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    Gesù, destino dell'uomo

    Angelo Scola 

    Nel tempo a mia disposizione non ho certo la pretesa di svolgere in modo completo ed articolato tutti i contenuti che troverete molto meglio dipanati nel libretto “Gesù, destino dell’uomo”, disponibile in libreria. Questa sera vorrei con voi almeno sbozzare tre grandi temi.
    Il primo mi è venuto allo spirito ricordando l’incontro avuto quest’estate, in occasione del Giubileo, con un gruppo di circa tremila giovani. In molti vescovi abbiamo tenuto degli incontri che hanno preceduto quello di Tor Vergata con il Santo Padre. Il tema a me assegnato e scelto dal Consiglio per i Laici, organizzatore dell’evento, era il tema della santità.
    Quella mattina di agosto, trovandomi di fronte a questa folla di giovani di oggi, confesso di essermi trovato all’inizio un po’ a malpartito..! La parola santità, infatti, rischia di apparire a dei ragazzi dai diciotto ai ventitré anni un po’ logora, un po’ stantìa... Soprattutto – non tanto in se stessa, ma per come è normalmente letta e interpretata – rischia di essere sentita quasi come discriminante a priori, così che molti si sentono tagliati fuori, come se la cosa non li riguardasse.
    A me capita spesso di dover parlare ad un pubblico di giovani nelle più diverse parti del mondo; la nostra Università, infatti, – come tutti gli Atenei ecclesiastici – è estesa un po’ in tutti i continenti.
    Sono ormai quarantacinque le Sedi della P.U.L. sparse in tutto il mondo, dal Canada fino all’Australia, compresa l’Africa, l’India, ecc...
    Già da qualche giorno stavo dunque pensando a cosa avrei potuto dire sulla santità a dei ragazzi così giovani. Mi chiedevo come avrei potuto introdurre il discorso, per non escludere subito la maggioranza di loro. Come fargli intuire che la santità c’entra con la loro vita? A questo punto mi sono ricordato di quel bellissimo passaggio dell’autobiografia di Sant’Ignazio di Loyola, in cui egli descrive la propria conversione profilando quell’ideale di vita che, per finire, è proprio la santità. La santità è infatti l’esito che la Grazia di Dio, cioè Cristo – perché la Grazia di Dio ha un nome e un volto, si identifica con una persona: Gesù Cristo – pone nella vita di un uomo, non tanto la conseguenza di un mio impegno morale.
    Sant’Ignazio dunque, dopo essere stato ferito a Pamplona e aver pensato di morire, quando cominciava a ristabilirsi, domanda di portargli da leggere un romanzo con le avventure della cavalleria medioevale (era un grande divoratore di romanzi cavallereschi!), ma nella casa non ce ne sono: c’è soltanto qualche libro su San Francesco, San Domenico, oltre al Vangelo. Egli allora a malincuore – un po’ come poteva succedere ai giovani che avevo di fronte – si piega alla necessità e incomincia a leggerli, e per la prima volta scopre che Gesù, contrariamente a quello che pensava, c’entra con la sua vita, ha a che fare con la sua esistenza di tutti i giorni, col suo desiderio, con la sua capacità di amare, con il suo gusto per l’avventura, ha a che fare con il modo con cui lui concepisce la malattia, la guerra o la morte... scopre insomma che Gesù c’entra con la vita.
    Ma la cosa impressionante è che, man mano prosegue nella lettura, constata che gli succede una cosa nuova, singolare. Altre volte leggendo le avventure dei grandi cavalieri aveva provato un piacere intensissimo immedesimandosi con essi e desiderando di imitarne le gesta, ma poi, non appena sospendeva la lettura e usciva da questa specie di incantamento, subito lo afferrava una grande tristezza e l’esperienza di piacere irrimediabilmente svaniva. Invece leggendo di Cristo, di San Francesco, di San Domenico gli succede una cosa nuova: egli prova un piacere che non lo abbandona, un piacere che dura. Ignazio descrive l’esperienza che i Medioevali, distinguendolo dal piacere (voluptas), chiamavano appunto godimento (gaudium), cioè un piacere duraturo e definitivo, capace di coinvolgere la totalità dell’io, non soltanto la sua superficie istintiva. Capace di coinvolgerne il cuore, nel senso più profondo del termine.
    Ignazio allora decide: «Ecco la mia strada: io voglio un piacere che dura, voglio il godimento, voglio il compimento». La santità – ho detto ai giovani – altro non è se non una proposta di vita che produce un piacere che dura. E son rimasto sorpreso quando, dopo aver parlato loro per non più di mezz’ora (erano tutti seduti sulla ghiaia e sull’erba, in un parco, e faceva un gran caldo..!), ho detto che – dato che non c’era il tempo per rispondere a tutti – se qualcuno aveva delle domande da farmi poteva scriverle su un foglio. Ebbene, i ragazzi si sono letteralmente scatenati su questo tema: in pochi minuti mi sono arrivate ben centoquarantuno domande! Nei giorni scorsi, pensando a questo nostro incontro, mi sono chiesto perché possa succedere una cosa così. Questo accade perché il desiderio della felicità è la modalità indomita con la quale l’io cerca il rapporto con la realtà.
    Non c’è un’altra ragione ultima per cui io sono qui a parlare con voi o voi siete venuti a dialogare con me questa sera. Non c’è una ragione per la relazione dell’io con la realtà, che sia meno della felicità. La stoffa di cui è tessuto il nostro cuore è, realmente e profondamente, il desiderio indomito della felicità, che nessuna fragilità e nessun peccato può spegnere.
    Il desiderio indomito di un compimento che sia effettivamente tale, cioè che alla fine produca (per il momento non voglio dire come) il miracolo di un piacere che dura. Perché ciò sia possibile deve incominciare a produrre, come fu per Ignazio, tale piacere dall’interno della situazione presente, ma secondo un orizzonte totale, che possa andare al di là della morte, quel fenomeno laido e terribile a cui ognuno di noi è esposto, nonostante tutte le illusioni che le tecnologie possono metterci in testa.
    Un piacere che dura al di là della barriera apparentemente insormontabile e strutturalmente annichilente (cioè che sembra spingermi definitivamente nel nulla) della morte. L’invito al nostro compimento, la felicità, il piacere che dura: sono tutti sinonimi per descrivere la modalità con cui io mi relaziono al reale. Vivessi cinque minuti o ottantacinque anni non posso muovermi per meno di questo.
    A conferma di questo dato vi voglio leggere una citazione di un autore veramente geniale, un po’ strano, non sempre condivisibile nei suoi scritti, George Steiner, una figura singolare di intellettuale apolide, di origine giudaica, vissuto in Austria, il quale esprime efficacemente questa insopprimibile urgenza di significato, questo desiderio indomito di perseguire la felicità, di provare il piacere nel senso nobile della parola, un godimento che duri, commentando l’esistenza del cosiddetto senso religioso nella vita dell’uomo.
    Steiner a un certo punto nel suo volume Errata dice: «Potessi buttare via la zavorra di quella che viene chiamata spesso una patologia del linguaggio [cioè la visione religiosa del mondo], potessi lasciarmi alle spalle questa specie di malattia infantile ... niente nelle scienze o nel discorso logico può bandire la domanda suprema tra tutte le domande poste da Leibnitz: perché c’è l’essere e non il nulla? L’ordinanza positivistica che impone alla mente adulta di chiedere al mondo e all’esistenza soltanto come e non perché, è una censura oscurantistica, vorrebbe imbavagliare la voce che sta sotto tutte le voci dentro di noi [sotto tutti gli affetti, sotto tutte le costruzioni, sotto tutte le fragilità]... Persino al livello del come non è affatto certo che le scienze maestose troveranno sempre risposte dimostrabili; vi sono una fuga e un sofisma imbarazzanti nel decreto secondo il quale sarebbe illecito o infantile fare domande, prima del tempo, sul nano-secondo che precede il big-ben ... per me esiste la pressione assolutamente innegabile di una presenza aliena alla spiegazione. Abbiamo bisogno di un testimone, anche se ci giudica ferocemente, del nostro mucchietto di polvere. Nella malattia, nel terrore psicologico concreto, davanti al cadavere di un figlio gridiamo ».
    Dire “Gesù, destino dell’uomo” significa dire che duemila anni fa uno che era un uomo come noi, come afferma Filippesi 2, un bel giorno si è alzato nella sinagoga di Nazareth e, senza mezzi termini, senza giri di parole, dopo aver letto il grande passaggio di Isaia sul regno, ha detto: «Questo regno è qui, incomincia oggi tra voi». Parlare di Gesù destino dell’uomo significa fare spazio al significato di questa Presenza tra noi, che ha a che fare profondamente e intimamente con il nostro bisogno di felicità e che, da quel momento nella storia, ha affermato la pretesa di essere il destino dell’uomo.
    Ora, sempre all’interno di questo primo punto, facciamo un passo per dire come la mentalità dominante ha ridotto o piuttosto “malridotto” tale desiderio di felicità o, in altri termini, il bisogno di durare “per sempre” di cui è costituito il cuore dell’uomo. La mentalità dominante fa apparire l’uomo di oggi, cioè ciascuno di noi – non sto parlando di altri, perché chi non parla di sé difficilmente riesce a parlare agli altri – un po’ come la volpe della favola di Esopo, che, siccome non arrivava al pergolato, diceva che l’uva era acerba. Noi facciamo un po’ così: siccome siamo fragili e siamo peccatori diciamo che il “per sempre” non è possibile.
    Potremmo passare la serata a descrivere le mille manifestazioni di questa nostra strana e riduttiva modalità di spegnere il desiderio del “per sempre”, il desiderio di felicità che è in noi.
    Permettetemi solo di enuclearvi dei titoli che poi lascerò alla vostra riflessione, perché il senso di un incontro è il dialogo. Che ne possa nascere uno scambio tra chi comunica qualcosa, si suppone o si presume a partire dalla sua vita, e chi ascolta. Perciò un incontro non può finire. In un certo senso non finisce mai..! Dunque il primo esempio in cui emerge questa nostra triste tentazione di malridurre il desiderio del “per sempre”, è la menzogna nel concepire gli affetti. Contrabbandare come ovvia l’affermazione che nel cuore di ogni uomo non esiste il desiderio di essere amato e di amare per sempre è la più grande menzogna che circoli nel mondo odierno. Io sfido sempre i miei giovani studenti a trovare qualcuno che possa dire, con un briciolo di verità, alla donna – o all’uomo, o alla mamma, o al figlio che ama – «ti voglio bene» senza aggiungere subito «per sempre». È impossibile: non esiste questa possibilità. È una mera astrazione.
    Lasciamo perdere il fatto che, dieci minuti dopo, si sia già incapaci di tenere il “per sempre”, perché è un’altra cosa. Come diceva il grande Husserl, bisogna «ritornare alle cose così come sono», e in una società confusa come la nostra è davvero ora di farlo.
    Non si può dissociare il bisogno di ricevere amore e il desiderio di dare amore dal “per sempre”.
    Oggi domina una clamorosa mistificazione per cui si dice che l’amore sarebbe essenzialmente istantaneo, destinato a non durare.
    Ecco un esempio della auto-decurtazione del desiderio.
    A questo potremmo aggiungere la perdita del senso del lavoro.
    Oggi, venendo quassù e vedendo paesi abbarbicati intorno al campanile, sotto le nostre splendide montagne, mi sono ricordato della prima volta che li intravvidi a nove anni, durante una gita con l’oratorio all’abbazia di Piona, quando arrivammo con il treno a Colico perché il prete sbagliò la stazione e ci fece fare a piedi tutta la strada sotto il sole di mezzogiorno...
    ricordo che da lì, per alcuni chilometri, c’era solo qualche casa di contadino dove ci fermavamo per bere un po’ d’acqua...
    che cambiamento in cinquant’anni! Quanta ricchezza ora in queste terre... da dove viene questo? Dalla famiglia e dal lavoro, entrambi indisgiungibili da Gesù, destino dell’uomo, perché la Chiesa è stata la forma quotidiana della famiglia e del lavoro. Dietro a tutto questo: al prete, ai maestri che ci hanno trasmesso il catechismo, ai nostri genitori, agli artigiani che ci insegnavano a piegare il ferro e a lavorare la vigna in terreni impervi, alla gente di queste terre con la sua fede... c’era il desiderio di un godimento perenne, assolutamente sconfinato.
    E noi oggi dovremmo accettare che l’amore non tenda a generare matrimonio e famiglia, cioè non debba essere tendenzialmente fedele e indissolubile? Noi oggi dovremmo accettare che il lavoro diventi o un carrierismo che ci ammazza o qualcosa da furbi da evitare? Dovremmo accettare che il guadagno sia puro gioco sui soldi che non abbiamo neanche in tasca, puro e immorale uso della finanza? (A questo proposito la settimana prossima inaugureremo una collaborazione interessante della Laterana con la Bocconi cui abbiamo dato il nome di Finetica, si tratta di un osservatorio di antropologia e di etica della finanza, istituito con il desiderio di capovolgere il concetto oggi dominante della Business-Ethic. Infatti, come dicevo in un seminario svoltosi presso la fondazione Ambrosetti a una quarantina di top-manager di banca, la Business-Ethic non dovrebbe essere un modo di fare soldi con l’etica, ma al contrario un modo di fare i soldi a partire dall’etica, cioè dal bisogno integrale dell’uomo). Noi oggi dovremmo accettare che il lavoro e gli affetti non siano i due pilastri sui quali costruire la vita? Venendo da una storia come la nostra saremmo dei puri parassiti essendo qui a succhiare il sangue che i nostri vecchi hanno buttato nella nostra civiltà. Inoltre che prospettiva daremmo ai nostri ragazzi? Un altro connotato della riduzione del desiderio nella nostra società potrebbe essere definito come l’evanescenza del senso dell’altro.
    È come se l’altro non avesse un valore in sé, ma per noi fosse una pura sponda d’appoggio, qualcosa da tener presente solo con la coda dell’occhio. Finché non ci pesta i calli non esiste e, se ce li pesta, ci dà l’occasione per respingerlo, per buttarlo via, per questionare con lui, per delimitare la sua domanda. Così noi siamo qui, belli, ricchi, seduti a tavola e portiamo tutte queste belle immagini in giro per l’Africa – basta che qualcuno vada in una città come Duala o Kinshasa o Lagos, anche solo per una giornata per rendersene conto – attraverso tutte le nostre televisioni, i nostri canali e questi vedono il nostro stile di vita e noi abbiamo la presunzione che stiano lì a guardarci, immobili..! Quelle persone fanno migliaia di chilometri tutti gli anni perché non hanno dove stare: arriveranno qui in massa, in Europa a piedi, mentre noi saremo ancora impegnati a discutere su come concepire l’emigrazione! Non c’è più tempo per discutere: è ora di farlo presto e di farlo bene. Cioè di farlo con criterio oggettivo, con realismo sapiente, senza generosità utopistiche e infantili e senza rigidità ostiche ed incomprensibili.
    È ora di farlo come gente che ama l’altro per l’altro, perché l’altro è la modalità con cui vengo educato all’io. Senza dire tu non imparo a dire io, e l’altro è il segno distintivo, tiene il posto della presenza di Dio nella mia vita. Il concetto vetero-testamentario di ospite è questo.
    Certo occorre realismo, non l’utopismo di una generosità acritica che poi non sa fare i conti con il reale ed è controproducente, né la rigidità aprioristica, non disposta a cedere nulla in nome della difesa di uno standard di vita privilegiato.
    Ancora: spesso vediamo naufragare i nostri giovani nella paralisi della libertà, non c’è mai stata un’epoca in cui si è parlato tanto di libertà come la nostra, eppure non c’è un’epoca in cui la libertà sia tarpata come la nostra..! È successo qualcosa di simile nel XIX secolo con la ragione: tutti parlavano di ragione e mai la ragione è stata tanto relativizzata come nel XIX secolo. Infatti, dopo averla iperesaltata, toccando il vertice con Hegel, è cominciata la delimitazione critica, la decurtazione della ragione.
    Così avviene oggi con la libertà.
    Ai ragazzi, per farmi capire, dico sempre che la libertà dell’uomo di oggi è simile a un saltatore in alto, che per una strana magìa, resti bloccato in cima all’asticella senza riuscire, nonostante abbia lo slancio e la forza per elevarsi, a planare né di qua né di là. Mai come oggi abbiamo avuto tante possibilità di libertà. Ma si tratta di una libertà sospesa, che resta a mezz’asta, frustrata. Essa, non riuscendo mai ad incontrare la realtà, non si compie. Tutto questo rischia di generare quell’atteggiamento di malinconia sottile che, con il passare degli anni, spegne la vita, così che oggi non è difficile trovare dei vecchi a vent’anni e degli ottantenni che si comportano da diciottenni.
    Ricapitolando: il rischio è quello dell’autoriduzione del desiderio mediante l’eliminazione del “per sempre” dalla nostra vita; così ci si inibisce la possibilità di accogliere fino in fondo la presenza a cui la realtà ci spinge. La pretesa di Cristo si innesta proprio qui.
    Qui si inserisce il grande annuncio cristiano. «Io sono venuto perché abbiamo la vita e l’abbiamo in abbondanza »: ecco la risposta che Gesù dà al desiderio dell’uomo.
    Con Cristo l’eterno entra nell’effimero: la realtà di ogni giorno, nella sua trama di circostanze e di rapporti, è afferrata da questa Presenza e trasfigurata. In tal modo emerge la sua consistenza definitiva, per cui tutto ciò che di vero, di bello e di buono io vivo e che mi mette dentro questo desiderio di durata e di “per sempre”, tutto questo si attesta come possibile.
    L’uomo non è, come dice Shakespeare, «l’ombra di un sogno fuggente » e la realtà non è come diceva Proust «il più temibile dei nostri nemici» anzi! L’esperienza di positivo che la realtà mi rivela, la bellezza, il fascino del tramonto sul lago, il volto di mia moglie con il passare degli anni, mio figlio che incomincia a capire il senso della vita e si pone certe domande, che incontra la fidanzata e vuol costruire qualcosa di concreto... tutto questo ha dentro un annuncio di durata, ha dentro una promessa di eternità che consiste. Cristo ci fa vedere che tutto questo ha una consistenza. Può durare e dura.
    Occorre solo avere il coraggio di guardare veramente in faccia a Gesù per quello che è. Ma come possiamo fare? La strada più semplice mi è suggerita da una poesia del grande Eliot sull’albero di Natale.
    La poesia, in sé non bellissima, contiene però un’immagine straordinaria e per questo ve la cito.
    Descrivendo un bambino che contempla l’angelo in cima all’albero di Natale, dice: «Il bimbo crede che l’angelo dorato ad ali tese in cima all’albero non sia solo un ornamento, ma sia veramente un angelo, lasciatelo in questo spirito di meraviglia, lasciatelo di fronte al prodigio, lasciatelo [ecco la grande parola per cui ho fatto la citazione] di fronte ad un evento accettato non come un pretesto». Ecco la questione di Gesù Cristo oggi. Gesù Cristo è un evento, non è un pretesto. Infatti i casi sono due: o Gesù di Nazareth è una presenza viva e reale, qui ed ora, incontrabile oggi da me come da ogni uomo e allora ha senso la sua pretesa di essere la via, o è inesorabilmente un fatto passato, è una favola, un mito, nella migliore delle ipotesi un pretesto a cui ispirare la mia vita. Ma se è puro pretesto, presto o tardi – al di là della mia generosità e di tutte le più buone intenzioni – tenderà a diventare prima superfluo, poi inutile e infine me ne libererò come di una zavorra.
    Se alla fragilità etica della nostra generazione rispetto a quella dei nostri vecchi, aggiungete questo tarlo che l’Illuminismo ha inoculato nella coscienza degli uomini europei e che vive anche in molti battezzati di oggi, capite perché sempre più persone abbandonano progressivamente l’evento cristiano...
    Non si accorgono che Gesù è un evento presente qui ed ora, perché non sono nella posizione del bambino che contempla, pieno di meraviglia, l’angelo in cima all’albero come un evento. Verso i diciotto anni si incomincia a trattare Cristo come un pretesto per il proprio impegno etico (vedi volontariato), ma poi quando arrivano le responsabilità della vita non si ha più tempo... Non si vede che Cristo ha a che fare con gli affetti ed il lavoro di tutti i giorni, con la vita di tutti i giorni. Questo è il punto.
    Nel contesto della fine del grande anno giubilare in cui, come dice il Papa, si chiude la Porta Santa, più consapevoli che Cristo è la porta viva, permanentemente aperta, cominciamo a ribadire la convinzione che Cristo è un evento presente qui ed ora e non un fatto del passato da prendere come pretesto. A questo proposito vorrei citare un passaggio della bellissima Lettera Apostolica del Papa Novo millennio ineunte, pubblicata proprio in questi giorni, per aiutarci a continuare sulla strada del Giubileo. Nel II capitolo, descrivendo l’esperienza del proprio rapporto personale e oggettivo con Gesù, il Santo Padre a un certo punto dice: «Il Giubileo ci ha fatto sentire che 2000 anni di storia sono passati senza attenuare la freschezza di quell’oggi con cui gli angeli annunziarono ai pastori l’evento meraviglioso della nascita di Gesù a Betlemme. “Oggi vi è nato un Salvatore”». Oggi, dopo 2000 anni, questo fatto è intatto e noi, come i pastori dopo che l’angelo è apparso loro, diciamo: ’Andiamo a vedere l’evento, l’avvenimento che ci è stato annunziato. «“Vogliamo vedere Gesù”: – continua il Papa – questa richiesta fatta all’apostolo Filippo da alcuni greci che si erano recati per il pellegrinaggio pasquale a Gerusalemme è riecheggiata nelle nostre orecchie durante il Giubileo, come quei pellegrini di 2000 anni fa, gli uomini del nostro tempo, magari non sempre consapevolmente, chiedono ai credenti di oggi, non solo di parlare di Cristo, ma di vedere Cristo, di incontrarlo». Cristo, quindi, è un evento, un fatto che accade qui ed ora per me, e mi mette in movimento.
    Si può prevedere, a questo punto, la domanda che potrebbe affiorare nel vostro cuore dopo la affermazione che Cristo è un evento, cioè una presenza viva. Infatti, come diceva il grande Kierkegaard, si può entrare in rapporto solo con una persona presente.
    L’interrogativo che si potrebbe presentare suona come una riedizione della grande obiezione di Lessing: come può un uomo vissuto duemila anni fa essere presente, in maniera viva e vitale qui e ora? Il grande filosofo del ’700 affermava l’impossibilità di superare il «maledetto fossato del tempo». A questo interrogativo capitale, che come un tarlo si insinua anche nella coscienza di molti cristiani di oggi, risponde il genio del cattolicesimo.
    E lo fa in due modi. Il primo l’ho già accennato parlando del “per sempre”: è il dogma della Resurrezione. «Io, io stesso risorgerò. Questo mio corpo vedrà il Salvatore». E il secondo è il sacramento, o meglio: la concezione sacramentale della vita.
    Nelle nostre terre sui pilastri di queste certezze si è basato per secoli e secoli il grande criterio educativo con cui siamo stati cresciuti fin dalla primissima fanciullezza.
    Ognuno di noi ha assimilato la fede con tale naturalezza per cui per noi credere è come respirare.
    Non occorrono tanti ragionamenti.
    La fede è qualcosa di radicato nel profondo del nostro cuore perché i nostri genitori ce l’hanno trasmessa passandoci il latte, la tenerezza e la delicatezza della loro edificazione familiare e sociale.
    Se il primo corno della risposta all’interrogativo circa la contemporaneità di Cristo alla nostra vita è dunque il dogma della resurrezione della carne, l’altro è il sacramento, quell’atto strepitoso del Giovedì Santo per cui quell’Uomo, che era Dio, prende il pane e dice «Ecco il mio corpo», prende il vino e dice «Ecco il mio sangue» ed anticipa nel tempo il grande evento della Sua morte e della Sua resurrezione, rendendolo accessibile alla libertà degli amici che aveva intorno al tavolo e, in loro e attraverso di loro, lungo le coordinate del tempo e dello spazio, ad altri uomini, fino a noi.
    Il grande dono che Cristo fa di sé alla nostra libertà è il sacramento.
    In che senso, potremmo ancora chiederci, il sacramento non è una magia? Perché quando celebro la Santa Messa con voi alla mattina, non riproduco lì un atto magico? Che cosa mi garantisce che quel rito non sia una fantasia? Il fatto è che, se io seguo quel rito, imparo a vivere tutte le circostanze e tutti i rapporti della vita nella stessa logica.
    Cos’è, infatti, la realtà? Una trama di circostanze e di rapporti.
    Io sono venuto da Roma a Sondrio per questo incontro a cui il Presidente mi ha con tanta gentilezza invitato: è una circostanza. Arrivo qui e mi trovo di fronte parecchi volti amici: vedo il dott. Rossi, il medico di quando ero bambino, vedo mio zio, vedo il mio sindaco...
    ed è una sorpresa, perché non mi aspettavo di trovarli qui. Il fatto che siano saliti quassù da Lecco, con il freddo di questi giorni, vuol dire che i rapporti nella vita contano e non sono un puro caso. Così rapporti e circostanze diventano occasioni privilegiate. Non sono fatti bruti, ma sacramento di una Presenza che mi chiama. Sono il segno attraverso cui quella Presenza, di cui parlava Steiner, preme per entrare nella mia vita e cambiarmi. Ecco il senso del sacramento.
    Cristo, così, è presente in ogni circostanza e in ogni rapporto.
    Tutta la trama di cui è intessuta la nostra vita è un modo con cui Cristo mi accade e mi chiama. Da parte nostra è necessaria solo la semplicità di dire sì.
    Permettetemi ora di chiudere richiamando le due condizioni per poter dire questo sì. La prima è la conversione (la Chiesa ce ne parla tutti i giorni) del modo con cui noi concepiamo la corrispondenza, cioè il realizzarsi della nostra felicità.
    Noi pensiamo che una cosa ci è data solo se ci corrisponde; mentre è vero il contrario: ciò che mi è dato mi corrisponde, perché mi è dato da un Padre che mi ama. Vi rendete conto che qui è in gioco un rovesciamento assolutamente radicale del nostro modo di concepire la vita? La struttura della realtà comincia dal dono che Colui che è la consistenza di ogni cosa, Colui che mi crea – perché la creazione è una relazione amorosa, paterna a cui io posso rispondere con una figliolanza: la Trinità mi sta creando e mi mantiene nell’essere adesso, mentre vi parlo –.
    Se dunque un Padre amante mi dona circostanze e rapporti e attraverso di essi mi chiama, significa che quel che mi è dato mi corrisponde. Questo imposta la vita come vocazione. Noi preti parliamo continuamente di vocazione ma, identificandola con lo “stato di vita” (matrimonio o sacerdozio o consacrazione verginale), operiamo una riduzione fuorviante.
    Ogni gesto, ogni istante, ogni circostanza e ogni rapporto, nella vita è vocazione, perché è la chiamata di un Padre amante affinché il figlio risponda. Il gusto di incontrare una persona cara o il dolore di fronte al proprio figlio che soffre o alla morte del padre ... tutto diventa sacramento. Tutto – anche quel che non capisco, anche ciò che è doloroso – diventa segno, appello da parte di questa Paternità amante che chiamandomi mi inoltra sempre di più nell’essere, aprendomi la strada del “per sempre”, cioè di una felicità che non viene meno. Così si capiscono il matrimonio, il lavoro, la fatica, il sacrificio, il piacere e il dolore, il bene ed il male, la misericordia, il perdono, il peccato, l’inconsistenza...
    si capisce la vita.
    La seconda condizione è la fede come potenza, come potere nel senso nobile della parola, non nel senso della volontà di potenza e dominio. Basti pensare – come esempio – all’episodio evangelico della Cananea. Questa donna straniera vuole un miracolo da Gesù, ma Egli, all’inizio, le risponde in maniera dura: «Fare quello che mi chiedi non appartiene alla mia missione, non è quel che il Padre mi ha chiesto. Io sono venuto per i figli non per i cagnolini». Noi con la mentalità contemporanea, sensibilissima ai nostri diritti e molto meno ai doveri, avremmo giudicato sgradevole l’atteggiamento di Gesù. Ma la Cananea non la pensa così. Lei ama, lei crede, lei vuole il miracolo, perciò insiste ricordando a Gesù che anche ai cagnolini non son negate le briciole che cadono dalla tavola dei figli.
    La fede di questa donna è così potente che allarga la missione di Cristo, dilata il Suo disegno. Oserei dire – spingendomi fino al limite a cui può spingersi un teologo ortodosso – che in un certo senso la Cananea rafforza la missione di Gesù, Lo costringe ad una più grande universalità. La fede è un potere che ha nella preghiera mariana del Santo Rosario un’arma straordinaria. Ricordo quella volta in cui, partito da Friburgo, dove stavo preparando il Dottorato in teologia, ero tornato a casa a trovare i miei genitori. Quando arrivai a Malgrate era già l’imbrunire, e mia mamma, come di consueto, stava recitando il rosario e stava lì al buio; poi, accorgendosi della mia perplessità, mi disse che, per leggere il libro che stava leggendo, non aveva bisogno di vederci… Vorrei, a proposito del potere della fede, leggervi una frase del cardinale Ratzinger a commento della rivelazione del terzo segreto di Fatima. Con questo non voglio affatto entrare nel campo di un certo miracolismo di bassa lega – niente è più lontano dalla mia sensibilità e dalle cose che vi ho detto sul sacramento! –. Scrive dunque Ratzinger: «Nella via Crucis di un secolo fa, la figura del Papa ha un ruolo speciale. Nel suo faticoso salire sulla montagna – sta descrivendo la visione dei tre bambini – possiamo senza dubbio trovare richiamati insieme i diversi Papi che, cominciando da Pio X fino all’attuale Giovanni Paolo II, hanno condiviso le sofferenze di questo secolo e si sono sforzati di procedere in mezzo ad esse sulla via che porta alla Croce. Nella visione anche il Papa viene ucciso sulla strada dei martiri: non doveva il Santo Padre, quando dopo l’attentato del 13 maggio dell’81 si fece portare il testo della terza parte del segreto, riconoscervi il suo proprio destino? Egli era stato molto vicino alla frontiera della morte ed egli stesso ha spiegato la sua salvezza con le seguenti parole: “Fu una mano materna a guidare la traiettoria della pallottola e il Papa agonizzante si fermò, sulla soglia della morte”».
    Che qui una mano materna abbia deviato la pallottola mortale – è soprattutto per quest’ultima frase che ho letto tutta la citazione – mostra solo, ancora una volta, che non esiste un destino immutabile, che fede e preghiera sono potenze che possono influire nella storia e che, alla fine, la preghiera è più forte dei proiettili e la fede è più potente delle divisioni, essendo la fede il più potente rapporto che esista con l’altro.
    Siccome il rapporto con il Padre di Gesù Cristo, che lo Spirito Santo, attraverso Maria, ci rende possibile ogni giorno, è il più potente che esista, la nostra preghiera può perfino modificare il disegno che il Padre ci riserva. I bambini di Fatima hanno dato la vita per il Papa. La fede dell’uomo può mutare il disegno di Dio.
    Gesù è il destino dell’uomo, cioè il dono del tutto gratuito alla mia libertà, situata qui ed ora. È un destino di libertà, non un fato immutabile e necessario.

    Trascrizione della conversazione tenuta da S. E. R. Mons. Angelo Scola, Rettore Magnifico della Pontificia Università Lateranense di Roma, il 19 gennaio 2001 presso la Sala “Fabio Besta” della Banca Popolare di Sondrio.


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