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    La poesia dei Salmi

    è musica che media

    tra l'umanità e Dio

    Ennio e Valentina Morricone


    S
    ono invitato a parlare dei Salmi, per quanto a volte possa essere limitante parlare, quando c’è solo da osservare. Osservare la straordinaria bellezza poetica e realistica di quella che mi viene da definire una poesia nascosta.

    La definisco nascosta perché, in casi come questo, uno scritto che abbiamo davanti, che possiamo vedere e ascoltare, ha un’origine impossibile da rintracciare. Possiamo ammirarne il risultato in forma di parole, ma quel sentimento che c’è dietro appartiene a un Altrove talmente sopra di noi. È un Altrove che spesso il mio pensiero va a visitare, ma che difficilmente posso esprimere con la prosa.
    Le parole sono una chiave per stabilire un incontro tra noi e Dio, rappresentano la veste che dà a un sentimento immateriale una forma umana: la forma del linguaggio. Il linguaggio è l’unico mezzo di espressione di un sentimento come la fede, altrimenti inesprimibile.
    Dio non ha mai avuto un contatto con noi, salvo che per mezzo di Gesù Cristo che, nel suo farsi uomo, ha creato un ponte tra noi e quell’Altrove.
    Le parole scritte possono essere i mattoni per ricostruire quel ponte con i nostri mezzi, che sono sì limitati, ma rappresentano l’unico modo per innalzarci verso quel luogo.
    Quando dico che le parole sono un mezzo, non intendo sminuirne il valore, ma rivisitare il significato che, nella scrittura sacra, viene attribuito all’invenzione.
    Forse è riduttivo, nell’ambito del lavoro del salmista, dire che egli inventa come se creasse qualcosa dal nulla, talento più facile da attribuire ai poeti. È forse più corretto pensare che questi intercetti quell’idea e si serva delle parole per comunicarlo nel modo più efficace.
    Il poeta è un mediatore tra sé stesso e gli uomini, il salmista è un mediatore fra gli uomini e Dio.
    Questo discorso dell’intercettazione mi riporta al mio lavoro, in quanto anche la musica assume il ruolo di un intermediario tra un sentimento inesprimibile e una forma di comunicazione universale.
    Sia la musica sia le parole sono portatrici di un messaggio che deve stimolare non tanto una comprensione razionale, aspetto più terreno dell’essere umano, ma un sentimento più alto, perché la coscienza può raggiungere quei luoghi dove la logica non arriva.
    È interessante, da questo punto di vista, come gli Inni siano una mescolanza di questi due aspetti, quasi una dualità inscindibile. Il canto umano, che è uno strumento profano, si unisce al carattere trascendentale della preghiera ed ecco che la musica non è più un piacere terreno, ma una gioia
    religiosa, non più uno sprofondare dentro sé stessi ma un innalzamento verso la divinità.
    L’uso del canto come ponte fra queste dimensioni permette che in questa dualità non ci sia una negazione né dell’una né dell’altra, ma un’armonia che si crea fra corpo e spirito. Senso e sentimento non sono in contrapposizione, ma in sintesi.
    I Salmi hanno un ruolo fondamentale nella storia della musica, perché ne hanno sancito la prima testimonianza scritta.
    I temi composti per accompagnare queste preghiere dovevano interpretare al meglio il sentimento di cui le parole del Salmo si facevano messaggere, come se ci fosse un legame vicendevole tra la parola e il suo gemello astratto: il suono. Re Davide stesso, che ha scritto molti di questi Salmi, è stato spesso descritto come un appassionato suonatore di cetra.
    C’è un’altra cosa che mi emoziona dei Salmi e che mi fa pensare a quanto una forma d’arte così antica abbia dei princìpi tanto attuali. Un elemento che ho sempre considerato importantissimo nel mio lavoro è il silenzio, perché è attraverso di lui che la musica si fa manifesta. Il silenzio è a tutti gli effetti musica, è tramite la loro alternanza e opposizione che il Salmo dà voce alla sua duplice manifestazione: l’inno e la preghiera.
    Nelle testimonianze musicali scritte dei Salmi si usava spesso un segno di pausa, detto selah, che invitava alla meditazione. Il silenzio che fa da pausa tra un canto e l’altro è anch’esso un ponte fra due dimensioni: quella del raccoglimento, della preghiera con sé stessi, e l’unificazione, attraverso il canto, della comunità nella forma dell’inno.
    Quest’aspetto spirituale è presente nel mio lavoro in quanto è parte di me e spesso mi ritrovo a metterlo nella mia musica senza neanche accorgermene. Non è intenzionale, è il modo in cui un artista di qualsiasi tipo si tradisce attraverso la sua arte. La musica può essere considerata, in modo nascosto e non intenzionale, un autoritratto del compositore.
    Ma nel mio lavoro questa spiritualità, che si può cogliere o meno, deve sempre sottostare alla tecnica. La musica per il cinema è scritta per servire il film e questo implica che debba essere compresa. C’è un evidente condizionamento in questo modo di comporre, perché non posso scrivere nulla che non segua l’idea del regista e che non abbia come unico obiettivo quello di legarsi profondamente al film e insieme esaltarne il senso.
    Anche in questo caso la musica è un ponte, che fa da mediatore tra il pubblico e un significato che sta oltre l’immagine, ma di un pensiero non mio. Il sentimento comunicato dal film viene anche veicolato dalla musica e in questo senso il compositore ne è un esecutore tecnico, sebbene alla fine sia comunque possibile riconoscerlo nel suo lavoro.
    Con la musica assoluta il discorso è diverso: quando la scrivo sto comunicando un pensiero che è mio e non sono condizionato da alcun tipo di limitazione nell’esprimerlo, cosa che spesso accade nel cinema con il sistema tonale. In questo tipo di composizione posso stabilire da me la tecnica con la quale scrivere ed è più facile avere un incontro intimo con una dimensione maggiormente spirituale.
    L’Inno non domanda, ringrazia. Chi loda e canta la propria gratitudine sa di non poter chiedere dono più grande di essere stato creato, levandosi oltre ogni piccola gioia o dolore, che sono conseguenze necessarie del far parte di questo mondo, ma che siamo disposti ad accettare senza chiederci il perché.
    L’assenza di una richiesta e la riconoscenza incondizionata acquisiscono più valore in un momento di sofferenza così grande come quello che stiamo vivendo.
    Allo stesso tempo mi sembra che la pandemia esprima al meglio quella collettività riunita al cospetto di un unico sentimento comune.
    Il dolore che ci lega in tutto il mondo e la paura che ci unisce nel tenerci separati richiama quell’idea espressa nel Salmo di trovarci tutti sullo stesso piano, in un’unica grande nave che stenta a tenersi in equilibrio nella burrasca.
    Che senso ha, potrebbe chiedersi qualcuno, ringraziare in un momento come questo? E per cosa dovrei ringraziare quando mi è stata strappata anche la cosa più effimera, che poi ho scoperto essermi così indispensabile?
    Ecco, credo che la seconda domanda contenga in sé una risposta.
    Anche il Padre nostro si apre con un inno che, con la formula come in Cielo così in Terra, chiama anch’esso a raccolta tutte le creature mortali e divine a lodare la Volontà del Signore.
    Ecco, in quelle parole io leggo questo senso di abbandono nel passare da creature attive a esseri passivi e in quella passività consapevole e coraggiosa risiede il significato profondo della fede. È un tendere le braccia e accogliere tutto ciò che il Signore ha in serbo per noi, nel bene e nel male, lasciarsi andare lungo quel sentiero di cui solo Lui conosce i segreti. E se lo interroghiamo, come la Luna di Leopardi, non sentiremo la sua risposta. Ma se sapremo che è lì con noi, allora non avremo bisogno di interrogarlo.
    Allo stesso tempo questa accettazione assume un risvolto fortemente attivo, nel momento in cui la preghiera recita: e rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori. A quel punto, quella fiducia quasi univoca nel rapporto tra noi e Dio si tramuta in impegno.
    Improvvisamente, non preghiamo più per lodare o ottenere, ma per condividere. E questa condivisione si manifesta anche nel Salmo del buon pastore, quando il Signore ci conduce nella sua tenda e ci invita alla sua mensa. Il pasto offerto come segno di ospitalità, porta noi e il Signore sullo stesso piano, in un’atmosfera non più di dipendenza dalla sua guida, ma di comunione con Lui.
    Non siamo totalmente passivi nel nostro rapporto con Dio, in quanto amare è allo stesso tempo un verbo attivo, che rappresenta uno scambio, e un verbo transitivo che rappresenta il passaggio di un dono dalle mani del Signore nelle nostre. E nell’accogliere i doni della sua mensa, accettiamo la comunione con Lui e ci inseriamo attivamente nel cammino che ha scelto per noi.
    Mi rendo conto di quanto il pensiero vada oltre le parole e la fedeltà al testo cada vittima della fallacia delle nostre emozioni. Leggiamo ciò che desideriamo intendere e ci rapportiamo alla poesia e al canto con il filtro del nostro pensiero.
    E tali idee racchiuse nei Salmi che ci calano dal cielo e ci insegnano le nostre speranze, sono scritte per ognuno di noi, che le cantiamo in quanto collettività ma, in quanto individui, le interpretiamo ognuno secondo la nostra sensibilità.
    Dal canto mio, la difficoltà non è di colui che legge e riflette, ma, come il Salmista, di colui che è con la testa fra le nuvole e attende l’ispirazione.
    Io attendo.

    (“La Lettura” - 20 settembre 2020)


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