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    La lampada della fede

    Jean-Louis Ska


     

    La fede è come una lampada che illumina la notte; questa lampada non ci mostra tutto il cammino da fare, ci permette di vedere solo uno spazio molto limitato. Non dobbiamo tuttavia dimenticare che quando facciamo un passo avanti avanza pure la lampada e quindi man mano che si procede la luce ci accompagna. Riprendo l’immagine della lampada dai Padri del deserto che, a partire dal quarto secolo, sono andati a vivere nelle regioni disabitate d’Egitto. Tenendo presente proprio quest’immagine, vorrei spiegare che cos’è “il confine” per il cristiano, vale a dire un confine che si sposta secondo la luce della fede. Ciascuno di noi, in effetti, così come ogni comunità, ha la sua luce, luce che possiamo trascurare, dimenticare, e persino spegnere, però esiste e rimane sempre a disposizione!
    I tre relatori hanno parlato fin ora del presente, del mondo contemporaneo. Tocca a me parlare del passato, vale a dire della storia biblica e del popolo d’Israele. Farò un percorso in tre tappe. Nella prima illustrerò cosa sia il confine nel mondo biblico e soprattutto nella mentalità popolare d’Israele, mentalità illustrata specialmente dai Salmi che racchiudono la spiritualità del pio ebreo dell’Antico Testamento. In una seconda tappa vorrei mostrare come questo modello sia entrato in crisi. Infine, partendo dal libro della Genesi e dell’Esodo, indicherò quale modello ha sostituito quello precedente.

    1. L’ideale di stabilità
    Il primo modello corrisponde ad un modo di pensare ai confini abituale nel passato così come per i nostri contemporanei (l’ha descritto molto bene il prof. Naso): per questa modello, il mondo necessita di un centro. Per gli antichi, il centro è la capitale, lì dove si trova il palazzo del re e il tempio che è, nella maggioranza dei casi, la cappella regale. Questo modello è descritto specialmente nei libri di Samuele e dei Re dove si racconta come Davide, il primo grande re d’Israele, riesce a liberare e conquistare un territorio, stabilisce i suoi confini e fa regnare la pace tutt’attorno, come dice una frase molto significativa della Bibbia “regna la pace tutt’attorno” (Gios 23,1; 1 Sam 12,11; 2Sam 7,1). Davide ha pacificato il territorio e ha sconfitto tutti i nemici d’Israele, e questo permette a Salomone, suo figlio, di costruire il suo famoso tempio (1 Re 5-8). Israele, in questo momento, dispone di tutto quello che un popolo antico si poteva augurare: viveva al sicuro nel proprio territorio, aveva un suo re e non un re straniero che teneva a bada i suoi nemici, questo re aveva fondato una dinastia, il paese aveva la sua capitale con il palazzo del re e un tempio dedicato al Dio nazionale, e la pace regnava all’interno del paese così come alle frontiere. “Gli abitanti di Giuda e Israele, da Dan fino a Beer-Seba, vissero al sicuro, ognuno all’ombra della sua vite e del suo fico, tutto il tempo che regnò Salomone”, come dice la stessa Bibbia (1 Re 5,5). La stabilità descritta in questi capitoli è l’ideale al quale aspira l’uomo biblico, è la sua speranza più profonda, ed è quest’ideale che ritroviamo descritto in diversi Salmi quando si parla, fra l’altro, di “vivere in pace nella casa del Signore”: Una cosa ho chiesto al Signore, e quella ricerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per contemplare la bellezza del Signore, e meditare nel suo tempio” (Sal 27,4).
    La Bibbia si appropria e utilizza per i propri scopi, in questo ambito, un antico mito di fondazione molto conosciuto nel Medio Oriente antico, specialmente in Mesopotamia e in Siria (Fenicia). Secondo questo mito, la storia inizia con la creazione del mondo che è spesso descritta come una battaglia fra un dio e le forze primordiali del caos. In Mesopotamia, il mostro del caos è l’abisso delle acque salate. Nei miti della Fenicia, i due nemici principali sono il Mare e la Morte (in realtà, il deserto che è la personificazione della morte). Dopo aver vinto i suoi nemici ed organizzato l’universo, il dio si costruisce un tempio, ossia una residenza o palazzo. Il re terrestre, in realtà, non fa che “imitare” il dio nazionale quando sconfigge i suoi nemici, conquista un impero, pacifica il suo regno e, in seguito, costruisce un palazzo. Per essere più preciso, possiamo addirittura dire che il mito di fondazione si compie quando un re fonda un impero con una nuova capitale e un nuovo palazzo. L’opera, secondo la mentalità antica, non è quella del re, bensì del suo dio. Israele, su questo punto, non si distingue molto dalle culture vicine. L’ideale dell’uomo biblico è di vivere vicino al “centro”, nella capitale, non lontano dal palazzo del re o del tempio del suo Dio, nella pace e nella stabilità. L’uomo biblico, così come l’uomo antico, è allergico al cambiamento, alla precarietà e all’instabilità.

    2. La crisi del modello tradizionale
    Questo modello è entrato in crisi con l’esilio, quando Gerusalemme e il tempio sono stati distrutti, quando la monarchia è finita male e il popolo d’Israele ha perso tutto ciò che costituiva la sua identità: il suo territorio, la sua capitale, la monarchia e il tempio. Dio non aveva difeso il suo popolo e gli eserciti babilonesi avevano conquistato Gerusalemme e l’avevano saccheggiata. Era stato, secondo i profeti, un castigo per il peccato di un popolo infedele nei confronti del proprio Dio.
    Si pone, in questa situazione, una domanda cruciale: Israele esiste ancora come popolo pur non avendo più niente di quello che costituisce una vera nazione? E se vi è ancora una speranza per Israele, come ridefinire allora i confini della propria identità?

    3. Una nuova definizione d’Israele
    Israele, in queste circostanze tragiche, cerca di riformulare la propria identità a partire da altri fondamenti, diversi da quelli abituali e conosciuti in tutto il Medio Oriente antico. Israele, a questo scopo, rilegge il mito della creazione alla luce della sua esperienza per ritrovare la presenza di Dio. Il Dio d’Israele è certo il creatore del mondo come tutte le divinità del Medio Oriente antico. La rilettura del mito di creazione nella prima pagina della Bibbia, Gn 1, il capitolo che descrive la prima settimana dell’universo.
    La prima opera divina, in Gn 1, è la luce (1,3) che Dio crea per sconfiggere le tenebre, anche se il capitolo cancella ogni riferimento alla battaglia primordiale. Poi egli separa le acque di sopra dalle acque di sotto e nel terzo giorno mette tutte le acque in un serbatoio e fa apparire la terra secca. Nel secondo e terzo giorno, Dio assegna un posto alle acque – operazione che corrisponde, nei miti tradizionali ad una vittoria sulle acque primordiali. Il Dio d’Israele, quindi, crea e organizza il mondo senza combattere, lo popola in seguito prima con la vegetazione, poi con tutte le creature: gli uccelli del cielo, i pesci del mare, gli animali e l’umanità.
    Chi legge il testo per la prima volta, però, non si accorge di differenza fondamentale che c’è fra questo racconto della creazione e tutti gli altri racconti: il racconto non finisce con la costruzione di un tempio. Aspettiamo, infatti, che il Dio creatore del mondo costruisca il proprio tempio (il proprio palazzo) per affermare la propria sovranità sull’universo. Ma alla fine del primo capitolo della Genesi non c’è la costruzione di un tempio, non c’è un “luogo sacro”, c’è invece un “tempo sacro”. Il Dio di Gn 1 si riserva un giorno, il settimo giorno, che Lui riempie di tutta la sua presenza. È la prima settimana, la settimana della creazione dell’universo, e Dio non viene ad abitare in un luogo particolare, bensì in un tempo particolare, viene ad abitare la storia.
    Nel racconto della creazione non è detto ancora (bisognerà aspettare il capitolo XVI del libro dell’Esodo) che cosa sia il sabato, ma poco importa. Secondo lo schema abituale dei miti mediorientali, Dio deve acquistarsi un popolo, sconfiggere tutti i suoi nemici, conquistare un territorio, fondare una dinastia e abitare nel tempio che si trova nella capitale del paese. Dio deve ancora acquistarsi un popolo perché non può avere un tempio se non in mezzo al “suo” popolo. Questo popolo, come sappiamo, è il popolo d’Israele, gli antenati del quale sono Abramo, Isacco e Giacobbe. I loro discendenti sono in Egitto, dove sono stati ridotti in schiavitù dal faraone (Es 1). Per vedere Dio abitare nel tempio e il popolo d’Israele giungere alla stabilità tanto sperata, dobbiamo allora aspettare la conquista della terra, la monarchia e la costruzione del tempio di Salomone? In nessun modo.
    Dio, difatti, non aspetta la conquista della terra, non aspetta neanche la monarchia di Davide e di Salomone per avere un tempio, perché si fa costruire un primo santuario nel deserto, in una tenda. Perché?
    Quando Dio ha fatto uscire il popolo dalla schiavitù d’Egitto avrebbe potuto condurlo direttamente nella Terra Promessa. Aveva davvero promesso questo a Mosè: “Sono sceso per liberare [il mio popolo] dalla mano degli Egiziani e per farlo salire da quel paese in un paese buono e spazioso, in un paese nel quale scorre il latte e il miele” (Es 3,8). Dio, però, non conduce il popolo direttamente nella Terra Promessa: c’è un testo alla fine del capitolo XIII del libro dell’Esodo in cui si legge che Dio ha scelto di non condurre Israele per la via dei Filistei verso la Terra Promessa, ma l’ha condotto verso il deserto (Es 13,17).
    Il deserto, tuttavia, è tutto il contrario del territorio dove si vive in pace, nella prosperità e la stabilità. Il deserto rappresenta invece un “non territorio”, perché nel deserto non c’è niente. La sola realtà che troviamo nel deserto, quando Israele esce dall’Egitto, è proprio Israele. Nel deserto non c’è da mangiare, non c’è da bere, non ci sono istituzioni, c’è solo il popolo. Il deserto è una terra sconfinata, senza limiti, perché è la terra della morte “dove nessuno vive e nessuno passa” dice la Bibbia (Ger 2,6). Che cosa possiede Israele nel deserto? Assolutamente niente, salvo la libertà. Dio ha liberato Israele e Israele ha la libertà, essa è l’unico suo possesso. Il popolo d’Israele, a questo punto della sua storia, si dà i propri confini, si dà anche le proprie regole e le proprie leggi, quando decide che cosa significa vivere liberamente e si assume le proprie responsabilità davanti al proprio Dio. Nel deserto non c’è più un faraone per prendere le decisioni e magari risolvere i problemi, c’è solo Israele davanti al suo Dio, responsabile della sua sorte e del suo destino.
    Questa responsabilità d’Israele davanti al suo Dio cancella i confini interni che esistevano nelle culture del mondo antico e che esistono ancora nel nostro mondo. La prima frontiera che viene cancellata è quella fra sudditi e dirigenti poiché tutto il popolo si trova davanti al suo Dio, è responsabile davanti al suo Dio senza differenze dovute al ceto sociale. Le leggi d’Israele in questo si distinguono nettamente dalle leggi del Medio Oriente Antico. Nelle leggi della Mesopotamia, per esempio, c’è una differenza chiara fra dirigenti, uomini liberi e schiavi. In Israele questa differenza sparisce in via di principio. Lo schiavo, in diverse leggi, è trattato al pari delle persone libere.
    L’altra distinzione che scompare nel diritto biblico è quella fra ciò che è obbligatorio e ciò che è permesso. C’è una differenza palese fra il diritto biblico e il diritto del Medio Oriente antico: in quest’ultimo ogni legge viene accompagnata da una sanzione, ed è chiaro che la legge prevede una pena per chi non la rispetta. Tante leggi della Bibbia sono dello stesso tipo, ma altre, e questo ci deve sorprendere, non sono accompagnate da una sanzione. Queste leggi cercano soltanto di convincere, non di costringere, e si rivolgono alla ragione del popolo, alla sua coscienza. Sono “leggi scritte sul cuore” per usare un’espressione biblica del profeta Geremia (31,33), leggi che sono osservate per intima convinzione, non per costrizione, in una nazione dove tutti si sentono responsabili del buon andamento delle cose. Spariscono quindi in Israele la distinzione rigida fra dirigenti e sudditi perché ogni persona, ogni famiglia, ogni comunità è consapevole del suo dovere davanti a tutto il popolo e davanti al suo Dio. L’esistenza del popolo è l’affare di tutti, così come l’ordine pubblico e la prosperità del paese. In un linguaggio più moderno, questo principio si chiama senso civico.
    Una terza distinzione è soppressa del diritto biblico, la differenza ben conosciuta in tutti i diritti dell’antico oriente tra diritto sacro e diritto profano. Nel diritto romano si chiamava ius et fas, ius essendo il diritto civile e fas il diritto sacro che regolava il culto degli dèi. Nel diritto d’Israele questa differenza scompare perché ius e fas sono strettamente uniti nelle raccolte di leggi. Ciò significa che tutta la vita è sacra o, inversamente, che tutta la vita è profana. Si potrebbe persino dire che il diritto d’Israele è all’origine della secolarizzazione perché il popolo deve servire il suo Dio ogni giorno della settimana, e non solo nei giorni di festa. I doveri verso Dio non sono soltanto quelli del culto occasionale, ma sono doveri di ogni giorno. In altre parole, tutta la vita è servizio di Dio e il lavoro di ogni giorno è culto al pari delle cerimonie del culto che hanno luogo durante le feste liturgiche.
    Per concludere queste brevi riflessioni sulla Bibbia, possiamo dire che i confini d’Israele non sono più i confini di un territorio o di uno spazio preciso, ma piuttosto quelli che il popolo dà a se stesso davanti al suo Dio. I veri confini d’Israele sono davvero quelli del suo comportamento e la legge è diventata la sua “patria portatile”, per usare un’espressione del poeta tedesco di origine ebraica, Heinrich Heine.
    Il Nuovo Testamento continua questo tipo di riflessione e porta l’idea al suo compimento quando dice che il tempio è la persona di Gesù Cristo, o la comunità dei credenti. Ciò significa nuovamente che i confini della comunità cristiana sono confini umani. Non sono confini territoriali o geografici, sono confini tracciati ogni giorno dalla storia della salvezza e dall’avventura di una comunità che segue il suo salvatore sulle vie di questo mondo per seminarvi la parola del vangelo.
    Vorrei terminare riprendendo ciò che ho detto a proposito dell’ideale di stabilità legato al possesso della Terra Promessa. Si tratta di un’aspirazione del mondo antico, ma anche di molte delle nostre chiese e di molte comunità cristiane. Questo sogno è presente in diverse parti dell’Antico Testamento, ma – come abbiamo visto – Israele ha dovuto abbandonarlo e sostituirlo con un altro modello, più dinamico e più flessibile. L’impressione generale, però, è che il nostro mondo cristiano sia di nuovo tentato dall’antico sogno di fissità e di stabilità, di sicurezza e di incolumità. Davanti a questo mondo cristiano alquanto invecchiato e che ha apparentemente sempre più difficoltà a progredire e a tracciare nuove vie nel mondo contemporaneo, potremmo esprimere la nostra fede e la nostra speranza con il grido di Galileo Galilei: “Eppur si muove!”.

    (Tavola rotonda, Assisi 29 maggio 2004)

     


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