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    La decisione a Gerusalemme

    Gehrard Lohfink

    ingresso

    Tutta l'esistenza di Gesù è dedicata al regno di Dio. E il regno di Dio non è qualcosa di vago, di nebuloso. Gesù lavora per il ristabilimento escatologico di Israele, affinché il regno di Dio abbia un posto. Fare spazio, con Israele e in mezzo a Israele, al regno di Dio: di questo si occupano anche le tre azioni simboliche della fine della sua vita. Esse hanno tutte e tre a che fare fra di loro. Di più ancora: sono quanto mai intimamente collegate l'una con l'altra, a cominciare dall'ingresso di Gesù in Gerusalemme su un puledro d'asina, fino alla sua azione nel tempio e all'azione simbolica compiuta con il pane e con il vino durante l'ultima Cena. Non è un caso che queste tre azioni simboliche si svolgano una dopo l'altra alla fine della sua vita.
    Qui sotto sviluppato il primo tema.

    L'ingresso di Gesù nella capitale

    Il racconto più antico [1] dell'ingresso di Gesù nella capitale ricorre in Mc 11,1-11. In esso un ampio spazio è riservato alla ricerca dell'animale da soma. Non meno di due terzi del testo descrivono questo particolare. Evidentemente l'animale su cui Gesù entra in città è della massima importanza per Marco (e quindi per la tradizione a lui precedente). L'episodio della ricerca va messo in risalto: si trattava di un giovane asino, e Gesù aveva pianificato questo tipo di ingresso, che viene poi descritto in maniera relativamente concisa:

    Portarono il puledro da Gesù, vi gettarono sopra i loro mantelli ed egli vi salì sopra. Molti stendevano i propri mantelli sulla strada, altri invece delle fronde, tagliate dai campi. Quelli che precedevano e quelli che seguivano, gridavano: «Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Benedetto il regno che viene, del nostro padre Davide! Osanna nel più alto dei cieli!». Ed entrò a Gerusalemme, nel tempio (Mc 11,7-11).

    L'ingresso è quindi accompagnato da molti pellegrini, che si trovano in cammino con lui verso la capitale. Che cosa intendono dire con la loro esclamazione? Essa deriva in parte da Sal 118,25-26. Con l'esclamazione «Benedetto colui che viene nel nome del Signore» erano salutati da lontano gruppi piuttosto numerosi di pellegrini, e precisamente nel momento in cui essi stavano per arrivare ai confini dell'area del tempio. Quí questa esclamazione di accoglienza è trasformata in un'acclamazione, che è diretta esclusivamente a Gesù e che è ampliata con una lode rivolta al regno di Davide che sta per irrompere, quindi al regno messianico. Inoltre, qui l'esclamazione parte dallo stesso gruppo dei pellegrini.
    Soprattutto però bisogna notare una cosa, che non è subito chiara ad ogni lettore odierno: quanto è descritto da Marco non è altro che un ingresso regale. Non si tratta affatto del giubilo abituale, con cui si accoglieva un qualsiasi gruppo di pellegrini, quando prima di una festa esso arrivava vicino al tempio. Viene piuttosto descritto l'ingresso di un re nella sua città, l'entrata del Messia in Sion. Egli prende in certo qual modo possesso della propria città.
    Che questa sia precisamente l'intenzione del racconto lo mostra l'asino, che nell'Antico Testamento, vale a dire in Zc 9,9 e Gen 49,11, è indicato come cavalcatura del Messia. Non ci può essere alcun dubbio che con l'espressione «giovane asino» il racconto alluda a Zc 9,9 [2], dove leggiamo:

    Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d'asina.

    Gli aggettivi «giusto», «vittorioso» e «umile» di questo testo hanno bisogno di essere spiegati. Questo re è «giusto», perché egli è finalmente davanti a Dio e, per mezzo della grazia di Dio, il sovrano che fa pienamente la volontà di Dio. È detto "vittorioso", perché Dio l'ha salvato dal bisogno (in ebraico nUcil. È detto "umile", perché è un semplice, un povero davanti a Dio. Segno esterno di ciò è appunto il fatto che egli non cavalca un cavallo da parata, ma un asino, l'animale dei poveri. Egli è il re sospirato, in cui Dio ha trovato il proprio compiacimento.
    A un ingresso regale alludono anche altri segnali testuali: con rami e mantelli stesi sulla strada le città antiche ricevevano un sovrano regale, e «Osanna» si era già trasformato, da grido di invocazione qual era in origine («Aiuta! Dona salvezza!»), in una acclamazione di saluto e di omaggio. Anche se in esso dovesse ancora riecheggiare il fatto che l'esclamazione «Osanna!» era originariamente diretta a Dio, in ogni caso essa introduce perlomeno il successivo omaggio «Benedetto colui che viene». E tali parole sono rivolte a Gesù. Il racconto descrive pertanto un ingresso regale, una "presa di possesso" della città [3].
    Se ci interroghiamo sull'evento storico in quanto tale, non c'è alcun valido motivo per mettere in dubbio un ingresso di Gesù, nel corso del quale egli fu acclamato come Messia. Egli non era infatti solo circondato da pellegrini entusiasti e festanti provenienti dalla Galilea, che avevano visto i suoi prodigi o ne avevano sentito parlare, da ultimo anche della guarigione del cieco mendicante Bartimeo a Gerico (Mc 10,46-52). Evidentemente c'erano già stati anche prima in Galilea dei tentativi di proclamarlo (Messia-)re (Gv 6,15).
    La questione decisiva è quella di sapere come egli si comportò nei confronti di tutto questo. «Nell'atmosfera di Gerusalemme» si erano solo condensate le «aspettative messianologiche davidiche» del popolo [4], per poi riversarsi per così dire sopra di lui? Come a dire contro la sua volontà? Così la pensano oggi molti studiosi del Nuovo Testamento e dicono: Gesù non ha affatto voluto tutto questo, o – in termini ancor più radicali – tutto questo è stato un semplice ingresso di numerosi pellegrini nella capitale. Solo la leggenda cristiana ne ha fatto, dopo la Pasqua, un ingresso regale.
    Io non riesco a condividere questo scetticismo. Esso ha poco a che fare con la critica storica e molto invece con la volontà di crearsi un Gesù comodo e adattato, che si inquadra nelle nostre odierne idee e offre la minor resistenza possibile all'osservatore. Sono convinto che Gesù sia effettivamente entrato nella città su un asino, la cavalcatura dei poveri e della piccola gente, e che lo abbia fatto volutamente secondo l'indicazione di Zc 9,9.
    Nei testi non esiste da nessuna parte anche solo il minimo indizio che, nel corso di questo ingresso, egli abbia preso le distanze dalle esclamazioni della folla che lo accompagnava. Con l'ingresso in groppa a un giovane asino egli volle porre consapevolmente un segno evidente. Volle entrare nella città come re povero e disarmato, come Messia della pace secondo Zc 9,9 e come proclamatore del regno di Dio secondo Zc 14,9 («Il Signore sarà re di tutta la terra»). Il radicale rifiuto di ogni violenza, che viene formulato subito dopo Zc 9,9 («Farà sparire il carro da guerra da Efraim e il cavallo da Gerusalemme, l'arco di guerra sarà spezzato, annuncerà la pace alle nazioni»), corrispondeva esattamente alla comprensione che Gesù aveva di sé. Evidentemente egli conosceva Zc 9,9 e riferì questo testo a se stesso. Abbiamo infatti visto (cf. cap. 11) che egli aveva letto la sua Bibbia con una incredibile sensibilità per l'essenziale.
    Se nel caso del suo ingresso nella città egli agisce volutamente secondo il dettato del libro di Zaccaria, allora ciò presuppone naturalmente anche che egli si sia dato in quell'ora pubblicamente a riconoscere come Messia. A proposito della sua consapevolezza di essere il Messia dovremo ancora parlare diffusamente in un altro punto (cf cap. 19: «L'autorità rivendicata da Gesù»). Qui anticipiamo solo questo: Gesù si comportò con estremo riserbo nei confronti del termine «Messia». Tale termine poteva essere troppo facilmente frainteso in un senso politico. Inoltre l'autorità da lui rivendicata sconfessava una concezione del Messia allora in parte superficiale. Tuttavia già lo stesso Antico Testamento offriva sufficienti punti di aggancio per comprendere più a fondo il termine, per modificarlo, per purificarlo e per concepirlo addirittura in un modo nuovo, pur astraendo completamente dal fatto che al tempo di Gesù l'attesa del Messia era più multiforme di quanto spesso si ritenga. Partiremo da questo fatto. Quando il popolo ha esclamato: «Benedetto il regno che [adesso] viene del nostro padre Davide», Gesù deve averlo compreso in una maniera più profonda di quella in cui lo comprendevano molti di coloro che così esclamavano. Egli dovette farsi carico del possibile fraintendimento.
    La presa di possesso della città deve essere stata per lui così importante che in questo caso mise in conto possibili fraintendimenti. L'ingresso trionfale nella città corrispondeva alla sua concezione del regno di Dio. Il regno di Dio stava per arrivare. Esso doveva essere proclamato dappertutto, ma soprattutto nella capitale. E non solo doveva essere proclamato, ma essere reso presente attraverso di lui, il rappresentante del regno di Dio, nel segno. Perciò appunto anche l'azione nel tempio, che è strettamente collegata con la presa di possesso della città [5].
    Se Gesù volle entrare ín Gerusalemme come il re umile di Zc 9,9, ciò presuppone infine che egli avesse le idee chiare a proposito di una cosa: tutto si sarebbe deciso in Gerusalemme. Si sarebbe arrivati al confronto decisivo. Verosimilmente egli non si fece illusioni sull'esito di tale confronto. Ma doveva chiamare Gerusalemme a decidersi. Là infatti c'era il tempio. Là era il centro di Israele. Là il popolo di Dio si radunava per la grande festa annuale. Là tutto Israele era rappresentato in occasione della festa della Pasqua, e la proclamazione del regno di Dio richiedeva la più grande pubblicità possibile. Perciò un ingresso provocatorio nella città era indubbiamente opportuno.
    Parto perciò dal fatto che gli evangelisti interpretarono nel modo giusto l'ingresso di Gesù nella città di Gerusalemme. Gesù voleva porre, nella scia del libro di Zaccaria, un segno. Con ciò non abbiamo però affatto risolto la questione di sapere fino a che punto egli sia stato indotto a porre questo segno piuttosto dall'esterno, cioè dalla situazione che andava creandosi a mano a mano che egli si avvicinava alla città, o fino a che punto sia stato lui a metterlo volutamente in opera. In ambedue i casi sarebbe infatti vera una cosa: il suo ingresso diventa l'azione simbolica eloquente che grida ad alta voce (cf. Lc 19,40), e anche lui l'ha così voluta [6].


    NOTE

    1 Un'altra redazione complessivamente più recente propone Gv 12,12-19. Matteo e Luca dipendono invece dalla redazione di Marco.
    2 In Gv 12,12-19 il testo di Zaccaria è espressamente citato. In Marco invece vi si allude solo.
    3 In questo senso depongono molti casi paralleli dell'antichità. Cf spec. E. PETERSON, Die Einholung des Kyrios, in ZSTh 7 (1930) 682-702. Per la stesura di indumenti in segno di omaggio, cf 2 Re 9,13 e Acta Pilati 1,2 [ed. it., Memorie di Nicodemo (o Atti di Pilato), in Apocrifi del Nuovo Testamento I, UTET, Torino 1971, 542].
    4 Così J. ROLOFF, Jesus, München 20074, 107 [trad. it., Gesù, Einaudi, Torino 2002].
    5 In Matteo l'azione del tempio viene subito dopo l'ingresso nella città (21,10-12), così come in Luca (19,37-46). Invece Marco (e la tradizione a cui egli si rifà) frappongono fra l'una e l'altro un giorno (11,11-15).
    6 M. HENGEL - A.M. SCHWEMER, Jesus und das Judentum, Tübingen 2007, 554, dicono giustamente: «Perché mai Gesù, guardando al tempio e alla città santa, che si stendeva in tutto il suo splendore sotto i suoi occhi, non dovrebbe aver compiuto un'azione simbolica messianica, così come aveva fatto prima con la costituzione dei Dodici e come farà dopo con la purificazione del tempio e con l'ultima Cena?».

    (Gehrard Lohfink, Gesù di Nazaret. Cosa volle, chi fu, Queriniana 2014, pp. 297-301)


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