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    Il mistero inesauribile

    della vita di Gesù

    Enzo Bianchi

    La Chiesa è comunione. Questa verità va costantemente fondata sulla grande tradizione della Chiesa. E la radice delle radici è, ovviamente, il Vangelo. Vorrei, dunque, per una volta soffermarmi sul mistero inesauribile della vita di Gesù: capire “dove egli è andato”, cioè come ha vissuto, è essenziale per comprendere “dove va la Chiesa”, in ogni tempo. Gesù non ha fatto una teoria sulla comunione, ma ha mostrato come viverla attraverso una prassi di amore, fino a esprimere “il comandamento nuovo”, cioè ultimo e definitivo: «Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati» (Gv 13,34; 15,12). Ma, soprattutto, Gesù ha praticato l’amore «fino alla fine, fino all’estremo» (eis télos: Gv 13,1). Vorrei, dunque, tentare una rilettura della sua prassi dall’ottica del nostro stile di vita. Ovvero, non citerò brani evangelici, ma vorrei tenerli sullo sfondo, per vedere come essi agiscono su noi suoi discepoli e discepole, nel nostro stile di vita quotidiano. In quale modo lo stile di vita di Gesù plasma e ispira il nostro vivere la comunione?
    Gesù ha vissuto l’amore, innanzitutto, offrendo il suo tempo e la sua presenza. Oggi la contraddizione all’amore autentico viene soprattutto dalla mancanza di tempo, dal non dare all’altro la propria presenza. I ritmi della vita, gli impegni di lavoro, le molteplici cose da fare, le scadenze che ci paiono inderogabili, tutte queste realtà ci mangiano il tempo. Sicché, pur avendo tempo per molte altre cose, non abbiamo più tempo per le cose gratuite, quelle che non ci portano guadagno. Ci manca il tempo dell’incontro: incontriamo le persone che dobbiamo incontrare per ragioni di lavoro, anzi cerchiamo di moltiplicare gli incontri che possono “rendere”, ma non c’è più tempo per l’incontro che non fa parte del nostro lavoro e che non ci fa guadagnare. Dare tempo per amore, dare la presenza all’altro senza fare nulla e anche senza dire nulla, ci sembra tempo sprecato. Eppure non c’è amore dove non c’è presenza dell’uno all’altro.
    Gesù, inoltre, ha avuto una grande attenzione per l’altro, a cominciare dal suo corpo. Occorre avere la percezione che l’altro non è un partner ideale davanti a me, né un tu qualsiasi, un altro e basta, ma è un corpo con cui devo relazionarmi, un corpo che aspetta da me degli atteggiamenti, un linguaggio, perché per comunicare i corpi devono esprimersi. Si tratta, dunque, di riconoscere il corpo dell’altro realmente, non di definirlo solo in base a criteri di bellezza, avvenenza, crescita sana.
    È normale che un corpo seduca, attragga, interessi, oppure respinga e faccia provare repulsione. Al riguardo, per incontrare l’altro occorrono molta attenzione, molta sapienza, molto esercizio per disciplinare le nostre emozioni e i nostri sentimenti: non possiamo amare l’altro solo se ci piace! È facile provare sentimenti di attrazione per chi è bello, giovane, piacevole, ma per amare l’altro occorre accogliere innanzitutto quel preciso corpo, perché la sua vita che voglio e devo incontrare è inscritta in quel corpo, nei suoi occhi, nelle sue labbra, nelle sue mani… L’altro non ha un corpo: è un corpo! Se è un corpo, allora non posso accendere l’amore senza accogliere il suo corpo. Solo attraverso il corpo passa l’amore. Non esiste un contatto, una relazione con una persona, che non passi attraverso la relazione con il suo corpo. Chiediamoci semplicemente: perché Francesco di Assisi ha baciato un lebbroso? Non ha amato un lebbroso facendogli la carità o pregando per lui: l’ha baciato! Nella relazione è anche il corpo che parla: parla da giovane e da anziano, da sano e da malato, da bello e da brutto. Va detto che ogni corpo è una persona, ogni corpo — dice il cristiano — è “tempio dello Spirito santo” (1Cor 6,19). Ogni corpo è un membro del corpo di Cristo.
    Gesù ha voluto entrare in relazione con gli altri interrogandoli, conversando e dialogando. Per crescere nella conoscenza e nell’amore occorre avvicinarsi all’altro, accogliere il suo corpo con attenzione e quindi entrare in dialogo con lui, ascoltandolo e parlandogli. Si inizia ascoltando l’altro, restando silenziosi, a volte ascoltando il silenzio dell’altro. Occorre poi intervenire, magari rispondendo o ponendo domande, ma sempre con un atteggiamento che dica l’interesse per la relazione. Solo a queste condizioni si accende la comunicazione: comunicazione di parole, di silenzi, di gesti, di sguardi, di un “toccare” l’altro. La comunicazione è vitale, per questo esige che vi siano impegnati il cuore, la mente, il corpo con i suoi atteggiamenti.
    Se uno non ascolta, non si predispone ad amare, non può accedere all’amore; e se uno non parla, non entra nella dinamica dell’amore, perché non parlare è il primo modo per sottrarsi alla relazione e per negarla. Sincerità e verità diventano allora assolutamente necessarie alla comunicazione e rendono possibile l’edificare la relazione nell’amore. Si pensi solo a una parola semplice eppure così decisiva: «Io ti amo», parola detta in sincerità, detta come confessione e promessa. Parola che sempre sottintende la domanda: «E tu mi ami?», attendendo una risposta. In queste parole si gioca “il senso dell’eternità” che ogni essere umano porta in sé!
    In ogni relazione d’amore accade, tuttavia, che il male prevalga sul bene, che l’amore sia tradito, si ammali, sia contraddetto. Nessuna illusione: nell’amicizia, nella storia dell’amore vissuta nel matrimonio, nei rapporti di amore prima o poi avviene una contraddizione. A volte è uno che viene meno, mentre l’altro resta saldo; a volte entrambi i partner dell’amore diventano infedeli l’uno all’altro. Ciò accade, ma non dev’essere così deludente da impedire la relazione d’amore, né essere giudicato quale morte dell’amore. Bisogna prepararvisi, metterlo in conto anche quando ci si promette reciprocamente la fedeltà. Anzi, occorrerebbe che chi ama metta in conto che l’altro mancherà e, di conseguenza, si impegni a perdonare per ripartire, per ricominciare, fino a dimenticare il venire meno dell’altro. Qui si misura la maturità dell’amore: amore vissuto concretamente, non idealizzato, amore innestato in ciò che io sono e in ciò che l’altro è.
    Ecco perché è decisiva la capacità, la volontà, la responsabilità del perdonare, sulla quale Gesù ha dato l’esempio fino alla fine. Perdonare è amare con coraggio, è credere che l’amore che si vive è più forte delle contraddizioni che riceve. Chi ha un cuore che sa perdonare, ha un cuore grande, abitato dall’amore, un amore che sa accogliere dall’altro non solo la bellezza, le virtù, i doni, ma anche i difetti, le fragilità, le cadute, anche le cattiverie. A volte il cammino di chi ama è gravemente ferito, quasi impossibile da percorrere: in questi casi occorre fermarsi, sostare, non muoversi, restare in attesa dell’altro che si è smarrito… Ci vuole molta pazienza e poi, sì, la capacità di perdonare, di riprendere con sé l’altro e di ripartire nell’amore. Questa è la vittoria dell’amore sulla morte che possiamo sperimentare qui sulla terra! Questa è la comunione che la Chiesa, corpo di Cristo, può vivere e testimoniare al mondo.

    (“Vita Pastorale” - giugno 2020)


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