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    Nell'umanità di Gesù

    il volto compassionevole

    di Dio

    Egidio Palumbo

     

    I. Prendere sul serio l'umanità di Gesù (e anche la nostra umanità)

    Riguardo al mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio, la fede biblica attesta – e in sintonia con essa la fede autentica della Chiesa – che non l’uomo è diventato Dio, bensì Dio è diventato uomo.
    Questo vuol dire che nell’uomo Gesù di Nazareth, nato intorno al 6/7 a.C e morto il 30 d.C., Dio ha posto la sua “tenda” in mezzo a noi, la collocato stabilmente la sua Presenza nella storia umana: una presenza stabile ma sempre in movimento (come la tenda), ovvero una Presenza che ci precede e ci accompagna passo dopo passo nel nostro “viaggio della vita”, così come ai tempi dell’Esodo, la Dimora, segno della Presenza di Dio, che era collocata nella Tenda del Convegno, precedeva e accompagnava il cammino del popolo di Dio (Es 40,34-38; Nm 9,15-23).

    1. Dio cammina con noi

    La sintesi di questa profonda convinzione di fede è raccolta in un versetto del vangelo di Giovanni, il più “teologico” tra i vangeli, che così scrive: «E il Verbo si è fatto [lett.: divenne] carne e venne ad abitare in mezzo a noi [lett.: e pose la tenda in/fra noi] e noi abbiamo contemplato la sua Gloria, Gloria come Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità» (Gv 1,14). Nella traduzione letterale è reso più evidente il riferimento alla Tenda che conteneva la Dimora, il segno della Presenza di Dio.
    Ma l’evangelista Giovanni ci tiene a precisare che questa Tenda è ora il Verbo di Dio, la Parola Eterna di Dio, è il Figlio Eterno del Padre diventato “carne”, persona umana debole, fragile, storicamente situata e limitata, come tutte le persone umane di questo mondo.
    Questa persona umana vera è Gesù di Nazareth. Per il suo stile di vita, per il modo con cui vive e parla, per quello che fa e dice, egli ci manifesta e ci narra la Gloria di Dio, cioè la Bellezza della Presenza di Dio che cammina con noi, che si dona e si lega a noi con legami di amore sponsale e fedele («pieno di grazia e di verità»: ripresa di Es 34,6: «ricco di amore (chesed) e di fedeltà (’emet)»).
    L’evangelista Matteo già aveva espresso questa convinzione di fede, quando al nome di Gesù accosta quello di Emmanuele, nome recepito dal profeta Isaia riguardo alla profezia del figlio nato dalla vergine (7,14), dandone anche l’interpretazione: «che significa Dio-con-noi» (Mt 1,21-23). È come se Matteo dicesse (ma di fatto lo dice in tutto il suo vangelo): nell’uomo vero Gesù, Dio cammina con noi; in Lui Dio si fa nostro Fratello, Amico e Compagno di viaggio.

    2. Gesù vero uomo

    Più volte è stato sottolineato che Gesù è “vero” uomo. Si intende evidenziare che la sua umanità non è fittizia, apparente; il suo diventare persona umana non può essere ridotta a parodia. Egli è stato una persona umana vera, reale: come noi ha compiuto un cammino di crescita umana e di fede, si è dovuto confrontare con la Parola di Dio, è stato tentato e messo alla prova, ha vissuto relazioni vere e autentiche con Dio e vere e autentiche, ma nel contempo complesse e complicate, con la sua famiglia, con i suoi discepoli e la sua gente, e con le personalità religiose e politiche del suo tempo.
    Le Scritture del Nuovo Testamento non hanno avuto problemi a sottolineare con chiarezza tutto lo spessore della umanità vera di Gesù: si vedano, ad esempio,
    - Lc 2,40.52 sulla crescita integrale di Gesù;
    - Mc 13,32 e Mt 24,36 - Mc 5,30-33 e Mt 12,15 sul fatto che ignora il giorno del Giudizio e altri avvenimenti più quotidiani;
    - Fil 2,6-8 sulla sua condizione umana svuotata della condizione divina per essere umile servo obbediente al Padre fino alla morte di Croce;
    - Eb 2,18; 4,15-16 e 5,7-9 sulla sua condizione di uomo messo alla prova, torchiato dalla sofferenza, il quale ha dovuto imparare l’obbedienza da ciò che patì;
    - e Gv 19,5 che, durante il processo a Gesù, ormai persona sola, indifesa, flagellata a sangue, incoronata di spine e completamente nelle mani del potere politico e religioso, evidenzia in modo significativo il grido (e annuncio?) di Pilato rivolto alla folla indicando Gesù: «Ecco l’uomo!», ecco l’Uomo vero.

    3. La singolarità di Gesù

    Eppure l’umanità di Gesù, così com’è narrata dai vangeli, mostra la singolarità della sua persona: egli è il Figlio di Dio. Non nel senso di una “procreazione biologica” da Dio, né di una sostituzione di Dio, il quale è e rimane sempre il Padre suo, bensì nel senso che vive una relazione di comunione intima e profonda con Lui, una relazione che è unica: nessuno come Gesù vive questa relazione intima con Dio; nessuno come lui conosce/ama, ascolta, prega il Padre; nessuno come lui, prima di compiere scelte importanti e fondamentali per la vita, sa confrontarsi e discernere con il Padre per assimilare la sua volontà e il suo progetto; nessuno conosce l’animo umano così profondamente come lo conosce lui (Mt 12,4.25; Gv 1,48); e nessuno possiede pienamente la vita eterna del Padre suo così come la possiede lui e la dona in abbondanza (Gv 10,10.28; 17,2).
    È proprio questa relazione unica col Padre che struttura la sua coscienza di Figlio di Dio e gli dà la piena consapevolezza di essere il Messia inviato da Dio per annunciare la presenza del Regno di Dio, cioè la presenza paterna e materna di Dio operante nella storia umana; un annuncio non solo fatto con le parole ma soprattutto con il suo stile di vita, con il suo modo di relazionarsi e di agire. Per questo la sua umanità mostra il volto vero di Dio (Gv 14,9) e la ricchezza della sua misericordia. Soffermiamoci su quest’ultimo aspetto.

    II. Misericordioso è il nome del nostro Dio (Es 34,6)

    “Misericordioso” è uno dei Nomi divini più alti che la fede biblica riserva a Dio. Il Nome “Misericordioso” indica l’identità di Dio, la sua presenza. “Misericordia” (e le altre qualità ad essa correlate) indica il modo come Dio si relaziona con le sue creature, il modo come Lui agisce nella loro vita, vale a dire “aprendo il suo cuore verso i miseri”. La misericordia è la qualifica somma della presenza e dell’agire di Dio nella storia degli uomini.

    1. Il testo biblico fondamentale è Es 34,6-7, testo ripreso più volte nell’AT e nel NT. Così Dio si rivela a Mosè: «Il Signore passò davanti a lui, proclamando: “Il Signore, il Signore, Dio misericordioso (rachum) e compassionevole (channun), lento all’ira e ricco di amore (chesed) e di fedeltà (’emet), che conserva il suo amore (chesed) per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione, che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione”».
    La misericordia esprime il grembo materno di Dio Padre e la sua tenerezza che “fa spazio dentro di sé” per accogliere le sue creature con tutti i loro fallimenti e fragilità, per donare loro una “nuova nascita” e una nuova possibilità di riscatto, al fine di uscire dal fallimento e ritornare a vivere e a sperare. Questa sua dimensione materna Dio ce la ricorda ancora attraverso la voce del profeta Isaia: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro ti dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai» (Is 49,15).

    2. In Es 34,6-7, inoltre, viene rivelato, nella sua essenzialità, il complesso lessico che esprime tutto quello che viene dall’interno della misericordia di Dio, tutto quello che è profondamente radicato nella sua misericordia e fiorisce dal grembo della sua misericordia, ovvero:
    - la compassione delle viscere che si aprono e “patiscono insieme” (“com-patire”) al fallito, al peccatore, allo smarrito: perché il nostro Dio non è malato di indifferenza di fronte al male delle sue creature;
    - la lentezza all’ira: perché l’ira di Dio esprime il suo sdegno di fronte al male e al peccato/fallimento dei suoi figli e delle sue figlie, al fine di far prendere coscienza il peccatore del male che ha compiuto verso se stesso e verso gli altri, e così di recuperarlo alla vita. L’ira di Dio è rivolta contro il peccato e mai contro il peccatore, perché esprime la sua passione e la sua gelosia d’amore per le creature, create a sua immagine e somiglianza. E la sua ira è lenta (Is 48,9), perché Lui è paziente, è longanime (2Pt 3,9), ha un “cuore grande” che è più grande del nostro cuore (1Gv 3,19-20) e vuole che nessuno si perda;
    - la ricchezza di amore, di quell’amore sponsale e benevolo che si lega alle sue creature con vincoli indissolubili; per questo il suo amore sponsale dura per mille generazioni, cioè sempre, per tutte le generazioni;
    - la ricchezza di fedeltà, una fedeltà stabile, solida, duratura, perché egli è sempre fedele alle sue promesse per il bene delle sue creature, nonostante queste siano infedeli a Lui (vedi il peccato di idolatria con l’iconografia del vitello d’oro: Es 32). Egli è un Dio sempre fedele e affidabile, perché di Lui comunque ti puoi fidare;
    - la gratuità del perdono: è il perdono di Dio gratuitamente donato in anticipo e da noi non meritato che muove a conversione il peccatore; se fosse il contrario, sarebbe ricatto. Ma il nostro Dio non ricatta! Egli pone le persone nelle condizioni più favorevoli – ma senza farli venir meno alle loro responsabilità – affinché compiano la fatica di decidersi per un cammino vita nuova, la fatica quotidiana – direbbe l’apostolo Paolo – di morire all’uomo vecchio e di rinascere all’uomo nuovo. Il perdono di Dio, gratuito e anticipato, e da noi non meritato, garantisce questa possibilità.
    Ecco perché dopo il peccato di idolatria del vitello d’oro (Es 32), Dio prende subito l’iniziativa di rinnovare l’Alleanza e di riscrivere la Torah (Es 34,10-28). Ecco perché Gesù dall’alto della Croce perdona i suoi crocifissori prima che si convertano (Lc 23,34): l’aveva compreso l’apostolo Paolo, quando scrive che «Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi.
    A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita» (Rm 5,8-10). Il perdono è dono gratuito, non meritato;
    - il castigo come correzione: Dio come un padre “non distratto” corregge i suoi figli che sbagliano, e li corregge perché li ama e perché vuole che non si perdano per strada (Eb 12,5-11). Anche per questo il nostro Dio è un Dio affidabile.

    III. Lo stile di vita ospitale dei Gesù

    1. Aprire uno spazio di accoglienza vitale

    Gesù, attraverso il suo stile di vita, ha manifestato e narrato la misericordia e la compassione di Dio, Padre suo e Padre nostro. Da quanto si è detto sopra, si comprende che la misericordia e la compassione di Dio chiedono ad ogni persona umana di aprire in sé, nel suo “grembo”, uno “spazio di accoglienza vitale” per l’altro, affinché possa com-patire con lui, entrare in sim-patia con lui e agire a suo favore venendo incontro al suo bisogno.
    Possiamo dire che tale “spazio di accoglienza” si esprime in uno stile di vita ospitale, dove chi ospita espone se stesso, perché consapevole che l’ospite, all’inizio, è un “enigma”: può essere solo di “disturbo” oppure col tempo può diventare portatore di novità inedite e arricchenti. E se questo si avvera, accade che chi ospita si ritrova in una situazione “ribaltata”: da ospitante diventa ospite dell’altro. È il “ribaltamento” che accade quando nell’incontro con l’altro facciamo l’esperienza di aver ricevuto molto di più di quello che abbiamo cercato di dare e di offrire.
    Tale stile ospitale l’ha vissuto e praticato Gesù: egli è «“l’essere ospitale” per eccellenza» (Ch. Theobald); egli è venuto «a proclamare l’anno di grazia [lett.: di accoglienza] del Signore» (Lc 4,19), prendendosi cura dei poveri, dei prigionieri, dei ciechi e degli oppressi (Lc 4,18), attraverso il contatto relazionale compassionevole con loro. Evidenziamone alcuni tratti.

    2. Relazioni nel segno del dono esistenziale di sé

    Nel vangelo di Matteo per ben due volte Gesù ricorda quanto già Dio, per mezzo del profeta Osea (6,6), aveva chiesto al suo popolo: «Misericordia io voglio e non sacrifici» (Mt 9,13 e 12,7). La tentazione delle persone religiose, di ieri e di oggi, è quella di annacquare abilmente certe parole della S. Scrittura, rendendole meno profetiche e quindi meno scomode.
    Se si sta al contesto, sia il profeta Osea che Gesù quando parlano di “sacrifici” non si riferiscono ai sacrifici o alle mortificazioni personali… (sic !), bensì al culto del Tempio; e tenendo presente che l’evangelista Matteo scrive per la sua comunità, il riferimento vale anche per il culto cristiano.
    Né Osea, né Gesù, né Matteo intendono contrapporre misericordia e culto, ma esortare con parresia, con coraggio profetico a coniugare il culto con la vita quotidiana, a celebrare il culto come spazio e tempo dove si viene educati da Dio a saper coltivare relazioni di misericordia nella vita quotidiana, altrimenti il culto diventa effimera esteriorità, la liturgia teatralità vuota e senza senso. Ciò che si celebra nel culto, nella liturgia, ovvero il Dio misericordioso e compassionevole (Es 34,6; Sal 118; 136), chiede di essere vissuto nelle trame complesse della storia e dell’esistenza quotidiana.
    La verifica dell’autenticità di una celebrazione liturgica non sta nella celebrazione stessa ma fuori di essa, cioè nella qualità delle relazioni umane che riusciamo a tessere e a coltivare nel quotidiano. Perciò Dio, attraverso la voce del profeta Osea, esorta il popolo a convertirsi alla misericordia dopo aver smesso di compiere opere malvage e ingiuste.
    E Gesù, rivolgendosi a quei farisei (ma non tutti i farisei erano così!) scandalizzati dal fatto che egli siede a tavola con i pubblicani e i peccatori, ricorda a questi uomini religiosi dediti all’ascolto della Parola, al culto e alle opere buone ma per nulla compassionevoli verso i peccatori, che l’ascolto della Parola e il culto ci educano a vivere relazioni di misericordia con il falliti della vita, per liberarli dal loro fallimento.
    Se non ci si siede a tavola con loro, se non si diventa loro ospiti e se non si offre loro ospitalità e accoglienza senza pregiudizi – come fa Gesù –, ovvero, se non c’è con loro un dialogo umano vero, un confronto serio e aperto, non si manifesta la misericordia di Dio, ma soltanto l’insipienza umana del giudizio netto e crudo, tipico di certi uomini religiosi.
    E tali uomini sono presenti anche nella comunità cristiana: perciò l’evangelista Matteo, come abbiamo già detto, cita la frase di Osea due volte nel suo vangelo; e la seconda volta (Mt 12,1-8) il contesto del culto nel Tempio è reso più esplicito dal riferimento ai “pani dell’offerta” riservati ai soli sacerdoti; ora, di fronte ad una situazione di bisogno vitale per la persona umana, il culto e il sabato vengono relativizzati dalla signoria del Figlio dell’uomo.
    E d’altronde, la Lettera agli Ebrei ci ricorda che il sacerdozio di Cristo è laico, non rituale, vale a dire è sacerdozio esistenziale vissuto nel dono esistenziale di sé (Eb 10,5-10). E in Cristo anche il culto dei cristiani, la liturgia della Chiesa è culto esistenziale: «Vi esorto, fratelli, per la misericordia di Dio – scrive l’apostolo Paolo – a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il volto culto spirituale» (Rm 12,1)

    3. Il contatto reale e il coinvolgimento personale

    Molta gente Gesù ha accostato e da molta gente egli si è fatto accostare. Significativo è il modo con cui Gesù entra in relazione con loro: spesso si china, tocca, prende per mano, rialza. Gesù cerca il contatto, la relazione reale, il coinvolgimento personale.
    Apre la sua esistenza all’ospitalità accogliente, dove ognuno può sentirsi non già giudicato ma accolto, ascoltato e capito; dove ognuno riceve la dignità perduta, la speranza smarrita, la capacità di ritornare nel contesto sociale e religioso dal quale era stato emarginato; gli viene ridonata l’attitudine a saper comunicare, ascoltare, a guardare al di là dei propri ristretti orizzonti; riceve l’abilità a saper agire e camminare nella vita con sapienza ed intelligenza.
    Soffermiamoci sull’incontro con la donna che da dodici anni soffre di perdite di sangue (Mc 5,25-34). Ella tra la folla cerca di entrare in relazione con Gesù. Ponendosi alle sue spalle, gli tocca il lembo del suo mantello. Gesù non rimane distaccato ma si sente pienamente coinvolto. Egli vuole incontrare questa donna, la cerca.
    Finalmente, tutta tremante, la donna si fa vedere, si getta davanti a lui e gli dice «tutta la verità» (Mc 5,33). Davanti a Gesù la donna può finalmente esprimere la verità della sua vita, i suoi drammi, le sue delusioni, le sue fatiche, le sue speranze, la sua voglia di vivere, nonostante tutto. La pagina del vangelo non ci dice per quanto tempo la donna ha parlato. È certo però, che Gesù ha avuto tutta l’attenzione e la cura di ascoltarla.
    E alla fine, con grande sorpresa Gesù le dice: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male» (Mc 5,34). Dove sta la sorpresa? Gesù non dice: «io ti ho salvato», ma «la tua fede ti ha salvata». Egli, con grande pedagogia e sapienza, cerca di far emergere la fede autentica che c’è nell’altro, la sua capacità di affidarsi a Dio e di credere, nonostante tutto, nelle immense energie della vita.

    4. Disponibilità a lasciarsi interpellare e cambiare dall’altro

    Lo stile ospitale di Gesù è visibile anche dalla sua disponibilità ad apprendere e a lasciarsi interpellare dall’altro. Ci ricorda l’autore della Lettera agli Ebrei, che Gesù «imparò l’obbedienza dalle cose che patì» (Eb 5,8): imparò e patì”, ovvero diventò perito nell’ascolto.
    Emblematica è la pagina dove Gesù interpella i discepoli sulla sua vocazione e missione. Prima chiede: «La gente chi dice che io sia?»; e poi chiede direttamente ai discepoli: «Ma voi, chi dite che io sia?»: Mc 9,27.29). Gesù non chiede per fare un “sondaggio” su di lui, ma perché vuole essere aiutato a discernere meglio la sua vocazione e missione. È la sua umiltà.
    Gesù sa che non solo le S. Scritture contengono la Parola di Dio e che per questo vanno ascoltate con attenzione (vedi come ascolta e dialoga con Mosè ed Elia nella Trasfigurazione), ma anche le persone che lui incontra e i discepoli che vivono con lui sono “voce di Dio per lui”, sono “Parola di Dio per lui”. Questa mi sembra essere una motivazione non banale del suo chiedere il parere degli altri.
    E poi vi è l’incontro con la donna cananea, una pagana (Mt 15,21-28), la quale le chiede di guarire la sua figlia dal potere diabolico che aliena e lacera l’esistenza. Ma Gesù non l’ascolta, la ignora. Intervengono allora i discepoli, implorando che la esaudisca. La risposta immediata di Gesù è: “la mia missione è rivolta esclusivamente al popolo di Israele e non ai pagani”.
    A questo punto interviene la donna pagana, prostrandosi e chiedendo ancora aiuto. La risposta di Gesù è dura: «Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini»; i cagnolini (anche se qui attenuato con il vezzeggiativo) indicano i pagani, così venivano considerati dai Giudei.
    Ma la donna insiste: «È vero, Signore, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni». Ecco: questa parola interpella Gesù, suscita in lui delle domande e gli fa comprendere che la sua missione deve essere aperta anche ai pagani, ai lontani. La parola di quella donna pagana gli ha manifestato la volontà di Dio! Perciò Gesù retrocede e cambia atteggiamento, Rivolgendosi alla donna le dice: «Donna grande è la tua fede! Avvenga come tu desideri». Possiamo dire che attraverso la fede di questa donna Gesù si è lasciato interpellare dalla misericordia di Dio.
    Sì, anche in questo modo, così sorprendente per noi, Gesù mostra il volto compassionevole di Dio, il quale «fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni» (Mt 6,45), perché «vuole che tutti siano salvati e giungano alla conoscenza della verità» (1Tm 2,4).

    (Intervento da 'I mercoledì della Bibbia')


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