estraneità (quella che Hans Georg Gadamer chiama la “Entfremdung”), la corrispondenza (o “coappartenenza” - “Zugehörigkeit”) e la possibile “fusione d’orizzonti” (“Horizontverschmelzung”) fra ciò che è trasmesso e coloro cui viene trasmesso, fra il “narrato” da una parte, e il “narrante”e i destinatari della narrazione dall’altra[20]. Sono i tre elementi cui corrispondono i tre compiti classici della retorica narrativa: “docere” – “delectare” – “monere”. Se il “docere” richiama il primato dell’oggettività del contenuto, cui bisogna accostarsi nella fedeltà critica più rigorosa, il “delectare” evoca la coappartenenza e l’interesse, capace di coinvolgere l’ascoltatore del racconto, mentre il “monere” dice quell’appello alla decisione e al rinnovamento della vita, cui fa riferimento l’incontro espresso dalla “fusione di orizzonti”.
    In primo luogo, bisognerà dunque considerare l’inevitabile distanza ed estraneità reciproca fra il presente e il passato, per accostare gli eventi da narrare con la necessaria discrezione e vigilanza critica che non li subordini all’interesse del presente e non li renda funzionali all’arbitrio soggettivo di chi narra. La mediazione narrativa non esime insomma dal rigore critico, lo esige anzi come condizione di trasmissione onesta e fedele del passato: chi parla di Dio raccontando il Suo amore insegna la verità divina e deve farlo con la cura e il rispetto dovuto al dono che viene dall’alto nelle forme, nelle misure e nei tempi dell’“historia salutis”. In secondo luogo, non va mai persa di vista la coappartenenza del passato e del presente, che è tanto più forte quando si tratta dell’unico soggetto ecclesiale in azione: la fede è comunicabile in quanto risponde a una nostalgia di verità presente originariamente nel cuore di ogni uomo, sorgente di quella inquietudine che dispone il cuore alla ricerca e all’incontro in ogni tempo e in ogni luogo. I personaggi biblici vanno perciò avvicinati con quella “simpatia” che ce li fa cogliere nella loro esperienza di umanità, nelle loro debolezze come nelle loro potenzialità, nel peso delle loro resistenze, nella forza delle loro domande, come nella luminosità della loro accettazione dell’opera di Dio. Solo rispettando contemporaneamente l’estraneità del passato e la sua prossimità al nostro mondo interiore aperto alla ricerca sarà possibile giungere a quella “fusione di orizzonti”, in cui consiste propriamente l’atto interpretativo: narrare sarà allora un’operazione tutt’altro che asettica, rivelando anzi il suo carattere proprio e originale di “memoria pericolosa” capace di suscitare storie, oltre che di ripresentarle, e il luogo proprio del suo realizzarsi efficace sarà la comunità ecclesiale, al tempo stesso soggetto e destinataria della trasmissione della buona novella. La comunità memorante – narrativa ed al tempo stesso interpretante della fede ricevuta e donata è la Chiesa! Si comprende qui come la  comunione con i Pastori e con l’insieme articolato del popolo di Dio sia condizione necessaria dell’autentica comunicazione della fede in Gesù Cristo.
    Esempi di questo tipo di comunicazione si moltiplicano oggi nello scenario dell’annuncio del Vangelo e della catechesi, dalle “scuole della Parola”, alla diffusione del metodo della “lectio divina”, ai cosiddetti “laboratori della fede”.  Peraltro, i momenti propri di questi metodi corrispondono esattamente alle esigenze dell’interpretazione correttamente condotta: così, nella “lectio divina” il momento della “lectio”, rispondendo alla domanda “che cosa dice il testo in sé?”, si fa carico dell’esigenza di rispettare l’estraneità e la lontananza di quanto detto nel testo stesso. Il momento della “meditatio”, che risponde all’interrogativo “che cosa dice il testo a me, a noi?”, fa propria l’urgenza di scoprire la coappartenenza e quindi le corrispondenze profonde fra le situazioni presentate nei testi e coloro cui vengono proposte oggi. Infine, i momenti della “oratio” e della “contemplatio”, dove ci si chiede “che cosa  io dico al Signore che mi parla nel testo?” e “quali doni e frutti di vita nuova Lui vuole operare in me?” realizzano la “fusione di orizzonti” che è propria della comprensione e mediante la quale - nel caso della narrazione di storie - si attua precisamente la dimensione performativa del racconto. La fede narrata si fa così fede celebrata e vissuta. L’esempio più autorevole di questa narrazione comunicativa dei contenuti e dell’atto del credere è offerto dai più antichi Simboli di fede della Chiesa[21]: essi presentano una fondamentale struttura narrativa, al punto che si potrebbe dire che parlano di Dio, raccontando il Suo Amore. È proprio del Simbolo confessare il Dio uno e unico, tre volte Santo, narrando la storia del Padre, creatore e signore del cielo e della terra, quella del Figlio, che si è incarnato ed è morto e risorto per noi, e quella dello Spirito, che anima la Chiesa ed è il vincolo della sua comunione nel tempo e per l'eternità. Perciò, volendo parlare di Dio raccontando il Suo Amore e, al tempo stesso, volendo argomentare pensando a ciò che questo racconto dice alla nostra quotidiana fatica di essere uomini, il Simbolo si offre come una traccia breve e densa, che evoca la storia trinitaria dell'unico Dio, nel quale crediamo, e ci apre a farne esperienza nelle umili e quotidiane storie del nostro cammino. Seguire il racconto del Simbolo e pensarne il significato per la nostra vita e per la storia del mondo è il compito che si prefigge il breve testo con cui concludo. Nato dalla sfida lanciatami a proporre una confessione di fede al tempo stesso narrativa e vicina alla sensibilità del nostro tempo[22], la “confessio fidei – narratio amoris” che segue è articolata nelle tre parti classiche della “formula fidei” e in una conclusione dossologica, tesa a favorire il passaggio dalla parola narrante al silenzio contemplativo ed orante. Ciascuna delle tre sezioni comprende un richiamo alla “economia” della rivelazione, un’evocazione della “immanenza” che in essa si affaccia, e un ritorno al senso che quanto è narrato ed evocato ha per la nostra vita e per la storia. Si procede così di narrazione in narrazione, dal racconto dell’ “historia salutis” a quello - appena evocato, con la discrezione dovuta al Mistero - dell’eterna storia di Dio, fino a quello delle opere e dei giorni in cui la narrazione dell’amore divino continua a compiersi nella vita di chi narrando crede e credendo confessa. La “narratio amoris” tende ad offrirsi come contagiosa e liberante, tanto per il singolo (che - in sintonia con tutta la tradizione occidentale - dice “Credo” alla prima persona singolare, invece del “crediamo” comunitario orientale), quanto per la comunità, cui il singolo sa di appartenere grazie proprio alla confessione dell’unico Padre celeste e all’inserzione nell’unica tradizione vivente della fede che salva (come evidenzia il richiamo al “Dio dei nostri Padri e nostro Dio”). Il linguaggio biblico - continuamente utilizzato, come mostrano anche i rimandi laterali ai testi della Scrittura - e le formule tratte dalla vivente tradizione della fede (così, ad esempio, il “cuore inquieto” agostiniano, o la classificazione delle tappe della vita del Figlio nella carne, o le due complementari letture della Terza Persona, rispettivamente secondo la teologia orientale e quella occidentale) vorrebbero fare di questa confessione memorante-narrativa un aiuto ad immergersi esistenzialmente nella comunione salvifica della Chiesa una nel tempo e nello spazio, per passare appunto di racconto in racconto, “di fede in fede”:


    Confessio Fidei - narratio Amoris
    Confessare la fede narrando l’Amore[23]

    Una confessione di fede cristiana non è altro che la «sanctae Trinitatis relata narratio» (Concilio XI di Toledo: DS 528): il racconto dell'amore del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, cui abbiamo creduto sulla parola dei testimoni delle nostre origini, trasmessa nella vivente tradizione ecclesiale («relata narratio»). Chi confessa la fede, parla di Dio raccontando l'Amore, così come si è rivelato nell'evento trinitario di Pasqua:

    Credo in Te, Padre,
    Dio di Gesù Cristo,
    Dio dei nostri Padri e nostro Dio:
    Tu, che tanto hai amato il mondo                                      Gv 3,16
    da non risparmiare
    il Tuo Figlio Unigenito                                             Rm 8,32
    e da consegnarlo per i peccatori,
    sei il Dio, che è Amore.                                            1 Gv 4,8.16
    Tu sei il Principio senza principio dell'Amore,
    Tu che ami nella pura gratuità,
    per la gioia irradiante di amare.
    Tu sei l'Amore che eternamente inizia,
    la sorgente eterna da cui scaturisce
    ogni dono perfetto.                                                            Gc 1,17
    Ti ci hai fatti per Te,
    imprimendo in noi la nostalgia del Tuo Amore,
    e contagiandoci la Tua carità                                             Rm 5,5
    per dare pace al nostro cuore inquieto a).
    Credo in Te, Signore Gesù Cristo,
    Figlio eternamente amato,                                                 Mc 1,11
    mandato nel mondo per riconciliare                                  Rm 5,10
    i peccatori col Padre.                                                         2 Cor 5,19
    Tu sei la pura accoglienza dell'Amore,                     Gv 17,23
    Tu che ami nella gratitudine infinita,
    e ci insegni che anche il ricevere è divino,
    e il lasciarsi amare non meno divino
    che l'amare.
    Tu sei la Parola eterna uscita dal Silenzio                         Gv 1,11ss
    nel dialogo senza fine dell'Amore,
    l'Amato che tutto riceve e tutto dona.                       Gv 20,21
    I giorni della Tua carne,                                            Eb 5,7ss
    totalmente vissuti in obbedienza al Padre,
    il silenzio di Nazaret, la primavera di Galilea,
    il viaggio a Gerusalemme,
    la storia della passione,
    la vita nuova della Pasqua di Resurrezione,
    ci contagiano il grazie dell'amore,
    e fanno di noi, nella sequela di Te,
    coloro che hanno creduto all'Amore,                                 1 Gv 4,16
    e vivono nell'attesa della Tua venuta b).                   1 Cor 11,26
    Credo in Te, Spirito Santo,
    Signore e datore di vita,
    che Ti libravi sulle acque                                          Gen 2,1
    della prima creazione,
    e scendesti sulla Vergine accogliente                       Lc 1,35
    e sulle acque della nuova creazione.                                  Mc 1,10 par.
    Tu sei il vincolo della carità eterna,
    l'unità e la pace
    dell'Amato e dell'Amante,
    nel dialogo eterno dell'Amore.
    Tu sei l'estasi e il dono di Dio,
    Colui in cui l'amore infinito
    si apre nella libertà
    per suscitare e contagiare amore.
    La Tua presenza ci fa Chiesa,                                   At 1,8
    popolo della carità,                                                            At 2,1ss
    unità che è segno e profezia
    per l'unità del mondo.
    Tu ci fai Chiesa della libertà,                                             2 Cor 3,17
    aperti al nuovo
    e attenti alla meravigliosa varietà
    da Te suscitata nell'amore c).                                             1 Cor 12
    Tu sei in noi ardente speranza,                                  Rm 8
    Tu che unisci il tempo e l'eterno,
    la Chiesa pellegrina e la Chiesa celeste,
    Tu che apri il cuore di Dio
    all'accoglienza dei senza Dio,
    e il cuore di noi, poveri e peccatori,
    al dono dell'Amore, che non conosce tramonto d).
    In Te ci è data l'acqua della vita,                              Gv 7,37-39
    in Te il pane del cielo,                                               Gv 6,63
    in Te il perdono dei peccati                                               Gv 20,22s
    in Te ci è anticipata e promessa
    la gioia del secolo a venire.                                                2 Cor 1,22
    Credo in Te, unico Dio d'Amore,
    eterno Amante, eterno Amato,
    eterna unità e libertà dell'Amore.
    In Te vivo e riposo,
    donandoti il mio cuore,
    e chiedendoti di nascondermi in Te                                   Col 3,3
    e di abitare in me e)  f).                                                        Gv 14,23
    Amen!

    PS Questo testo può essere letto in vari modi:
    - in forma di preghiera, nel clima dell'adorazione e del rendimento di grazie a Dio per le Sue meraviglie;
    - in forma meditativa, soffermandosi su vari passaggi, consultando i testi biblici, cui si rinvia a lato del testo, e rispondendo alle domande poste per il discernimento;
    - in forma comunitaria, commentando insieme ad altri le varie affermazioni con l'aiuto di un catechista, secondo un itinerario di riflessione adatto specialmente all'iniziazione cristiana dei giovani e alla catechesi degli adulti.

    Domande per il discernimento (volte a favorire il passaggio di racconto in racconto):
    a) Come vivo la gratuità dell'amore? prendo l'iniziativa di amare senza aspettare quella dell'altro e senza pretendere la risposta riconoscente?
    b) Come vivo la gratitudine verso l'amore altrui? so lasciarmi amare? so dire grazie con la parola e con la vita?
    c) Come vivo le relazioni di amore in cui il Signore mi ha posto? sono esse libere e liberanti? è il nostro amore esclusivo o è capace di farsi accoglienza e dono per gli altri?
    d) C'è in me lo spirito di possesso geloso, che paralizza la gratuità? c'è l'ingratitudine amara, che paralizza la gioiosa accoglienza dell'altro? c'è lo spirito di cattura dell'amore, che priva della libertà e impedisce l'apertura del cuore a Dio e agli altri?
    e) Che spazio do nella mia vita all'esperienza spirituale della Trinità Santa per lasciarmi educare al dialogo dell'amore, che libera dalla possessività, dall'ingratitudine e dalla chiusura, e rende capaci di cominciare sempre di nuovo nell'amore e di essere liberi e liberanti verso tutti?
    f) Sono pronto a mettermi alla scuola fedele e perseverante della Parola di Dio e a nutrirmi alle sorgenti sacramentali del perdono e della vita nuova nell'amore (penitenza ed eucaristia), per imparare ad amare e crescere nella carità nella comunione della Chiesa?
     

    NOTE

    [1] Einaudi, Torino 1966, 11.
    [2] J.B. Metz, Redenzione ed emancipazione, in Redenzione ed emancipazione, Queriniana, Brescia 1975, 167.
    [3] Ib., 170.
    [4] Ivi.
    [5] E. Schillebeeckx, Gesù la storia di un vivente, Queriniana, Brescia 1976, 73.
    [6] J.B. Metz, Redenzione ed emancipazione, o.c., 173, e Id., Breve apologia del narrare, in Concilium 1973, 872s.
    [7] Ib., 174.
    [8] Ivi.
    [9] Ib., 175.
    [10] Breve apologia del narrare, o.c., 862.
    [11] Cf. M. Buber, I racconti dei Chassidim, Garzanti, Milano 1979.
    [12] J. B. Metz, Breve apologia del narrare, o.c., 864.
    [13] Ib., 866s.
    [14] Ib., 868s.
    [15] Ib., 869.
    [16] Ib., 873.
    [17] Ib., 874.
    [18] Ib., 877.
    [19] Sant’Ignazio di Antiochia, Ad Philadelphenses, 5,1: Funk 1,266; PG 7,700.
    [20] Cf. H.G. Gadamer, Verità e metodo, Milano 19852.
    [21] Cf. il testo classico di J.N. Kelly, I Simboli di fede della Chiesa antica. Nascita, evoluzione, uso del Credo, Dehoniane, Napoli 1987.
    [22] La proposta di scrivere una “confessione di fede” mi fu rivolta dal curatore dell’edizione italiana del testo di Kelly, il patrologo L. Longobardo, e il testo venne di fatto inserito alla fine dell’Introduzione all’edizione italiana del libro, come esempio di una possibile “confessio” narrativa per il nostro tempo: ivi, XXIX-XXXI.
    [23] Nel De catechizandis rudibus 3-4 Sant’Agostino raccomanda la “narratio” della “cura Dei pro nobis” come contenuto proprio della catechesi specie ai neofiti e precisa che la storia biblica va narrata con opportuna sintesi e selezione che privilegi i racconti più coinvolgenti ed edificanti per la fede: quelli in cui l’amore divino che previene e salva più chiaramente si comunica e tocca il cuore e la vita.

    (FONTE: Relazione al Convegno Nazionale dei Direttori degli Uffici Catechistici Diocesani, Olbia, 19 Giugno 2006)


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