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    dei poveri

    La spiritualità dei salmi

    Armido Rizzi

    gridoecanto

    il Quaderno di Servitium in formato pdf

    Capire: struttura e teologia dei salmi
    Gustare: la poesia dei salmi
    Eseguire: i salmi come preghiera corale
    Per una lettura cristiana dei salmi
    Per una lettura spirituale del salterio.
    Guida bibliografica

    Il quaderno è a cura di Armido Rizzi con integrazioni di:
    Eugenio Costa, I salmi in bocca;
    Gianfranco Ravasi, Per una lettura spirituale del salterio;
    Mauro Todde, I salmi nella letteratura patristica;
    David Maria Turoldo, Perché anche i salmi di maledizione.

    Sul colle di Sant'Apollinare, a Fiesole, da sette anni un gruppo di amici fiorentini si raccoglie il martedì sera per una lectio divina, che affronta ogni anno un libro (o, più raramente, un tema) dell'antico o del nuovo testamento. Gli anni 1984-1985 sono stati dedicati al libro dei salmi; e poiché alla fine ne è risultata una lettura unitaria e, per certi versi, sorprendente, essa è stata riproposta, nella stessa sede, alla cerchia più ampia di partecipanti alla settimana teologica estiva. Ne è poi nato uno dei Quaderni di S. Apollinare, che ha incontrato particolare favore (tra l'altro, è stato parzialmente ripreso da COM/Nuovi Tempi come tema nelle pagine centrali del quindicinale). Servitium riprende ora integralmente quel quaderno, completandolo con alcuni autorevoli interventi.
    Di introduzioni ai salmi ne esistono ormai molte, da quelle scientificamente agguerrite e ponderose a quelle più agili e accessibili: la pregevole nota bibliografica di G. Ravasi, in fondo al presente quaderno, ne offre un quadro così ricco e invitante da lasciarci soltanto l'imbarazzo della scelta. Perché allungare la lista con un nuovo titolo? Una ragione c'è: è la piccola ambizione di offrire insieme una rapida sintesi della teologia originaria dei salmi e una loro idonea attualizzazione. Quell'"insieme" ha un certo sapore di sfida. La tradizione cristiana ha sottoposto i salmi a un processo di rilettura le cui chiavi sono state la cristologizzazione e la spiritualizzazione. In base alla prima, tutto quanto nei salmi viene detto ha valore di figura di ciò che si compirà in Cristo; in base alla seconda le situazioni umane che nei salmi prendono voce, e che sono legate alla pena e alla gioia del vivere quotidiano, raggiungono la loro verità nelle esperienze interiori del cristiano o nelle azioni sacramentali della chiesa.
    Senza voler negare il valore di questa tradizione, che certamente ha contribuito come nessun'altra a tener viva la pratica della preghiera salmica, noi cerchiamo, nelle pagine che seguono, di ricuperare la densità esistenziale e religiosa già immanente al dettato letterale dei salmi, la teologia e la spiritualità da cui sono attraversate quelle grida di persone abbandonate, calunniate, malate, esiliate, affamate, insomma diversamente lambite dall'"ombra di morte"; e poi, la teologia e la spiritualità da cui è lievitato il grazie di chi è stato liberato, reintegrato, riconosciuto, guarito, insomma è "tornato alla vita". Ecco: ritrovare i salmi come il grido e il canto del povero, come il suo discorso di saggezza e il suo orizzonte di speranza, la sua radice così abbarbicata alla terra e la sua fede così sospesa alla Parola.
    Ritrovare questa spiritualità dei salmi, che è l'intenzionalità religiosa da cui sono portati, è dunque anche scoprire la loro attualità, la loro possibilità di essere ancora pregati da tutti coloro che si ritrovano in quelle situazioni di morte e dí vita, di passione e di risurrezione. Ed è - può essere - scoprire quella seconda dimensione di spiritualità che consiste nel recitarli non per se stessi ma per i poveri, in persona pauperum: a nome loro, con loro, quasi mettendosi dentro la loro pelle. Per chi è disposto a sperimentare questo senso, antico e nuovissimo, della preghiera salmica, questo quaderno di Servitium può rappresentare un utile vademecum.
    Ho detto "sperimentare". Che non è soltanto capire, ma eseguire; anzi, dar corpo alla propria comprensione attraverso l'esecuzione. La teologia e la spiritualità di un salmo non sono presenti soltanto nelle parole di cui è composto, ma nella disposizione di quelle parole, nella sua "struttura". Questo giustifica che sí siano mantenute nel quaderno anche le indicazioni leggermente tecniche riguardanti appunto la struttura dei singoli generi letterari (a volte, per i generi minori, struttura e teologia vengono addirittura presentate assieme). Ma inoltre, si notava, l'indicazione della struttura vorrebbe sollecitare una migliore esecuzione del salmo, specialmente nella recitazione comunitaria; un'esecuzione che sia come la messa in opera della sua teologia e lo snodarsi della sua spiritualità. Perciò va colta e sottolineata la connessione tra le indicazioni strutturali della prima parte (Capire) e le osservazioni ed esemplificazioni della terza parte (Eseguire).
    La parte intermedia (Gustare) offre invece un'indicazione di principio e qualche esempio suggestivo sul linguaggio simbolico dei salmi; ognuno potrà continuare il lavoro, in queste pagine appena accennato. Una quarta e ultima parte (Per una lettura cristiana dei salmi) intende esplicitare e precisare quella modalità di attualizzazione dei salmi che ne prolunga e porta a compimento l'intenzione originale, differenziandola da quella che la tradizione patristica ha lasciato in eredità alla chiesa successiva e che l'ha fortemente segnata, nei suol meriti e con i suoi limiti.
    Due osservazioni finali. Il corpus del quaderno consiste nella trascrízíone delle lezioni tenute durante la settimana estiva (di cui si diceva all'inizio); malgrado la risistemazione sintattica decorosa, il discorso mantiene un certo andamento "parlato", che ne agevola indubbiamente la lettura ma a volte si concede qualche trascuratezza stilistica (spero non anche qualche imprecisione concettuale).
    In secondo luogo, ho già accennato a integrazioni che il discorso ha ricevuto in Servitium rispetto alla sua stesura precedente. Nella prima parte è stata inserita, dopo i salmi di lamentazione individuale, una ispirata meditazione di p. Turoldo (Perché anche i salmi di maledizione), in cui egli spezza una lancia (è il caso di dirlo!) a favore delle "imprecazioni" che quei salmi contengono. Le poche pagine dedicate all'esecuzione dei salmi vengono arricchite da una densa nota del p. Eugenio Costa (I salmi in bocca. Nota sulla vocalità dei salmi), dove competenza teorica e sapienza pratica vengono messe al servizio di chi vuole migliorare la qualità della propria proclamazione. La quarta parte è composta da un dittico, il cui primo quadro è costituito dall'articolo ben documentato di p. Mauro Todde (I salmi nella letteratura patristica) sull'uso e l'interpretazione dei salmi nella chiesa dei Padri. Somiglianze e differenze, sintonie e distonie con il quadro successivo, in cui si cerca una diversa attualizzazione, appariranno chiaramente alla lettura. Abbiamo già detto, infine, della nota bibliografica ragionata di G. Ravasi (Per una lettura spirituale del salterio. Guida bibliografica), che è il migliore invito a continuare lo studio dei salmi.


    CAPIRE: STRUTTURA E TEOLOGIA DEI SALMI

    Premessa

    Lo studio dei salmi è stato rinnovato dalla scoperta dei "generi letterari" operata da H. Gunkel e ormai accettata da tutti gli studiosi. Anche noi seguiremo questo approccio, presentando - almeno per i generi principali - la struttura letteraria in cui l'anima teologica e orante del salmo si è calata, e dando poi un esempio di questa struttura attraverso il breve commento a un salmo particolare.
    Ma il contributo principale che queste note intendono offrire è una certa penetrazione teologica nella preghiera dei salmi, attraverso cui emergono le linee fondamentali dell'uomo biblico e del suo Dio. Non c'è forse altro libro dell'antico testamento in cui queste linee siano altrettanto marcate e, al tempo stesso, così ricche da formare un disegno completo. E soprattutto a cogliere questo disegno che le pagine seguenti vorrebbero servire.
    Per questo verranno messi in evidenza soprattutto gli aspetti che collegano tra di loro i diversi generi letterari, e che sono le costanti teologiche della preghiera, salmica.

    Salmi di lode [1]

    Sgorgati spontaneamente dall'esperienza (cfr. Es 15,21; Gdc 5, 3; Gdt 16, lss.), vengono elaborati per la liturgia di Israele, e da qui rifluiscono sull'esperienza. «Dove si canta un inno dí lode a Dio, là si fa un inno liturgico, sia che questo avvenga in una camera, sia che avvenga in una cattedrale, oppure nella cella di un carcere» (Westermann).

    Struttura

    Introduzione. Consiste nell'invito alla lode. La sua forma più frequente è la seconda persona plurale: lodate, cantate, benedite, celebrate... (33,1-3; 113,1; 136,1-3; ecc.). E il solista che invita il coro a cantare. Ma chi rappresenta il coro? Anzitutto Israele (figli di Sion, di Giacobbe, servi del Signore...): 113, 1; 118, 2s; 149, 2; ecc. A volte, tutta l'umanità (terra, popoli, re e príncípi) o tutto il mondo (ogni vivente, ogni carne): 96, 1; 97, 1; 150, 6; ecc.
    (Altre forme di invito sono: - quella riflessiva: io (voglio cantare, benedire): 34, 2; anima mia (loda, benedici): 103, ls; - quella passiva (sia benedetto): 113, 2s., e altre ancora.

    Corpus del salmo. Viene enunciata la ragione della lode:
    - con l'avverbio causativo: perché 33, 4.9; 100, 5; 136 (ritornello); ecc.
    - con il pronome relativo (Dio) che (che in ebraico è spesso sostituito dal participio): 103, 1-5; 104, 2b-4a.5.10.13.19; 136, 4-6.7.10.13.16 (inizio strofe); 147, 7-9.14ss.; ecc.
    Viene presentata la persona oggetto della lode: Dio (normalmente alla terza persona; raramente alla seconda: 8; 65; 139, 1-18):
    - nelle sue qualità: 103, 8ss.; 145, 17; ecc.
    - ma soprattutto nelle sue azioni:
    - al passato: creazione e salvezza: 89, 12-30; 104, 6-9; 136; ecc.
    - al presente: 146, 7ss.; 147; ecc.
    - al futuro: 93, ecc. (cfr. salmi di intronízzazione di Jahvé).
    - confrontandolo con altri (presunti) dei: 96, 5; 135, 15-18; 136, 3ss.; ecc.

    Conclusione. Consiste normalmente nella ripresa dell'introduzione: 8, 10; 103, 20-22; 135, 19-21; ecc.

    Salmo 136 [2]

    L'insieme. L'elemento più vistoso del salmo è il ritornello, che ricorre, senza interruzione, dal primo all'ultimo versetto: «perché eterno è il suo amore». Ed è questo ritornello a offrirci la chiave di lettura del salmo. "Perché" dice un rapporto causale; l'"amore eterno" di Dio è dunque presente nel salmo come causa, come fonte. Di che cosa? La risposta è duplice.
    Anzitutto: il "perché" si riferisce, dentro ogni versetto, a quanto viene detto nella prima parte, cioè all'azione di Dio che vi viene enunciata: ha fatto i luminari, ha percosso l'Egitto, ha guidato il suo popolo... «perché eterno è il suo amore». Ma, in secondo luogo, il "perché" si riferisce pure all'invito alla lode che, pronunciato all'inizio, sottende tutto il salmo: lodate il Signore... perché eterno è il suo amore.
    L'amore dí Dio è dunque causa delle sue azioni (struttura dei versetti) e della lode dell'uomo (struttura del salmo). Ma è evidente che le due connessioni amore-azioni e amore-lode non sono semplicemente accostate, ma si intersecano: poiché l'amore di Dío sí manifesta nelle sue azioni, sono queste direttamente la fonte della lode. Più esattamente: riferita alle singole azioni di Dio, la parola umana è ringraziamento; riferita all'amore eterno che in essa si rivela, è lode (il verbo ebraico jdh vuol dire l'uno e l'altra. Vedi il rapporto tra lode e ringraziamento nelle rispettive sezioni teologiche).
    Si può riassumere tutto con lo schema seguente:
    rizzi-salmi
    La struttura letteraria del salmo è dunque, già ín se stessa, carica di teologia. È quanto conferma un'altra osservazione. Perché ripetere a ogni versetto «eterno è íl suo amore», che poteva benissimo essere detto all'inizio e alla fine, evitando la monotonia e la sazietà? Nel salmo la teologia ha la meglio sulla psicologia: l'amore che si rivela negli interventi di Dio è sempre lo stesso ma è sempre nuovo. L'amore di Dio non procede per passaggi necessari, come una serie di reazioni chimiche a catena, o come un ragionamento stringato, dove tutto deriva ineluttabilmente dalle premesse poste. L'amore è libera donazione, che si rinnova in ognuna delle sue manifestazioni, generando ogni volta nell'amato la sorpresa e la gioia. Di qui la ripetizione, che interrompe la narrazione togliendole il carattere di necessità e affermandone il carattere di libertà.
    Eppure è sempre lo stesso amore, lo stesso disegno che si dipana. Questa unione di continuità e di novità, di tenuta e di libertà, è la fedeltà. La fedeltà è la parola d'amore (il "giuramento d'amore") mantenuta: di qui la sua continuità (parola mantenuta) e la
    sua continua novità (parola d'amore). È questo il senso appropriato del termine ebraico hsd nell'antico testamento: l'amore che Dio ha giurato e che sempre mantiene, rinnovandolo in ognuno dei suoi interventi. Perciò anche la lode si rinnova, si rigenera al racconto di ognuno di essi.
    Non c'è commento migliore alla ripetizione che contrappunta il salmo 136, della preghiera che gli ebrei recitano nella annuale celebrazione della Pasqua: "dayenu" = "ci sarebbe bastato":

    Di quanti benefici noi siamo debitori al Signore!
    Se ci avesse fatti uscire dall'Egitto

    e non avesse fatto giustizia di loro,
    dayenu.
    Se avesse fatto giustizia di loro
    e non dei loro dèi,
    dayenu.
    Se avesse fatto giustizia dei loro dèi
    e non avesse ucciso i loro primogeniti,
    dayenu.

    Se avesse ucciso i loro primogeniti
    e non ci avesse dato le loro ricchezze,
    dayenu,

    Se ci avesse dato le loro ricchezze
    e non avesse diviso il mare per noi,
    dayenu.

    Se avesse diviso il mare per noi
    e non ci avesse fatto passare in mezzo ad esso all'asciutto,
    dayenu.

    Se ci avesse fatto passare in mezzo ad esso all'asciutto,
    e non vi avesse fatto affogare i nostri persecutori,
    dayenu.

    Le parti. Dopo l'introduzione, che per tre volte ripete l'invito alla lode (vv. 1-3), il salmo si snoda chiaramente in due sezioni, che narrano due momenti fondanti dell'esistenza: la creazione e la storia.
    La creazione (vv. 4-9) ha disegnato lo spazio (vv. 4-6) e il tempo (vv. 7-9) cosmici che costituiscono il quadro della storia umana e della storia di Dio con l'uomo. Questa viene concentrata nella storia di Israele, anzi nella serie degli interventi di Dio che costituiscono l'atto fondatore: l'esodo (vv. 10-24). Volendo, si può fare una divisione ulteriore: uscita dall'Egitto (vv. 10-15), cammino nel deserto fino al Giordano (vv. 16-20), ingresso nella terra promessa (vv. 21-22).
    Ma più di queste suddivisioni conta il movimento che comanda questa sezione, e che viene enunciato ín forma generale ai vv. 2324: la liberazione. Liberazione da: Faraone, Mar Rosso, deserto, nemici. Liberazione per: il possesso della terra. Il liberatore è Dio, di cui si ripete quasi a ogni versetto il puntuale intervento: percosse, liberò, divise, fece passare, travolse, guidò, percosse, uccise, diede in eredità; insomma: "si è ricordato" e "ci ha liberati" (vv. 23s.). Il liberato è Israele, la cui menzione scandisce con abbondanza questi versetti: vv. 11, 14, 16, 22.
    Ma il salmo non si chiude sulla liberazione di Israele. Nel v. 25 esso si dilata a cantare il gesto della sollecitudine universale di Dío: "dà il pane (ebraico: lehem) a ogni uomo". Se la creazione ha disegnato il quadro della storia, la storia confluisce nel godere i beni della creazione: la terra per Israele è, più ampiamente, il pane per ogni uomo, per ogni fragile uomo ("ogni carne"). Il "pane" è la concrezione quotidiana dell'amore di Dio, è il punto d'arrivo della creazione e della storia, l'attestato della fedeltà divina che opera in esse. Perciò il P. Beauchamp propone di considerare questo salmo come la «recita di un'azione di grazie sul pane" (p. 215).

    Teologia della lode

    Partiamo dalla distinzione tra lode e ringraziamento. Ringraziare è esprimere gratitudine per un bene ricevuto, lodare è riconoscere il valore di un bene in se stesso. Tuttavia questo non vuol dire che il ringraziamento sia interessato, a differenza della lode caratterizzata dal disinteresse; non vuol dire che i salmi di lode siano centrati su Dio e i salmi di ríngrazíamento sull'uomo. Gli uni come gli altri hanno come oggetto la relazione tra Dio e l'uomo. Oggetto della lode non è Dio in sé, nella sua "essenza", ma nel suo amore per l'uomo; oggetto del ringraziamento non è il benessere dell'uomo in sé, ma il suo derivare da Dio. La differenza non è dunque di sostanza ma di ampiezza: la lode ha un carattere più generale, il ringraziamento più puntuale. Su una base comune di riconoscimento di quello che Dio ha fatto, la lode abbraccia l'insieme delle opere di Dio, il ringraziamento si fissa su un'opera particolare o un segmento di benefici per me o per la comunità.
    Per entrare nel cuore della lode, possiamo partire da alcuni passi di salmi, in cui si prega Dio di allontanare la morte, perché «i morti non lodano il Signore» (6, 6; 30, 10; 88, 11; 115, 17; Is 38, 18). I morti non lodano più Dio perché la morte è lo spazio dove non si sperimentano più le opere di Dio, i doni del suo amore. Ora, per il salmista non poter lodare Dio è il massimo dei mali: come in esilio l'oggetto della nostalgia più pungente è la lode (Sal 42,5), così in quell'esilio senza ritorno che è lo sheol, il regno dei morti.
    Questo vuol dire che la lode non è soltanto la risposta umana ai beni di Dio, ma è essa stessa un bene, il bene più profondo dell'esistenza dell'uomo: lodare è "bello" ( = cosa buona e dolce) (Sal 92, 2; 147, 1) come è "bella" la creazione (Gen 1).
    Per comprendere questo valore della lode, dobbiamo fare una rapida riflessione sul "bene". Nella parola "bene" o "buono" ci sono due intenzionalità. Una cosa è buona perché è fruibile, gradevole; una cosa è buona perché dà corpo alla bontà di chi la dona. buona per sua natura intrinseca di fruibilità; è buona per la sua provenienza, perché espressione della bontà del soggetto, della benevolenza che si dà. Nella percezione che Israele ha del mondo c'è l'incontro con la bontà intrinseca delle cose in quanto fruibili; ma dietro tutto questo Israele coglie un'altra bontà che è la sollecitudine di Dio: le cose sono "benedizione". Israele oltre alla fruizione settoriale di ogni bene, fruisce della fidatezza del dono di un amore eterno. Da questo gusto delle cose perché date da un amore eterno nasce la lode. La lode è dar voce a quel bene che è lo strato più profondo di tutti i beni in quanto non sono casuali, accidentali, ma sono dei doni di cui posso fídarmí: insieme alla loro bontà specifica assaporo l'altra bontà. Ecco perché la lode fa parte dell'essenza stessa della vita di Israele. È la bellezza della bontà, così forte che permane anche quando i singoli beni vengono a mancare. Il giusto sofferente del Sal 22, pur facendo l'esperienza dell'abbandono da parte di Dio, lo chiama "lode di Israele". Dio è la lode di Israele perché è la bontà che procura tutti i beni.
    Questa contemplazione del mondo in quanto espressione della bontà di Dio è l'estetica di Israele; dunque un'estetica della "grazia", dove questo termine dice insieme la bellezza delle cose e la gratuità dell'amore che le dona.
    Ma questa è anche la spiritualità di Israele; una spiritualità del materiale, che non cerca Dio aldilà delle realtà ma dentro di esse, che fa l'esperienza del suo amore nella fruizione dei beni presenti o nel ricordo dei beni assenti, comunque sempre in relazione con la concreta fecondità di quell'amore.

    Lode e comunità. Il salmo di lode non è preghiera detta per gli altri, né soltanto con gli altri; è un cantare rivolto agli altri e un ascoltare il loro canto: è una reciprocità. Nel salmo di lode, il soggetto non è né l'individuo isolato né il collettivo che sommerge le individualità, come nel gruppo "in fusione"; è invece quel tertium che è la comunità di persone: unità nella distinzione, comunione nella pluralità. Per questo c'è l'alternanza delle voci: l'invito a lodare e la risposta, la testimonianza e la reazione. La lode, più che di fronte a Dio, è gli uni di fronte agli altri per dire di lui: perciò Dio è quasi sempre in terza persona. Non è Dio ad aver bisogno della nostra lode; siamo noi ad aver bisogno di lodare Dio. La lode è parola fine a se stessa, che rimbalza da una bocca all'altra disegnando forme e figure nella sovrana libertà e legalità del gioco; perciò è anche musica e danza [3].
    Perciò anche la lode nella comunità è la prefigurazione del mondo liberato, della redenzione perfettamente compiuta nel Regno futuro.
    Secondo il filosofo ebreo F. Rosenzweig ci sono tre tipi di linguaggio, che corrispondono alle tre dimensioni del tempo:
    - il linguaggio del passato (creazione) ed è la narrazione
    - il linguaggio del presente (rivelazione) ed è il dialogo
    - il linguaggio del futuro (redenzione) ed è il coro, dove le voci si alternano e si fondono, e nella loro armonia (unità nella distinzione) preludono alla armonia totale del Regno. E come nella redenzione giungono a compimento creazione e rivelazione, così nel coro - lode della comunità - trovano il loro senso pieno la narrazione e il dialogo.
    Ogni tempo è tempo di lode (Sal 34, 2); ma, nella scansione delle ore quotidiane, c'è un'affinità privilegiata tra lode e mattino. Infatti, nel risorgere della luce e della coscienza il mondo torna all'uomo e l'uomo al mondo: il mattino è il tempo del mondo come benedizione; perciò è il tempo della lode, che è la benedizione accolta ed espressa.

    Salmi di lamentazione individuale [4]

    La lamentazione individuale è il genere più rappresentato dei salmi. Espressione dell'indigenza umana in una o nell'altra delle sue forme concrete, il salmo di lamentazione individuale è il "grido" che dall'uomo sale a Dio per sollecitarlo a intervenire e a colmare o rimarginare quell'indigenza.

    Struttura

    Invocazione. È la parola di appello con cui il salmista si rivolge a Dio, lo chiama, richiama la sua attenzione. Si trova quindi all'inizio del salmo (3, 2; 5, 2; 6, 2; ecc.), e viene spesso ripresa più avanti, prima dell'accusa o della supplica (3,4; 5,9; 7,4.7; ecc.).
    Il nome più frequente con cui Dio viene invocato è il suo nome proprio (JHWH = il Signore); altre volte Elohim... Naturalmente l'invocazione è sempre, per definizione, alla seconda persona.

    Corpus del salmo. Nella sua parte sostanziale, il salmo è composto dal lamento e dalla supplica, che seguono logicamente l'una all'altro, ma letterariamente a volte si avvicendano e intersecano.

    Lamento. (Esempi: 10, 1-11; 22, 2-3.7-9.13-19; 38, 3-21; 42, 2-4.712; ecc.). Nei salmi l'uomo si lamenta sempre dinnanzi a Dio. Ma se uguale rimane l'interlocutore, diverso può essere l'oggetto del lamento, secondo la duplice accezione che, anche in italiano, ha il verbo "lamentarsi". Ci si può lamentare per qualcosa (un mal di denti o la perdita di una persona cara...); allora il lamento equivale a gemito, pianto. E cí sí può lamentare di qualcuno (per una sua offesa o inadempienza o altro); allora il lamento è denuncia, accusa.
    Queste due accezioni sono presenti nei salmi; dove se ne aggiunge però una terza, o una specificazione della seconda: quando la persona di cui cí si lamenta è la stessa dinnanzi a cui lo si fa (si potrebbe dire: lamentarsi con): il salmista si lamenta con Dio quando lo rimprovera, direttamente.
    Abbiamo così, sempre "dinnanzi a Dio", tre tipologie di lamento: l'uomo si lamenta del proprio male (= geme); si lamenta dei nemici (= accusa); si lamenta di Dio (= rimprovera).

    a) L'uomo si lamenta del proprio male (= geme). È anzitutto il caso della malattia (Sal 22; 38; 102): a volte il salmista si limita a esibirla davanti agli occhi di Dio; altre volte si appella a lui considerato come causa della malattia (38, 3; 39, 11; 69, 27), talora in forma di punizione per le colpe del salmista (38, 2.45.19; 40, 13; 51, 5ss; 69, 6). Bisogna però tenere presente che in molti passi dei salmi l'indicazione del male fisico ha valore metaforico, ed esprime una situazione di sofferenza dí cui non è più possibile individuare il senso letterale.
    Un secondo male di cui il salmista si lamenta è il proprio peccato (Sal 51; 130; ecc.), di cui chiede a Dio perdono (spesso come condizione implicita della guarigione: cf. punto precedente).
    Altre situazioni negative sono: la lontananza dal tempio (Sai 42), la vita avvertita come troppo breve (39, 5-7), o condizioni di angustia in cui sentiamo assommarsi molti mali (25,16-18; ecc.). Ma la situazione più frequente di sofferenza, il male che con più insistenza si abbatte sul salmista, è la persecuzione da parte di nemici personali. Qui il lamento-gemito sfocia nel lamento-accusa e si accompagna con esso.

    b) L'uomo si lamenta dei nemici (= accusa). Nemici personali: 3, 8; 6,11; 13,5; 35,1.4.10.19b; 69,5; 142,7; ecc. Vengono chiamati: i miei nemici, persecutori, oppressori, odiatori, attentatori, accusatori, predatori, insultatori, che tramano sventura, che mi combattono...
    Nemici ín assoluto: (3,8; 22,17; 27,12; 55,4; ecc.) empi, arroganti, falsi testimoni, "che fanno il male", malvagi, uomini fallaci... La persecuzione viene descritta con immagini di guerra (3, 7; 7, 13), di caccia (9, 16; 140, 6), di assalto di animali feroci (17, 12; 22, 13s; 35, 16.21).
    Non manca il tradimento dell'amico che si trasforma in nemico o resta comunque indifferente (27, 10; 31, 12; 38, 12; 41, 10; ecc.).
    Si tratta, con ogni verosimiglianza, di persecuzioni individuali ma dentro un contesto sociale: il salmista calunniato, offeso, depredato, si riconosce in tanti altri che subiscono la sua stessa sorte: sono i "poveri" in balia dei soprusi dei "ricchi"; i poveri che, avendo contro di sé la violenza dell'ingiustizia e anche quella della presunta giustizia, si appellano a Dio.
    Ma Dio?

    c) L'uomo si lamenta di Dio (= rimprovero). Due sono le formule di questo lamento:
    - "perché" = non capisco (10, 1; 22, 2; 42, 10; 43, 2; 88, 15)
    - "fino a quando?" = non ce la faccio più (6, 4; 13, 1-3; 35, 17; 42, 3). E l'esperienza originaria del silenzio di Dio o del ritardo del suo intervento.
    Il lamento, oltre a un suo valore intrinseco di "sfogo", serve a preparare la supplica, la domanda dell'intervento divino.

    Supplica. Parte introduttiva: sollecitare l'attenzione e l'intervento divini: ascolta, guarda, svegliati, alzati, affrettati, non abbandonarmi... Parte centrale: precisare l'intervento di Dio in riferimento al pericolo (malattia, nemici, peccati); quindi: guariscimi (6, 3; 13, 4; 41, 5; 102, 25); liberami (17, 13; 35, 17; 64, 3); giudicami, provami (7, 9; 26, 2; 35, 23s); perdonami (25, 11.18; 51, 3.11); non castigarmi (6, 2; 38, 2).
    Motivi addotti per sollecitare l'intervento divino: qualità di Dio (bontà, fedeltà); fiducia del salmista; confessione della colpa o protesta di innocenza.

    Conclusione. Assume diverse forme. Le più caratteristiche sono: certezza di essere esaudito (6, 8-11; 16, 9-11; 56, 13s.; ecc.) (per una risposta oracolare o per l'effetto interiore della preghiera).
    - augurio: per sé (31, 8; 51, 10; 71, 14) o per gli altri (5, 12; 35, 27; 40, 17).
    - voto: offerta di un sacrificio o di un canto come espressione di ringraziamento (22, 23ss; 54, 8; 56, 13; 142, 8). (E quest'ultimo punto che fa da trait-d'union con il canto di ringraziamento).

    Salmo 22

    Divisione: invocazione: Dio mio, Dio mio; lamento-supplica: vv. 2-12 (supplica: v. 12) e vv. 13-22 (supplica: vv. 20-22); conclusione: vv. 23-32.

    Lamento-supplica (vv. 2-12): "Perché?" (vv. 2-3): l'abbandono da parte di Dio non è un'esperienza puramente interiore ma una situazione di sofferenza e privazione reale (malattia o, più probabilmente, persecuzione accanita), acuita dal mancato ascolto delle preghiere che il salmista ha già rivolto a Dio in passato.
    "Eppure tu" (vv. 4-6): opposizione tra il Dio che abbandona il salmista e il "Dio dei padri" che ha sempre protetto Israele e ora abita nel suo tempio. La storia di Israele è storia di suppliche esaudite e, quindi, narrazione continua - di generazione in generazione - degli interventi divini.
    "Ma ío" (vv. 7-9): da questa storia il salmista si sente come escluso: oggetto dell'abbandono divino e dello scherno di chi ironizza su di esso.
    "Dal grembo di mia madre" (10-12): il salmista non è soltanto membro del popolo eletto, ma è un individuo con una sua storia irripetibile; se anche il "Dio dei padri" potesse dimenticarlo, non così il Dio che lo ha "tratto dal grembo", lo ha "raccolto dal grembo" e lo ha fatto "riposare sul petto" della madre: questo è "il mio Dio" (cf. l'inizio).

    Lamento-supplica (vv. 13-22). Sotto immagini diverse viene descritta un'esperienza di pericolo (causata da nemici) che rasenta la morte. Anche qui però risuona il "ma" della fiducia nell'intervento divino: «Ma tu, Signore, non stare lontano». Questa volta la supplica è risolutiva: inaspettatamente essa trapassa nel voto di offrire, con i fratelli, un'azione dí grazie e di lode. Forse il salmista ha ricevuto, nel tempio, un oracolo favorevole; forse Dio gli ha parlato direttamente al cuore... (Questo "ma" che rovescia la situazione è frequente nei salmi: «Ma tu, Signore»: 22, 4.20; 41, 11; 86, 15; 102, 13; 109; 21. «Ma io»: 5, 8; 88, 14; ecc. Come dice Bultmann, la fede è il "ma" opposto alla negatività dell'esistere.

    Conclusione (vv. 23-32). L'annuncio della lode comunitaria (v. 23) testimonia il passaggio dall'esclusione alla comunione: il salmista è reintegrato nella storia del popolo di Dio e nella possibilità della lode. Il Signore, "lode di Israele" (v. 4), è ora "la mia lode" (v. 26). Infatti attorno a lui si raccoglie la comunità dei poveri (vv. 24-27): sia per condividere la sua gioia, sia per sentirsi dire che la sua sorte non è esclusiva, ha valore esemplare e li riguarda tutti. «Il vangelo dei salmi è che Dio ascolta i poveri, í disgraziati» (Beauchamp). «Nessun povero, nessun piccolo, è così povero e così piccolo che Dio disdegni di averne pietà» (Gunkel).
    Ma non è soltanto la comunità e, rappresentato da essa, Israele a partecipare alla lode. Oltre i suoi confini, la lode si allarga ai pagani (vv. 28s.), ai morti (v. 30), ai posteri (vv. 31s.); abbraccia tutto lo spazio, tutto il tempo, e perfino l'oltremondo. Tutta la realtà è chiamata a contemplare l'"opera di Dio" (v. 32): la liberazione di questo povero.

    Teologia dei salmi di lamentazione individuale

    Un modo opportuno per descrivere la prospettiva teologica di questo genere di salmi è quello di partire dal soggetto che li pronuncia, di approdare a colui a cui sono rivolti, poi tornare al soggetto di partenza, per cogliere infine in tutta la sua complessità la situazione che il salmo mette in opera.
    L'io dei salmi di lamentazione è il povero, sia che si dichiari tale con uno dei vari sinonimi (io sono povero, misero, afflitto, oppresso...), sia che, al di là di ogni etichetta, si limiti a presentare a Dio la sua situazione chiedendo l'intervento divino.
    Il punto fondamentale è che questa "povertà" che caratterizza l'orante è sempre una condizione oggettiva, la carenza di un bene reale: è malattia o emarginazione, persecuzione o lontananza dal tempio o colpa che accascia. In nessun caso è una povertà simbolica, cioè la piccolezza dell'uomo, la sua creaturalità; né la povertà come disposizione interiore di umiltà o di abbandono a Dio. Un uomo sta male, e chiede a Dio di venire in suo aiuto: è questo il terreno su cui nasce il salmo di lamentazione.
    Il povero si rivolge a Dio. Ma quale Dio? Qual è il Dio a cui il povero presenta la sua situazione di carenza? La risposta è sintetizzata nel Sal 113. Dio siede nell'alto. Dio - la cui identità è la trascendenza - sta in cielo: cielo che è l'al di là delle possibilità umane, è l'irraggiungibile, l'alterità. Dio si china a guardare; è l'occhio che avvolge l'uomo nella sua piccolezza e più specificatamente nella sua carenza. Questo guardare è doppiato dal chinarsi, ossia dal prendersi cura: è efficace, tende la mano, solleva l'indigente. A ognuno dà quanto gli manca: all'uomo, la dignità della reintegrazione nel quadro sociale; alla donna sterile, la gioia della fecondità. E questa la fondamentale rivelazione di Dio: che egli abiti il cielo è, nella prospettiva biblica, soltanto la condizione perché possa guardare sulla terra, perché possa chinarsi sul bisogno dell'uomo. L'identità del Dio biblico è, nei suoi termini essenziali, questo intervento di sollecitudine e di concreta liberazione. Il che pone nella rivelazione di Dio due momenti ugualmente irrinunciabili: Jahvé è il Dio della vita - è il Dio dei senza vita.
    In quanto Dio della vita, Jahvé si esprime in tutto ciò che potenzia ed espande l'esistenza dell'uomo; la vita non è il semplice esistere, ma l'insieme dei beni che lo colmano: di quei beni che, sappiamo, in quanto vengono da Dio sono benedizione (cf. teologia dei salmi dí lode). Ma affermare il rapporto tra Dio e vita potrebbe allora significare l'irrilevanza di chi è povero di vita: se il divino è ciò che è bello, forte, sano, ricco, non ne è escluso ciò che è avvizzito, debole, malato, misero? Ma il Dio dei salmi è il Dio dei senza vita; ciò che è grande e forte e bello non è epifania di Dio in forza di se stesso ma in quanto soddisfa il bisogno umano; il divino nel mondo non è la bellezza e la ricchezza ma l'atto di rendere bello e ricco colui che non lo è: il divino nel mondo è liberazione, è promozione dell'uomo. Il Dio della vita si manifesta nel dare la vita a chi non l'ha.
    Torniamo ora al povero che è il soggetto dei salmi di lamentazione. La sua povertà è vuoto di vita, è condizione oggettiva, come sappiamo. Ma quando egli si rivolge a Dio, non lo fa per una generica speranza che l'Essere onnipotente voglia - chissà mai - dargli una mano. Il salmista sa, invece, che il Dio cui egli si rivolge è il Dio della vita e dei senza vita (cf. Sal 9, 10s; 12, 6; 14, 6; 18, 28; 35, 10; 146, 7ss...); sa di essere l'oggetto privilegiato del suo amore, sa che questo Dio è il suo Dio, il Dio dei poveri. Allora la povertà come condizione oggettiva assume una nuova dimensione: la coscienza di essere sotto lo sguardo di Dio fa del povero un uomo religioso; la sua carenza diventa attesa di Dio, alla sua miseria reale s'accompagna una disposizione soggettiva, interiore. C'è già qui, in nuce, quell'identificazione tra povero e credente che, come vedremo, diventerà uno dei temi maggiori della spiritualità biblica.
    Il salmo di lamentazione è allora l'espressione di una situazione paradossale e, insieme, la messa in opera del suo superamento. Il salmista va davanti a Dio con la consapevolezza che egli è insieme il Dio vicino e il Dio lontano. Lontano perché il Dio della vita è assente lì dove non c'è la vita. Il limite estremo è lo sheol, dove è tolta la base minima della sussistenza e quindi la possibilità di vivere. Ma la situazione dello sheol si verifica parzialmente lì dove manca l'uno o l'altro bene necessario alla compiutezza della vita. Dio è lontano non per una esperienza puramente interiore, perché sentito lontano; è lontano per lo stato oggettivo delle cose. Perché lì dove manca un bene manca la benedizione, la testimonianza di quell'altro bene che è la bontà del donatore.
    Ma d'altra parte Dio è vicino al salmista: lo è in quanto Dio dei senza vita, in quanto volontà di dar vita a coloro che non l'hanno. Non dunque vicino in quanto voglia supplire con la consolazione della sua presenza alla mancanza della benedizione concreta, ma in quanto promessa di portare questa benedizione, di colmare questa mancanza. E vicino come promessa di farsi vicino; è lontano perché questa promessa tarda la sua esecuzione.
    Il salmo di lamentazione si muove dentro questo arco: parte dal Dio vicino per attirare vicino il Dio lontano; si rivolge al Dio dei senza vita perché voglia essere ancora una volta il Dio della vita. Il povero non lancia un grido nel vuoto degli spazi con la vaga speranza che qualcuno lo raccolga. Il povero dice: mio Dio...: egli sa che il Dio dei padri si è rivelato come colui che ascolta il grido. È questo sapere del povero su Dio che fa scoccare la freccia che va al Dio lontano.
    In questo quadro si possono comprendere anche le "imprecazioni" contro i nemici, così frequenti nei salmi. I nemici sono la causa più abituale del male in cui si trova il salmista; più della malattia, più della fame... Il nemico è presenza consistente, cospicua nel salmo. Da qui l'imprecazione che il nemico venga eliminato.
    Come mai dentro una preghiera può prendere voce la volontà di male verso un altro soggetto umano? Facciamo alcune considerazioni che tentano non di giustificare l'imprecazione, ma di capirla nella sua logica e di ridarle la sua - sia pure incompiuta - dignità etica e religiosa di volontà di giustizia.
    Anzitutto, per l'uomo dell'antico testamento tutto si gioca nell'ambito di questa vita; non c'è il rovesciamento della situazione nell'altra vita, come per esempio nella parabola di Lazzaro e del ricco epulone. Allora la promessa di Dio - che il povero viva e l'oppressore muoia - deve realizzarsi quaggiù.
    In secondo luogo, questa promessa non è soltanto un assecondare il desiderio umano di felicità e di giustizia, ma è la stessa volontà originaria del Dio dell'alleanza. Per cui nell'imprecazione si esprime, sia pure imperfettamente, l'adesione dell'orante al principio dell'alleanza; che l'empio muoia fa parte dell'ordine istituito da Dio.
    Terzo, l'imprecazione non è esecuzione attiva della severa giustizia desiderata; è momento di preghiera, e come tale affida a Dio quell'esecuzione. Non solo la punizione richiesta fa parte della volontà di Dio, ma inoltre essa viene lasciata a Dio. Chiedo a Dio che faccia la sua giustizia. Le imprecazioni non sono una volontà di vendetta legittimata e santificata, ma una volontà di giustizia che rinuncia a farsi vendetta e che mette nelle mani di Dio il compito di fare giustizia. (Lo Stato laico, nelle sue istituzioni giudiziarie, non è che un'espressione secolarizzata di questo fare giustizia che l'ebreo si aspetta da Dio).
    Infine, non tutte le imprecazioni chiedono l'annientamento del nemico. In qualche caso il salmista chiede che egli venga ridotto all'impotenza, non possa più nuocere; in altri ancora, protesta di non avere nulla a che fare con i cattivi, di "odiarli" (per es. Sal 139, 21s.); e in almeno un caso (Sal 51, 15) di volerli riportare sulle vie di Dio. L'annientamento, la riduzione all'impotenza, la presa di distanza, la conversione: sono modi diversi di cancellare dal mondo la presenza del male.

    Perché anche i salmi di maledizione

    «Se la bibbia contiene un libro di preghiere, dobbiamo dedurre che la parola di Dio non è soltanto quella che egli vuole rivolgere a noi, ma è anche quella che egli vuole sentirsi rivolgere da noi». una affermazione di Bonhoeffer: un grande testimone cristiano.
    Sappiamo tutti come è morto: nel campo di concentramento di Flossenburg, per avere cospirato contro Hitler. Diceva: "se un cristiano non ha resistito a Hitler è inutile che canti il gregoriano". Per dire che la preghiera deve attraversare tutta la storia dell'uomo, e ha leggi che si intrecciano a tutti i sentimenti umani. Bonhoeffer moriva impiccato esattamente il sabato santo del 1945.
    Mi servo delle sue parole per decidermi a esporre tutta la mia meraviglia (ma è dir poco!) circa la pratica invalsa nella nuova liturgia delle ore da cui sembra ormai decisiva la espulsione dei cosiddetti salmi imprecatori o della maledizione. O al massimo, si riportano in appendice, chissà mai per quale .ragione e scopo.
    Va subito detto che un simile atteggiamento denuncia una teologale sfiducia in Dio, pensando che a Dio non tutto si può dire; che certe cose non è bene gli si dicano: potrebbe anche non capirle! O anche potrebbe prenderti in parola: non si sa mai. Sì, perché la preghiera non deve tanto farsi verità, quanto far piacere e adattarsi ai propri gusti...
    Come se invece non dovesse farsi carico di tutta la condizione umana da riversare in Dio, nel porto della sua misericordia. Certo, attraverso la fessura del costato di Cristo, come dirò più avanti! Sicuri che amore e giustizia infinita purificheranno anche le parole più impure.
    Del resto, chi può presumere di avere labbra così monde, avanti che un cherubino non le purifichi con la brace di carbone infuocato? E cioè: come presumere di parlare con Dio, degnamente, senza che lo Spirito non converta lui stesso in preghiera anche il più straziante dei gemiti?
    E allora lasciate libero il cuore di espandersi, di confidare; di credere che Dio è vicino soprattutto all'infelice, mentre è fonte di canto e di lode per tutte le creature. Che Dio, almeno lui, capisca anche la ribellione più indomabile e la disperazione più nera, anche la divorante impazienza e l'imprecazione scandalosa.
    Non sono queste le cose sbagliate da temere, non è questa la profanazione più sacrilega. Sacrilegio sono invece certe preghiere che sono una parodia di Dio. Ed è almeno sbagliata la licenza che si è arbitrata di escludere dal roveto ardente della Pietà questi sentimenti, che sono tra i più diffusi nella disgraziata umanità toccataci in sorte. Così si dovrebbe almeno scartare più di mezza bibbia; e cancellare soprattutto il grido di Giobbe: "Maledetto il giorno in cui fu detto è nato un uomo; perché non morii nel seno materno? Che sia cancellato quel giorno perfino dal calendario". Eccetera.
    Come se il disperato non avesse il diritto di gridare a Dio tutta la sua amaritudine; e l'umiliato e oppresso non avesse il diritto di attendersi, almeno da Dio, giustizia. Come se il torturato non potesse, con diritto, augurare la stessa infamia al torturatore. Poter sfogarsi con Dio! Chiedere a Dio di intervenire: che faccia almeno lui il suo dovere! Dico: almeno là dove protagonista è un innocente, è un fanciullo irrimediabilmente infelice, e una donna indifesa. Almeno là dove è una madre che vede torturare e poi bruciare nei forni i suoi figli. Perché è umanità; e questa è l'umanità, la nostra condizione. Così è la storia, così la vita. Poi faccia lui quello che vuole; ma che io abbia la libertà di gridargli in faccia: "E tu, Dio, che fai? Perché dormi?"; o anche: "Signore, se non intervieni, almeno in questi casi, chiunque ha il diritto di dubitare di te". Eccetera.
    Così son fatti i salmi. Per questo ho scritto nella prefazione, quando li ho pubblicati nella mia prima versione: I salmi sono ogni esistenza umana fatta gemito, speranza, canto di gioia, o anche canto di morte. I canti dell'adamo di sempre. E Cristo stesso, proprio perché incarnazione dell'uomo, assunzione di tutta la natura ferita e infelice, di questa nostra condizione di perduti, egli il "servo 
    dell'uomo", si fa l'orante dei salmi; colui che assume in sè ogni nostra disperazione o speranza.
    Così si intrecciano le due posizioni: di me che canto i salmi, che metto in preghiera la storia dell'uomo e del mondo, e canto questa mia realtà e questa realtà del mondo; e faccio di essa un grido continuato, ascoltando ogni gioia e ogni dolore; e la posizione di lui, del Cristo che fa propria la stessa preghiera, purificandola e santificandola con il suo sangue; per rimetterla con fiducia nelle mani del padre, insieme al suo spirito; e consuma nel suo sacrificio ogni mia passione.
    È vero: Cristo è venuto; ma sono io che non sono ancora "pervenuto" completamente in lui: io devo ancora venire, farmi perfetta umanità. Perciò canto così: e la preghiera è il momento più liberatorio e santificatore di ogni passione. Inoltre, io non prego solo per me stesso, ognuno di noi è voce del creato, e può e deve farsi voce anche di tutti i disperati della terra. Io devo pregare anche per chi non ha fede; devo raccogliere anche il grido di maledizione; e bere, se inevitabile, pure alla coppa dell'odio, perché anche l'odio sia redento. Perciò canto con vigile cuore:

    Figlia di Babilonia sterminatrice
    beato chi ti rende l'infamia

    che tu hai consumato contro di noi.
    Beato chi afferra i tuoi bimbi

    e li stritola contro la roccia.

    Poi dico nella dossologia:

    Nelle tue mani, Cristo, affidiamo,
    questo grido di oppressi e uccisi,
    perché tu dalla croce converta
    ogni gemito in canto d'amore,
    e per te venga il Regno del Padre.

    E canto pure il salmo delle venti imprecazioni. E canto, infine, anche la responsabilità e il coinvolgimento di Dio; e gli dico che«mi fu triste perfino l'infanzia, e infelice io sono e malato; gli grido:

    Tu mi hai tolto amicizie e amori,
    solo amica mi resta la notte.

    So che questo, come riporta il Ravasi, è «il salmo più cupo del salterio, la più tenebrosa di tutte le lamentazioni, il più drammatico De profundis, il Cantico dei cantici del pessimismo»; poi dico nella dossologia:

    Tu conosci il terrore di morte,
    Cristo: aiutaci a credere e a vivere;
    a pregare, a cantare tu aiutaci,
    quando senza speranze umane
    rimettiamo nel Padre lo spirito.

    Così, concludendo: che sbaglio facciamo a pregare anche per questi infelici della terra? Con che autorità escludere dal grande orecchio di Dio la loro voce? Con la stessa arbitrarietà, allora, anch'io potrei escludere la voce di tutti i gaudenti e dei buontemponi...
    Voglio dire che con la preghiera non sí scherza. Che se c'è un tempo di assoluta sincerità, questo è il tempo della preghiera. E in fatto di salmi, è parola fatta propria da Dio, presa sotto la sua protezione, come diceva precisamente Bonhoeffer. Perciò sarebbe ora che nelle nostre chiese si ritornasse a cantare i salmi, invece di tanta canzonettistica alla San-Remo: si tornasse a cantare tutti i salmi, e per intero.

    Salmi di lamentazione collettiva [5]

    Il contesto è una situazione di difficoltà: carestia, epidemia, invasione, sconfitta, distruzione... e una celebrazione del "lamento": lutto, sacco, pianto, cenere sul corpo, digiuno (cf. Giona 3,5ss.).

    Struttura e teologia

    Invocazione: "Dio" (salvo pochissimi casi): non c'è bisogno di lunghe sollecitazioni, perché Israele sa che Dio è colui che ascolta il suo grido: Es 2, 23; Dt 26, 5ss.
    Lamento: contro Dio: 80, 5-13; 89, 39-52; contro i nemici: 74; 79; 83; su (e contro) di sé: tutti (in particolare 106).

    Ricordo. Il ricordo del passato (vicinanza di Dio) serve ad acuire il contrasto con il presente e a richiamare alla memoria la sua fedeltà, come motivo di speranza e come legittimazione della preghiera.
    Oggetto del ricordo sono: il ciclo dell'esodo (44; 80; 106, 7-46); l'elezione di David (89, 20ss); la creazione: 74, 12-17.
    Il "memoriale", richiamando a Dio la sua fedeltà e a Israele il motivo della propria speranza, riafferma che il bene è radicale, mentre il male è contingente.

    Supplica. Suo oggetto è la domanda di liberazione.

    Risposta di Dio. In forma di oracolo, Dio risponde di avere accettato la supplica, di voler rinnovare la sua presenza liberatrice (60, 8-11; 85, 9ss.).

    Salmo 85

    Il passato. I vv. 2-4 costituiscono il "memoriale", che ha qui come oggetto l'ultimo intervento di Dio: la liberazione da Babilonia.

    Il presente. I vv. 5-8 intonano la supplica sulla situazione di sofferenza in cui attualmente Israele si trova.
    L'oracolo. Il v. 9 è, con ogni verosimiglianza, l'intervento del sacerdote che, dopo avere espresso l'intenzione di rivolgersi a Dio (v. 9a), comunica la sua risposta (v. 9b-c), la volontà di perdono e di pace.

    Il futuro. I vv. 9-14 anticipano nella speranza la splendida visione del futuro riconciliato e colmo della presenza di Dio e dei suoi doni.

    Riconciliazione potrebbe infatti essere il termine-chiave di questo salmo: Dio torna al popolo - il popolo torna a Dio (quattro volte ricorre il verbo ebraico g'ab, che vuol dire volgersi, tornare: vv. 2,4 - hai "stornato" -, 7, 9). Ma questa riconciliazione investe anche il mondo: la "terra" torna a essere luogo di pienezza (vv. 2, 10, 12, 13).

    I salmi di fiducia [6]

    Nota teologica

    I Salmi di fiducia sono un'evoluzione letteraria dei salmi di lamentazione: è questa una constatazione dello studioso.
    Ma dietro (o dentro) l'evoluzione letteraria c'è un movimento spirituale che avviene nell'orante stesso e trasforma il suo atteggiamento. Qual'è la logica di questa trasformazione?
    Soggetto dei salmi di lamentazione è l'indigente che sa che Dio è il suo Dio. Qui c'è in germe il salmo di fiducia, in questo sapere che nella mia indigenza non sono abbandonato a me stesso, invece posso abbandonarmi a Dio, a quel Dio che pur essendo lontano mi è vicino con la sua parola per dirmi che vuole farsi vicino con i suoi beni. Allora la fiducia è la dimensione soggettiva del povero; il povero che sa che Dio è il suo Dio è essenzialmente uomo della fiducia. Sa che c'è chi si prende cura di lui. Per Heidegger la cura o preoccupazione è la nostra prima conoscenza della realtà: il nostro primo incontro con la realtà è che dentro la realtà dobbiamo aver cura di noi stessi. Qui c'è una dimensione cognitiva che non è teorica, che è anteriore allo stesso configurarsi della realtà come insieme di oggetti. La cura per noi stessi è l'esistenziale fondamentale, è il nostro primo aprirci al mondo. L'esistenziale fondamentale per il salmista è che c'è chi si prende cura di lui, e quindi deve buttare la sua cura nel Signore. Senza questo non nascerebbe il salmo di lamentazione; c'è una fiducia che sta alla radice del salmo di lamentazione.
    Tuttavia è solo radice, è solo un germe; è una fiducia da cui nasce la lamentazione e poi la supplica. I salmi di fiducia sono invece quelli in cui l'atteggiamento fondamentale di fiducia che sottostà ai salmi di lamentazione diventa tema centrale del salmo stesso. Nella mia preghiera non prego più, sulla base della fiducia, che Dio mi liberi, ma dico a Dio la mia fiducia in lui; questo stesso esibire a Dio la mia fiducia in lui diventa il contenuto del salmo.
    Questa fiducia la dico a Dio e ai fratelli. Nei salmi di lode Dio è quasi sempre alla terza persona; nei salmi di lamentazione è alla seconda persona; nei salmi di fiducia è alla seconda e terza persona. Questo alternarsi di seconda e terza persona è importante, e mostra che non è l'essenziale della preghiera dire "Tu". Nel rapporto con Dio non è Dio il nostro "Tu", ma siamo noi il "tu" di Dio. La parola fondatrice è il suo chiamarci per nome; e sulla base di questa parola noi possiamo restituirla dicendo a Dio "Tu" o anche parlando di lui tra noi. Nella lamentazione Dio è invocato 'Come vicino-lontano: è davanti a me come interlocutore. Nei salmi di fiducia è Dio che mi dice "tu"; ma lui dov'è? È davanti, dietro, a fianco, mi accompagna, mi tiene tra le braccia (Sal 131), mi conduce per mano... Dio non è qui interlocutore, ma è presenza avvolgente.
    In questi salmi non viene mai a mancare il riferimento a situazioni di pericolo. Non sono salmi idilliaci. Questo riferimento a situazioni di pericolo è un elemento di disturbo nella "rilettura cristiana" del salmo. Felice disturbo, perché ci obbliga a recuperare il senso originario del salmo. Non perdendo questa radicazione nel pericolo, questi salmi dicono: Signore, ho tanta fiducia in te che non ti grido "fino a quando?" perché so che tu ti prendi cura di me. L'attesa del Dio lontano non è incalzante o angosciata, ma sicurezza totale che il Dio lontano verrà a portare i beni promessi e attesi. Dunque, non c'è qui il passaggio dal Dio che ci dona i beni al Dio che diventa lui stesso bene. Anche formule come "Il mio bene sei tu" e simili non sganciano mai (o quasi mai) il bene della presenza di Dio dall'attesa dei beni che colmano la vita dell'uomo. I salmi di fiducia corrono sul delicato crinale tra la caduta nell'ansia e la fuga in avanti dello spiritualismo.
    In che modo l'orante passa dalla lamentazione alla fiducia? Il povero che a partire dal Dio vicino sollecita il Dio lontano, in questo parlare al Dio vicino sente dilatarsi la sua presenza, che pur non surrogando il Dio lontano che deve ancora venire ne crea quasi un'anticipazione. E la preghiera stessa: "Signore, vieni... Signore, liberami... Signore confido in te..." che plasma l'orante, che lo trasforma da impaziente in fiducioso, sereno.
    Questo spiega come il povero diventi il pio, il giusto. Sulla condizione oggettiva di carenza si innesta e fiorisce la condizione soggettiva esemplare di abbandono e fiducia in Dio. Questa è l'esperienza religiosa più alta dell'antico testamento. La preghiera scava in me l'esperienza del Dio già vicino che, senza farmi rinunciare all'attesa dell'avvento del Dio lontano, mi rende Dio come l'ospite abituale. Allora il povero diventa il pio, il giusto; diventa il povero come soggetto spirituale.

    Salmi di ringraziamento individuale [7]

    Contesto. È il "sacrificio di lode", che il "graziato" aveva promesso alla fine del salmo di lamentazione, e che ora mette in atto: cf. 66,13ss.; 116,17; 107,22. Attorno al graziato, che canta, è la comunità dei poveri e giusti che festeggia con lui la liberazione (guarigione, ecc.) ottenuta. Il salmo di ringraziamento è il centro della festa.

    Struttura

    Introduzione. "Voglio ringraziare", "ringraziate"... sempre al centro («come scritto in maiuscolo», Gunkel), il nome di JHWH ("Il Signore").

    Racconto. Rivolto agli ospiti (66, 16); quindi il salmo parla di Dio in terza persona (solo più tardi in seconda). Dal pericolo di morte alla salvezza: questo è il contenuto del racconto. Tre tempi: pericoloinvocazione-salvezza. (Formulazione esemplare in Giona 2, 3: «Nella mia angoscia - ho invocato il signore - ed egli mi ha esaudito»). Sono i tre momenti del salmo di lamentazione (lamento, supplica, conclusione), ma ripresi narrativamente, al passato.
    Professione di fede. Il salmista testimonia che quanto Dio ha fatto per lui (e che egli ha raccontato) non è un exploit eccezionale ma esprime lo stile di Dio: il Dio della liberazione e della vita per i poveri (18, 26-28; 30, 6; 34, 6-11, ecc.). La comunità dei poveri (22, 27; 34, 3; 69, 33 s.) partecipa condividendo la gioia (nel pasto) e alimentando la propria fiducia [8].

    Salmo 30

    Le parti; vv. 2-4: introduzione: è già una sintesi del salmo, che abbraccia sia il ringraziamento che la narrazione (in termini generali) della liberazione; vv. 5-6: invito alla lode: la liberazione non è episodio ma costante (e come legge) del comportamento divino; dunque: tutti lodino. Il "graziato" ha l'autorità dell'esperienza; vv. 7-13a: narrazione più distesa. Il salmista racconta come la prosperità avesse generato in lui l'autosicurezza, e questo lo avesse precipitato nella rovina (è la lezione di Dt 8: anche nella terra promessa bisogna vivere con un cuore di deserto). Di qui il "grido" (sempre in forma di racconto) e la visione della morte (scampata) come luogo dove tace la lode (cf. Sal 6, 6; 88, 11-13): lode e vita si coestendono.
    Al v. 12b è meglio essere più aderenti all'originale di quanto faccia la traduzione della CEI, e rendere: «hai sciolto il mio sacco e mi hai cinto di gioia».

    v. 13b: conclusione

    La logica. Il salmo 30 è tutto giocato sulle opposizioni (AlonsoSchael): vita/tomba; collera/bontà (favore); istante/tutta la vita; sera/mattino; pianto/gioia; non vacillare/turbato; bontà (favore)/nascondere il volto; lutto (lamento)/danza; sciogliere/cingere; sacco/gioia; tacere/cantare.
    Non sono opposizioni dialettiche (come carisma/istituzione, esperienza/riflessione, ecc.) o naturali (come estate/inverno) o casuali ("la ruota della fortuna che gira"); ogni mutamento è un evento, è un'irruzione della libertà: umana, che volge le cose al negativo (vv. 7-8), ma soprattutto divina, che rinnova la liberazione. Il ringraziamento non canta una generosità naturale (come quella della terra, di un albero, ecc.) ma un amore personale: da persona (benevolenza di Dio) a persona (povertà dell'uomo).

    Teologia dei salmi di ringraziamento

    Svilupperemo alcune riflessioni sui salmi di ringraziamento in forma di confronto con i salmi di lamentazione e con quelli di lode.

    Ciò che il ringraziamento dà alla lamentazione

    Nel cap. 17 del vangelo di Luca abbiamo l'episodio deí dieci lebbrosi guariti da Gesù, di cui uno solo torna a ringraziarlo. Dieci fanno la lamentazione e la supplica: «Alzarono la voce dicendo: Gesù maestro, abbi pietà di noi!» (v. 13). Uno solo ringrazia: «Uno di loro... tornò indietro lodando Dio a gran voce; e si gettò ai piedi di Gesù per ringraziarlo» (v. 15s).
    Abbiamo qui l'esempio di un movimento interrotto; ma questa interruzione testimonia che anche la lamentazione e la supplica non erano autentiche. Rivolgersi a Dio quando si chiede qualcosa è un movimento spontaneo; forse è un cercare una potenza esecutiva favorevole al proprio bisogno. Ma questo non è ancora il vero salmo di lamentazione. C'è un di più nel salmo di lamentazione, c'è una sporgenza dell'intenzionalità orante sul bisogno, da cui pure la lamentazione nasce. Non è solo voce del bisogno; se fosse solo così, non sarebbe preghiera ma semplice gemito della creatura oppressa, nella speranza che qualcuno lo raccolga. L'intenzionalità della preghiera è che essa sa di essere accolta, anche se non ne conosce la modalità; e dunque si affida a Dio in un atto di obbedíenza e di abbandono. Allora l'azione di grazie è come il sigillo di autenticazione della lamentazione; è il segno che il lamento e la domanda che l'accompagnava non erano chiusi sul proprio bisogno ma aperti a Dio.
    Che la lamentazione di Israele sia veramente tale è testimoniato dal numero relativamente alto (caso unico nella preghiera dell'area mediorientale del tempo!) di salmi di ringraziamento. Dire "grazie" è meno spontaneo che chiedere. Sedimentare il "grazie" come momento essenziale dell'esprimersi della propria esistenza è molto meno spontaneo che non sedimentare il grido di bisogno e dí domanda. La presenza del rendimento di grazie testimonia l'autenticità della preghiera di Israele, anche di quella preghiera il cui contenuto di domanda è elementare e interessato. Testimonia che l'interesse che sta dietro la domanda o il lamento non è la sua motivazione esclusiva. Quella preghiera oltre che dall'interesse è sorretta e fondata da un'intenzionalità religiosa di trascendenza e di obbedienza a quello che Dio vuole per noi. "Signore, ti prego di guarirmi, perché ho voglia di guarire, ma più ancora perché so che tu vuoi guarirmi, perché so che tu sei il Dio che guarisce". Perciò nella mia preghiera, aldilà del mio bisogno, parla già la mia obbedienza all'alleanza. Il salmo di lamentazione è il convergere del mio bisogno e dell'obbedienza al Dio che viene incontro al mio bisogno. Che sia davvero così è testimoniato dai salmi di ringraziamento. Nell'alternanza di lamentazione e di ringraziamento scorre tutta la vita del pio israelita. Nella disgrazia Israele grida a Dio; nella fortuna gli dice "grazie". Il ringraziamento garantisce la trascendenza della lamentazione e della domanda sui beni che vengono domandati. Il ri-conoscimento e la ri-conoscenza che ne deriva sono al di là dell'utilità e della gradevolezza dei beni ricevuti.

    Ciò che la lamentazione dà al ringraziamento e ciò che il ringraziamento dà alla lode

    La gloria di Dio è il povero che riceve vita. L'autorivelazione di Dio è il povero che riceve vita, che entra nell'ordine della vita: lì dove il povero passa dalla morte alla vita, dalla fame alla sazietà, dall'isolamento all'integrazione... Come i libri del nuovo testamento sono nati dall'esperienza fondamentale di pasqua, del crocifisso che risorge, così i libri dell'antico testamento sono nati dall'esperienza di quella reale risurrezione che ha visto passare Israele dall'oppressione dell'Egitto alla libertà della terra promessa. Il Dio dell'esodo è la prima immagine o rivelazione che Israele ha di Dio. L'esperienza di liberazione sarebbe però rimasta tradizione morta, trasmissione di un passato sempre più lontano, se non fosse stata riattualizzata dall'esperienza individuale di esodo dei poveri dentro Israele. Se l'atto di liberazione collettiva non si fosse più ripetuto in atti di liberazione individuale, se il grido sollevato da Israele in Egitto non fosse diventato il grido che molti suoi figli lungo i secoli hanno sollevato a Dio dal loro individuale Egitto di malattia, di emarginazione, di calunnia, ecc., la fede dell'A.T. si sarebbe inaridita, la scrittura e l'interpretazione dell'A.T. sarebbe diventata dogmatica, una trasmissione dottrinale, come è espressa dagli amici di Giobbe. Per gli amici di Giobbe il principio di alleanza è acquisito anche contro l'esperienza, e non può essere scosso dall'esperienza. Ma la fede di Israele è maturata e si è corretta senza tradirsi, perché la trasmissione della fede si è lasciata mettere in discussione dall'esperienza; e si è lasciata mettere in discussione dall'esperienza perché prima si è abbeverata, alimentata e nutrita di esperienza. Quello che la lamentazione dà al ringraziamento, e quello che il ringraziamento dà alla lode, è questo pullulare e scaturire continuo, di nuovo, dell'atto fondatore di Dio nell'esodo: dentro la vita di coloro nella cui vicenda individuale si ripeteva la negatività della condizione di Israele in Egitto.
    E questo spiega l'importanza che nel salmo di ringraziamento il graziato raccolga attorno a sé i fratelli nella fede. Non solo per godere con loro, ma anche per testimoniare davanti a loro il suo credo; testimoniare di aver visto Dio lì dove originariamente egli si rivela. Poiché Dio lo ha guarito, il salmista può dire che tutti (i morti, i popoli) loderanno il Signore. L'universalità di liberazione nel tempo e nello spazio non è un fatto eccezionale, ma è un modo di dire tutta la profondità dell'intervento di Dio a favore del più anonimo dei figli del suo popolo (cf. l'ultima parte del Sal 22). Chiunque può dire: "lodate con me il Signore" perché ciò che accade qui è qualitativamente infinito nella storia. Per ritrovare la chiave di lettura di tutta l'opera di Dio è necessario ritrovare questo suo esordio. Da un certo punto di vista, nella risurrezione di Gesù non accade nulla di più qualitativo di quanto accade in una guarigione. Il di più nella risurrezione di Gesù è il suo carattere di irrevocabilità e di fondazione per tutti.
    L'opera di Dio in Gesù, la sua gloria, la sua parola fatta carne, e l'opera di Dio compiuta nel povero sono la stessa opera: la rivelazione concreta dell'amore di Dio. Senza questo sfondo concreto di sofferenza del povero e di intervento liberatore di Dio, la lode perderebbe il suo carattere di preghiera, e si stempererebbe in una contemplazione estetizzante della bellezza del mondo. A darle la sua tonalità autenticamente biblica è il riferimento alla storia di salvezza, alla storia degli interventi di Dio per liberare i suoi poveri.

    Ciò che la lode dà al ringraziamento e al lamento

    La lode, estendendo il riconoscimento di quello che Dío ha fatto nel caso individuale a tutti i prodigi di Dio, sottrae la professione di fede al biografismo, al carattere di evento passeggero e straordinario. Nel momento in cui l'esperienza singola viene buttata nel grande corso delle esperienze passate, viene a far parte del fondamento di fede di Israele, che è il racconto delle opere di Dio come espressione del suo amore. La lode come dilatazione e universalizzazione dell'azione di grazie dà alla fede un fondamento che va oltre l'esperienza e "tiene" anche contro l'esperienza (dentro la quale di nuovo si troveranno altri poveri che faranno l'esperienza del Dio lontano). La lode trasferisce il presente puntuale di oggi al presente dell'"oggi" che è ogni giorno, che è ieri-oggi-domani. La lode regge le future lamentazioni anche aldilà di ogni umanamente pensabile, anche quando queste lamentazioni saranno dell'intera collettività. Si pensi, come caso estremo, ad Auschwitz. È possibile parlare di Dio e del senso della storia dopo Auschwitz? Se la risposta di principio è per me, cristiano, la risurrezione del Crocifisso, la risposta più vicina alla mia storia sono quegli ebrei che hanno lodato Dio anche ad Auschwitz, che hanno cantato i salmi di lode mentre andavano nei forni crematori. L'efficacia della lode è l'efficacia di un ri-conoscimento che va aldilà della mia esperienza e che regge la mia esperienza in contrario. Come è possibile continuare a dire "grazie"? Questa possibilità è inscritta dentro lode , che è memoria e promessa di una fedeltà anche contro l'esperienza.
    La lode non convalida retrospettivamente il ringraziamento, ma nella lode viene in chiaro e si dipana la dimensione di disinteresse del ringraziamento. Nella lode e nel ringraziamento c'è la contemplazione di Dio. Nella rivelazione biblica dell'antico e del nuovo testamento conosciamo il Dio per noi; ma anche il Dio in sé? Parlando della teologia della lode (cf. sopra), dicevamo che essa non si rivolge all'essenza" di Dio ma al suo amore per noi. Ora dobbiamo precisare che quell'essenza non è altro che questo amore; così che conoscere il Dio-per-me è conoscere il Dio-in-sé. Dio rivela se stesso in quello che lui è venendo incontro a me con nessun'altra intenzione o interesse o motivazione che quella di farmi vivere. Non ho altro luogo per vederlo: Dio è tutto in questo impensabile che è far vivere il povero senz'altra ragione che farlo vivere. Il suo essere mistero è quella libertà la cui definizione è volere che l'altro sia. La lode dice che quello che egli ha fatto per me non è accidentale per lui; non è un flusso guaritore ma è la libertà di Dio che si muove, e muovendosi è se stessa, non aggiunge nulla a se stessa.
    Tutto questo vale anche del Dio del nuovo testamento. Le speculazioni cristologiche sulla unione ipostatica hanno senso solo nella misura in cui pensano dentro questo orizzonte. Gesù dice e fa vedere in mezzo a noi la gloria di Dio così come la vedeva il povero del salmo 22. L'identità di Gesù come Figlio donato è questa: noi conosciamo il Padre così. Avere occhi abbastanza puri da vedere senza disturbi quello che il povero vedeva quando era guarito; vedere che Gesù è il "sì" che Dio ha detto dentro tutti gli altri interventi in modo da non poterlo più ritirare: questo è vedere Dio e il rapporto Padre-Figlio. Beati i puri di cuore perché vedranno Dio! Avere un cuore abbastanza puro da vedere che cosa è implicato e che cosa c'è davvero dentro il povero che vive, dentro l'affamato che ora mangia: questo è l'inizio della visto beatifica.
    Vedere questo è vedere Dio, lodare Dio, è andare oltre tutti gli interessi miei, oltre ogni orizzonte puramente antropologico. "A fare questo, cioè dar da mangiare agli affamati... sei solo Tu e puoi essere solo Tu". Nel fare questo c'è un tratto inconfondibile proprio di Dio. In tutti i salmi c'è questo, a modo di presupposto o di orizzonte: io sto parlando con Dio, ma sto contemplando l'autorivelazione di Dio; solo così posso parlare di Dio e solo così posso rivolgermi a Lui. Ogni volta che gli dico: "Signore, vieni in mio aiuto, perché stai lontano?", io posso farlo solo perché so che egli è colui che non sta lontano, anzi manifesta il suo se stesso facendomi vivere. La lode è la base e l'orizzonte, avvolgente di tutti i salmi e di ogni possibile preghiera. [9]

    I salmi regali

    Sono quelli al cui centro è il re d'Israele, inteso come rappresentante di Dio. Poiché la teologia della regalità si sviluppa soprattutto fuori dei salmi, ed è il presupposto più che il contenuto dei salmi regali, ne anticipiamo la presentazione.

    Teologia

    La teologia che sottende questo genere di salmi è l'"ideologia regale", ossia la visione del mondo incentrata sul rapporto tra il re e la divinità.
    La concezione del re come figlio di Dio, come incarnazione di Dio. Questa concezione è comune nell'area mediorientale. Nel re prendono corpo le forze ed energie divine sparse nel mondo, che attraverso il re vengono distribuite su tutta la collettività. E viceversa:
    attraverso il re tornano alla divinità, simbolicamente (mediante il sacrificio) le energie vitali della comunità. La circolazione vitale da cui deriva e su cui si mantiene l'esistenza complessiva della collettività ha due poli: divinità-popolo; e il re fa da tramite organico, punto di passaggio necessario, fisiologico, tra la divinità e il popolo.
    In Israele questa concezione c'è e non c'è. Non c'è, perché Dio è il Dio vivente, il donatore della vita, non un serbatoio di energie. Dio dona liberamente la vita. A Babilonia il rapporto tra Dio e popolo è di partecipazione: il popolo è parte dello stesso movimento di vita che nel divino ha il suo fulcro e la sua espressione. In Israele il popolo non è parte di Dio ma partner di Dio, interlocutore chiamato liberamente ad acconsentire. Questo diverso rapporto rende diverso anche il tipo di mediazione che il re esercita, rende problematico lo stesso installarsi di una regalità in Israele (cf. 1 Sam 8). Poi, quando questa regalità viene accettata, assume dentro l'alleanza Dio-popolo la modalità dell'alleanza stessa (2 Sam 6). Il re è rappresentante di Dio, è anche figlio di Dio, come Israele è detto figlio di Dio. Il re non è quell'individuo in cui prendono corpo le risorse e le energie del divino, della vitalità cosmica. È l'eletto per eccellenza in un popolo di eletti.
    Che si tratti del rapporto di alleanza tra due partner personali, o si tratti dell'altro tipo di alleanza, quasi fisiologica e organica, tra divinità-re-popolo, in ogni caso l'espressione per eccellenza della operosità di Dio nei confronti del popolo attraverso il re è la pratica della giustizia e del diritto.[10]. Giustizia e diritto non sono tanto il programma del re, quanto il costitutivo del suo ruolo, la sua essenza e missione: non è il re che sceglie una politica di giustizia; questa politica gli viene affidata dalla divinità, come mediazione della propria giustizia verso gli uomini. Ma che cosa significa qui giustizia? Giustizia non è dare a ognuno il suo, non è un far rispettare la proprietà, ma è il venir incontro al povero, al debole. E dunque un concetto di giustizia non formale (difesa dello status quo) ma sostanziale (difesa dell'indifeso, protezione del bisognoso). Questo ruolo di mediazione della giustizia a opera del re, come missione affidatagli dalla divinità, è presente nell'area mediorientale. Ma in Israele quest'idea è diventata carne e sangue nel popolo e negli individui, in maniera più ostinata e capillare degli altri popoli. Il vero miracolo di Israele è quello di continuare a vivere - dopo 2500 anni - credendo in queste cose, senza essere stato potenza egemone: continuare a vivere come pura presenza culturale, non di potere. Israele non ha scoperto per primo che Dio è il Dio della giustizia, ma l'ha mantenuto vivo dentro una storia di cui ha pagato i prezzi più che fruirne i vantaggi.
    Qui si profila un secondo modo in cui Dio dona la vita al povero; un modo la cui testimonianza principale non sono i salmi ma i libri storiòi e profetici, e che è però presente anche nei salmi: appunto nei salmi regali. Mentre nel primo modo (quello più comune ai salmi, studiato nel ciclo lamentazione-ringraziamento) Dio interviene direttamente (guarigione, liberazione da nemici, ecc.), nel secondo modo l'intervento di Dio consiste nell'imperativo della giustizia, il cui esecutore principale è il re (al tempo della monarchia) ma che si esprime anche nella pratica diffusa della giustizia da parte di ogni membro della comunità (cf. testi legislativi e, avanti, i salmi sapienziali e alcuni "salmi di Gerusalemme"). Il terzo modo è la promessa, da parte di Dio, di un intervento futuro e definitivo: sono questi i salmi del regno di Dio.

    Sguardo ai salmi

    I salmi regali conservati nel salterio sono: 2; 21; 45; 72; 89; 101; 110. Quanto al contenuto più specifico, possono essere distribuiti così:
    intronizzazione: 2; 72; 110
    il monarca perfetto: 101
    la vittoria: 21
    il matrimonio: 45
    l'arco: promessa-elezione-infedeltà-disgrazia: 89
    Dato il carattere "ideale" della figura del re descritta in quasi tutti questi salmi (cf. sopra: "l'ideologia regale"), si capisce come essi siano stati riletti in chiave messianica e poi cristologica. E importante ricollocarli nel loro contesto originario per ritrovare l'orizzonte utopico (e messianico ante-litteram) della "visione del mondo" in Israele.

    I salmi della regalità di Dio [11]

    Teologia: premessa

    Per evitare malintesi bisogna distinguere, a proposito della regalità di JHWH, tra la circostanza, la forma e il contenuto.
    La circostanza è la possibile celebrazione annuale della intronizzazione di Jahvé. Forse copiata da Babilonia, ma con una differenza sostanziale: qui il dio Marduk ridiventa davvero re ogni anno, nella festa di capodanno, con la celebrazione che rinnova l'ordine del mondo (secondo la visione ciclica della realtà); in Israele Dio è re una volta per tutte, e la celebrazione ha valore puramente rappresentativo ed evocativo.
    La forma è il titolo di re: anteriore o posteriore all'istituzione della monarchia in Israele? La risposta non ha un'importanza essenziale. Ciò che è essenziale è invece distinguere tra il titolo regale e la realtà che esso designa. Il titolo può ben essere una proiezione dal re terreno a Dio; ma la realtà è il conferimento della missione da Dio al re (cf. salmi regali). È questa missione, vista nella sua fonte, il contenuto dei salmi della regalità di Dio.
    Dunque: contenuto: Dio veglia sul buon ordinamento della comunità umana e del mondo. Vediamo come questa convinzione funziona nei salmi della regalità di Dio, cogliendo in essi una serie di convergenze.

    Teologia: analisi. Le convergenze

    JHWH è re di Israele e re del mondo (umano e cosmico): «i capi dei popoli si sono raccolti / con il popolo del Dio di Abramo, / perché di Dio sono i potenti della terra» (Sal 47, 10):
    - re di Israele: 47, 5; 93, 5; 97, 8; 98, 3; 99, 2.4.6
    - re del mondo: 47, 8-9; 93, 1-4; 97, 1 ss.; 98, 2.4 ss.; 99, 1 ss. Universalità e particolarità non si oppongono, perché l'elezione del particolare (Israele) ha valore di segno e testimonianza della regalità universale: «In te (Abramo) si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gen 12, 3).

    Creazione e governo: l'idea che li collega è quella dell'ordine: ordine del mondo (dal caos al cosmos) e ordine della società (legge, giustizia, giudizio).
    Ordine del mondo: 93, 1; 96, 10.
    Ordine della società: 93, 5; 96, 10.13; 97, 10 ss.; 98, 2.9; 99, 4.7.
    (Momento intermedio può essere considerato il "domare i nemici": 47, 4; 97, 3).

    La regalità sul cosmo è una regalità indicativa: le cose sono così. La regalità sull'uomo è una regalità imperativa: le cose devono essere così. La teologia implicita in questa convergenza è il rapporto tra dimensione cosmica e dimensione etica della creazione. Nella filosofia cristiana il rapporto è questo: il momento cosmico fonda il momento etico; l'essere fonda il dover-essere: poiché Dio è creatore è anche legislatore. Ora, non si può far derivare un diritto da un fatto. Il fatto è: Dio ti ha creato; il diritto: dunque devi obbedirgli. L'avermi prodotto è un'operazione di potenza, di causalità; il produrre come tale può essere un atto di arbitrio, non si costituisce dentro un orizzonte di giustizia e di dover essere. Bisogna introdurre un altro elemento: mi ha prodotto con benevolenza, con amore. Allora l'obbedienza diventa riconoscenza.
    Ma bisognerebbe vivere in un mondo perfettamente buono per poter fondare su di esso il principio di obbedienza. Invece, in un mondo dove fattualmente, esperienzialmente, il bene e il male si distribuiscono in modo tale che è impossibile dire che il mondo è buono, che il male è qualcosa che non intacca la sostanza del mondo buono; in un mondo dove bene e male sono intrecciati, come possiamo noi dire che dietro il mondo c'è una volontà di benevolenza e quindi meritevole della nostra obbedienza? Dal fatto non si può ricavare il diritto. Israele (e l'esperienza religiosa teista in generale) procede in senso inverso. Qui il punto di partenza è un Dio buono e giusto che vuol far vivere colui che è carente di vita. In questa esperienza di Dio è già contenuta l'esperienza del suo diritto a consegnarmi il fratello perché io sia buono verso di lui. Nell'esperienza del Dio di giustizia è contenuta anche l'esigenza che quella giustizia si rivolga a me e dica: così devi fare, questa è la strada giusta. Che questo Dio sia anche il produttore o creatore del mondo come complesso di fatti è una scoperta successiva per Israele. L'essenza della religione teista, dove Dio è realtà personale (è voce-parola-luce...) e non vitalità cosmica, è questo imperativo fondato su se stesso, che ha dentro di sé la propria luminosa giustificazione. È questa voce che non ha bisogno d'altro per giustificarsi. Certo, di questo Dio che chiede giustizia si scopre poi che è colui che ha creato il cielo e la terra. E una giustizia che ha dentro di sé l'ordine della fattualità, altrimenti sarebbe un puro conato di giustizia. Allora Dio può fare ed esigere giustizia se può disporre dell'ordine dei fatti. L'esperienza fondamentale della religione teista non è che io appartengo a Dio perché mi ha fatto, ma viceversa; ossia, prima è l'esperienza che io gli appartengo, esperienza che consiste nel sentirmi vincolato nell'uso delle cose, nel sentire che non posso padroneggiare, sterminare, perché ciò che mi circonda non mi appartiene, io stesso non mi appartengo. Nella regalità di Dio, che è insieme ordinamento sul cosmo e ordinamento sull'agire umano, biblicamente è primo questo secondo.

    Passato (-presente) e futuro. Accanto alla presenza indicativa di Dio (che ha fatto e fa per i poveri) e alla sua presenza imperativa (ciò che ordina di fare: cf. i salmi regali), abbiamo qui una presenza indicativo-futura, cioè una promessa: Dio regnerà, la sua giustizia sarà un giorno pienamente vittoriosa: «il Signore viene a giudicare la terra: giudicherà il mondo con giustizia, e con verità tutte le genti» (96, 13); «il Signore viene a giudicare la terra: giudicherà il mondo con giustizia, e i popoli con rettitudine» (98, 9). In questa attesa dell'intervento futuro di Dio echeggia la delusione per l'inadeguatezza dei re terreni che Israele ha avuto e che non hanno corrisposto all'ideale della loro missione.
    Regalità di Dio e lode. I salmi di JHWH re possono anche essere considerati come una variante dei salmi di lode, tanto è insistente l'invito a cantare, dare gloria, applaudire, gioire... E la ragione è che nella regalità futura di Dio arriva al suo compimento la creazione e, dentro di essa, la storia di Israele e dell'umanità; cioè i due motivi fondamentali della lode (cf. i salmi di lode: struttura e teologia). Il futuro è oggetto di attesa e di speranza; ma quando l'attesa è fervente e la speranza è salda, il futuro diventa certezza; e dunque può già scaturirne la lode, il canto. Al tempo stesso, nato dalla speranza viva, il canto la sostiene e la rinnova. Canto perché spero; canto per sperare: è questo l'intreccio tra regalità futura di Dio e lode.

    I salmi di Gerusalemme

    Raccogliamo sotto questo titolo alcuni salmi che dal punto di vista strettamente formale (struttura letteraria) appartengono forse a generi diversi, ma che sono accomunati dal riferimento a Gerusalemme, città santa, e/o al tempio.
    Possono essere distribuiti in alcuni gruppi.

    Inni di Sion: 46; 48; 76; 87; 132. Un'analisi storico-letteraria rileva in questi salmi un triplice strato:
    mitico: il fiume paradisiaco: 46, 5
    la montagna santa: 48, 2.12; 87, 1
    lotta contro i nemici-caos: 46, 3 s. 6 s.; 48, 5 ss.; 76, 5 ss. luogo sicuro: 48, 4. 13 ss.
    storico: la Gerusalemme di Davide: 132
    profetico: Gerusalemme e il regno futuro di Dio: 76, 9-11; 87, 7 (soprattutto se si legge: Danzando canteranno tutti quelli che in te erano stati umiliati).

    Canto processionale: 122: l'arrivo a Gerusalemme, città della "pace", cioè del bene senza difetti e senza ombre (vv. 6-9).

    Condizioni etiche: 15; 24, 1-6. L'integrità morale - nella forma di giustizia e di amore concreto al prossimo - che era richiesta ai membri di Israele come espressione della fedeltà all'alleanza e come condizione per entrare e permanere nella terra promessa, viene qui presentata come condizione per essere ammessi al tempio. Questi salmi possono allora essere letti come risposta positiva alla denuncia profetica dello scollamento tra culto e vita (cf. Is 1, 10-16; 58, 1-8; Am 5, 21-27; ecc.).

    Desiderio del tempio: 84-137: nostalgia di Gerusalemme; 119: passione per la legge come dimensione contemplativa.
    La coscienza cristiana ha fatto una trasposizione immediata della nostalgia e del desiderio del tempio a desiderio della solitudine e contemplazione di Dio. È certo sulla linea del salmo questa trasposizione; procede però su una linea accentuata di spiritualizzazione. Nei salmi il motivo del desiderio del tempio non va identificato con il motivo del desiderio di Dio. Tempio voleva dire sicurezza economica, aver garantita la sussistenza (nel salmo 36 ci sono immagini di abbondanza di cibi...); voleva dire integrazione sociale, il trovarsi con i fratelli, riscoperta della fraternità nel tempio (Sal 133); voleva dire esperienza liturgica di lode.

    Sull'uso di questi salmi: come può il cristiano recitarli, se Cristo ha abolito il tempio e ha dichiarato che l'incontro con Dio non ha più riferimenti spaziali ma solamente esistenziali (Gv 4, 21 ss.)? Il riferimento spaziale - il tempio - è utile e suggestivo come simbolo oggettivato (il simbolo reale è la comunità dei credenti!) della terra interamente redenta: il tempio, come luogo della presenza di Dio, è figura della terra futura, dove Dio sarà "tutto in ogni cosa"; ed è anche figura di ciò che è già presente nella vita rinnovata dalla fede e dall'amore.

    I salmi sapienziali

    Teologia

    Come per i salmi regali, il quadro teologico dei salmi sapienziali è anteriore ai salmi stessi, ed è dentro questo quadro che essi trovano la loro collocazione. Israele non è creatore ex-novo della "sapienza".
    La sapienza al di fuori di Israele, ma nell'area culturale a cui Israele appartiene, non è solo buon senso (come ad esempio nei proverbi) ma è la visione complessiva del mondo; visione non scientifica né teoretica, bensì visione del mondo che fissa le leggi fondamentali dell'universo in ordine a inserirvi l'uomo, la sua esistenza. In Egitto Ma'at è la sapienza ed è l'ordine cosmico, è l'ordine sociale dentro il cosmico e l'ordine individuale etico. Ma oltre a essere l'ordine del mondo, Ma'at è la conoscenza che l'uomo ha di questo ordine (la "sapienza", appunto) e che gli permette di agire in sintonia con esso.
    In Israele l'asse portante della visione sapienziale è lo stesso, e si formula nei libri dell'alleanza (soprattutto nel Deuteronomio) e nei libri sapienziali. Il contenuto centrale è il collegamento tra la giustizia, la rettitudine dell'uomo, e la vita, la felicità, la riuscita. Questo è il principio sapienziale: osserva la legge di Dio (che è l'ordine del mondo), affinché tu possa vivere. Dt 30, 15 ss. dice: fa' il bene, e vivrai; fa' il male, e andrai in rovina. Fare il bene vuol dire avere rapporti corretti con gli altri e riconoscere attivamente Jahvé come proprio Dio. Essere israelita, dal punto di vista della coscienza, è avere la convinzione che a guidare il mondo è la relazione tra fare il bene e riuscire, tra fare il male e fallire. Questo principio che nasce dall'alleanza è il vincolo con cui Dio ha legato a sé Israele, chiedendogli l'osservanza della legge e offrendogli la terra promessa. Vincolo non arbitrario, perché esprime la legge stessa della creazione: il mondo affidato alla responsabilità dell'uomo.
    Nei libri sapienziali ritorna questa legge; e l'unica differenza di rilievo è questa: nel Deuteronomio il partner dell'alleanza è Israele
    come popolo, invece nei libri sapienziali è l'individuo. (Non va però forzata la differenza dell'interlocutore, è solo una diversa accentuazione). È da Israele che ci arriva questa convinzione fondamentale: tra le sorti del mondo e l'esercizio della libertà umana c'è un nesso. Il mondo non va a caso, non è l'avvicendarsi fortuito di situazioni alterne. C'è un nesso intrinseco tra come vanno le cose nel mondo e la qualità dell'esercizio della libertà.
    Forse è più naturale la visione che ci viene dal mondo greco, che senza negare interamente questo nesso calca però la mano sul carattere fatale degli avvenimenti. L'ultima parola è quella necessità pura che è al tempo stesso pura contingenza, ed è l'arbitrio della sorte. Anche la colpa è sotto il segno della necessità: è "colpa fatale". L'uomo è vittima del fato anche nel suo peccato. Israele invece è la faccia della responsabilità, spinta a un punto tale da portarla a una corrispondenza quasi matematica "se perisci o stai male, vuol dire che hai peccato" (e questo è un limite che la sapienza di Israele supererà negli ultimi secoli dell'antico testamento). Le vicende del mondo non sono ultimamente frutto della sor- te ma della libertà dell'uomo. E questo il principio su cui spuntano i salmi sapienziali. E sarà il principio che, di fronte al fallimento storico dei giusti, farà lievitare la coscienza di Israele verso l'affermazione di una vita oltre la morte.

    Sguardo ai salmi

    Il principio-giustizia: Sal 1 ( + 92, 13-16): sintesi attraverso la metafora vegetale; Sal 112: giustizia verso l'uomo (vv. 5.9: cf. Sal 15); Sal 128: giustizia e vita familiare; Sal 133: vita comunitaria; Sal 127: "casa" = abitazione + famiglia.

    La condotta effettiva: versante negativo del principio: Sal 14.

    La realtà contro il principio: l'ingiusto vive e prospera / il giusto perisce: Sal 37; 49; 73.


    NOTE

    1 Sal. 8; 19; 29; 33; 65; 100; 103; 104; 105; 111; 113; 117; 135; 136; 139; 146-150. La numerazione dei salmi sarà sempre quella ebraica, ormai abituale nelle bibbie (e messa invece tra parentesi nei salteri liturgici).
    2 Diversi spunti mi sono stati suggeriti dai libri di Beauchamp e di Alonso-Schókel (cf. guida bibliografica di G. Ravasi).
    3 Cf. avanti le note sulla esecuzione dei salmi.
    4 Sal 3; 5; 6; 7; 13; 22; 25; 38; 42-43; 51; 63; 69; 88; 102; 130.
    5 Sal 44; 60; 74; 79; 80; 83; 85; 89, 39-52; 90, 13-17; 106 (molte lamentazioni si trovano al di fuori del libro dei salmi).
    6 Sal 4; 11; 16; 23, 27, 1-6; 63; 131.
    7 Sal 9, 18; 30; 32; 34; 40, 2-12; 66; 92; 107; 116; 138 (Inoltre, alcune conclusioni dei salmi di lamentazione, e alcuni canti fuori del salterio: soprattutto Giona 2. Nel Nuovo Testamento: il Benedictus e il Magnificat).
    8 Il salmo di ringraziamento individuale si intreccia facilmente con altri generi letterari: soprattutto con la lamentazione e la lode (cf. qui le reciproche implicazioni teologiche), e poi con il salmo sapienziale: il testimone dell'intervento divino si trasforma in maestro (cf. per es. 34, 12 ss.).
    9 Salmi di ringraziamento collettivo ne sono rimasti molto pochi nel salterio, perché al tempo della sua formazione con la raccolta dei salmi (dopo l'esilio) le situazioni di vittoria del popolo erano ormai un ricordo lontano. Si possono ricordare: fuori del salterio: Es 15 (Miriam); Giud 15 (Debora); nel salterio: 118; 124; 129.
    10 Cf. raccolta di testi mediorientali in J. Dupont, Le beatitudini, vol. 1°. Sono testi sulla regalità e sulla divinità centrati sul diritto.
    11 Sal. 47; 93; 96; 97; 98; 99 (e forse anche altri).

    GUSTARE: LA POESIA DEI SALMI

    I salmi sono poesia. E, come ogni testo, presentano una duplice dimensione poetica: quella del significante e quella del significato. Illustriamo e verifichiamo questa distinzione su un esempio concreto. Esaminando il famoso verso leopardiano «negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi» (del canto A Silvia), F. Flora osserva come basti spostare le parole dentro l'endecasillabo per spezzarne il ritmo e straziarne l'incanto; tanta è «la ombrosa e divina suscettibilità della forma!» [1]. Eppure Leopardi può essere tradotto in altre lingue, perdendo così questa magia della forma ma conservando "qualcosa" della sua poesia (diversamente, non avrebbe senso tradurre i poeti); perdendo la musica di quell'endecasillabo ma conservando il disegno di quegli occhi «ridenti e fuggitivi».
    Ecco: la poesia del significante è legata alle possibilità proprie di quella lingua in cui il testo poetico è scritto. Nel caso dei salmi, è legata all'ebraico e, dunque, alla precisa e connaturata conoscenza di esso; livello di conoscenza da cui è escluso chi scrive e, presumibilmente, la maggior parte dei lettori di questo quaderno. Ritmo del verso, allitterazioni, giochi di parole, ecc. ci rimangono estranei; ed è evidente che in questo modo noi perdiamo molto della poesia dei salmi.
    Ma noi comprendiamo ciò che essi dicono; e non solo il loro contenuto dottrinale, ma la forma in cui esso viene espresso, cioè il linguaggio simbolico. Il simbolo è linguaggio, è linguaggio poetico; ma è anteriore alle differenziazioni linguistiche: è linguaggio del corpo e dell'immaginazione.
    Non intendiamo fare qui uno studio dei simboli nei salmi, ma semplicemente segnalare alcuni di questi simboli (e alcuni dei passi in cui essi ricorrono) per sollecitare l'attenzione e l'interesse nei confronti di questa dimensione poetica della preghiera salmica. I simboli scelti sono sostanzialmente quelli che riguardano il "dire Dio": sono dunque frammenti di estetica teo-logica. Ma poiché il discorso biblico su Dio è sempre discorso sul suo essere rivolto all'uomo, questi simboli sono anche una pagina di estetica esistenziale: vivere sotto lo sguardo di Dio, dentro lo spazio del suo amore, spiando il movimento delle sue mani, lanciandogli il grido del bisogno, sono tutte figure dell'esistenza umana, che, pur dentro la durezza del vivere, si disegna in esistenza "bella e buona". La bellezza e bontà dell'uomo giusto.

    Occhio/volto (di Dio)

    Il simbolo fondamentale della presenza di Dio all'esistenza dell'uomo è quello legato all'azione del vedere. Simbolo universale nelle religioni, ma che nella bibbia e particolarmente nei salmi copre uno spazio di significato più ricco e complesso. Il senso usuale dell'occhio di Dio" è quello di uno sguardo che misura e giudica l'agire dell'uomo; sguardo che unisce insieme verità (è infallibile) ed efficacia (onnipenetrante).

    Signore, tu mi scruti e mi conosci,
    tu sai quando seggo e quando mi alzo.
    Penetri da lontano i miei pensieri,

    mi scruti quando cammino e quando riposo.
    Ti sono note tutte le mie vie;

    la mia parola non è ancora sulla lingua
    e tu, Signore, già la conosci tutta (139, 1-4).
    Se dico: "Almeno l'oscurità mi copra
    e intorno a me sia la notte";

    nemmeno le tenebre per te sono oscure,
    e la notte è chiara come il giorno;
    per te le tenebre sono come luce (139, 11-12).

    I suoi occhi sono aperti sul mondo,
    le sue pupille scrutano ogni uomo (11,4).

    Contro lo stolto che dice "Dio non vede", il salmista protesta:

    Comprendete, insensati tra il popolo,
    stolti quando diventerete saggi?

    Chi ha formato l'orecchio, forse non sente?
    Chi ha plasmato l'occhio, forse non guarda?
    Chi regge i popoli, forse non castiga,

    lui che insegna all'uomo il sapere? (94, 8-10)

    È sotto questo sguardo che l'uomo si riconosce colpevole:

    Contro di te, contro te solo ho peccato,
    quello che è male ai tuoi occhi, io l'ho fatto (51, 6);

    fino a desiderare che esso si distolga da lui:

    distogli lo sguardo dai miei peccati (51, 11)
    gli stolti non sostengono il tuo sguardo (5, 6).

    Ma c'è anche un altro sguardo di Dio, al quale l'uomo rivolge il proprio desiderio e la propria attesa: è quello che si piega sulla miseria umana per soccorrerla:

    Il Signore nostro Dio
    si china a guardare dai cieli sulla terra:
    solleva l'indigente dalla polvere,

    dall'immondizia rialza il povero...
    fa abitare la sterile nella sua casa
    quale madre gioiosa di figli (113, 5-9).

    Il Signore dal cielo ha guardato la terra
    per ascoltare il gemito del prigioniero,

    per liberare i condannati a morte (102, 20s.).
    L'occhio del Signore veglia su chi lo teme,
    su chi spera nella sua grazia,

    per liberarlo dalla morte
    e nutrirlo in tempo di fame (33, 18s.).

    In questo senso i salmi parlano spesso anche del "volto" di Dio; e mi pare ci sia una sfumatura di differenza: l'occhio è Dio come soggetto, il volto è Dio come bene, come fonte dei beni in cui splende la sua bontà; l'occhio è all'origine dell'intervento divino, il volto è l'effetto di questo intervento in quanto vi si gusta il sapore dell'origine (in generale: l'occhio guarda, il volto è guardato).

    Fino a quando, Signore, continuerai a dimenticarmi?
    Fino a quando mi nasconderai il tuo volto? (13, 2)

    Chi ci farà vedere il bene?
    Risplenda su di noi, Signore,
    la luce del tuo volto (4, 7).

    Il tuo volto, Signore, io cerco.
    Non nascondermi il tuo volto (37, 8s.).

    In che rapporto stanno i due sguardi di Dio: quello che giudica e quello che protegge? Se li consideriamo rivolti allo stesso individuo, sembra nascere tra di essi una tensione, quasi l'opposizione e l'alternanza tra il Dio del timore e il Dio dell'amore. In realtà, i due sguardi di Dio sono l'articolazione di uno solo: lo sguardo che giudica è lo stesso che protegge, perché l'oggetto del giudizio divino è il comportamento dell'uomo verso l'altro uomo, verso il povero. La protezione che Dio dà al povero diventa giudizio su colui che opprime il povero. Potremmo dire: Dio ha un occhio su Abele (protezione: Dio della vita) e uno su Caino (giudizio: Dio della giustizia).; ma essi sono un unico sguardo rivolto alla storia degli uomini. E lo sguardo creatore, sotto il quale ognuno di noi è fin dal primo istante di vita il povero affidato alla cura altrui (la madre: cf. 22, 11; 71, 6-7; 131, 2) e il futuro soggetto responsabile dell'altro:

    Sei tu che hai creato le mie viscere
    e mi hai tessuto nel seno di mia madre...
    tu mi conosci fino in fondo,
    non ti erano nascoste le mie ossa...

    Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi
    e tutto era scritto nel tuo libro;
    i miei giorni erano fissati

    quando ancora non ne esisteva uno (139, 13-16).

    Orecchio - bocca

    Il simbolo auditivo si muove, neí salmi, in due sensi: dalla bocca dell'uomo all'orecchio di Dio e dalla bocca di Dio all'orecchio dell'uomo.
    Nel primo senso, che conosciamo bene, l'uomo grida (invoca, si lamenta, supplica) e Dio ascolta (porge attenzione, interviene).

    L'atto:
    Accogli, Signore, la causa del giusto,
    sii attento al mio grido.
    Io ti invoco, mio Dio: dammi risposta;
    porgi l'orecchio, ascolta la mia voce (17, 1.6).
    Dal profondo a te grido, o Signore;
    Signore, ascolta la mia voce.

    Siano i tuoi orecchi attenti
    alla voce della mia preghiera (130, 1 s.).

    Il ricordo:
    Nel mio affanno invocai il Signore,
    nell'angoscia gridai al mio Dio:
    dal suo tempio ascoltò la mia voce;
    al suo orecchio pervenne il mio grido (18, 7; cf. 116, 1 s.).

    Il principio generale:
    Gli occhi del Signore sui giusti,
    i suoi orecchi al loro grido di aiuto.
    Gridano e il Signore li ascolta,
    li salva da tutte le loro angosce (34, 16.18).

    Nel senso contrario, è Dio che parla; e la sua parola chiama all'essere il mondo:
    Dalla parola del Signore furono fatti i cieli,
    dal soffio della sua bocca ogni loro schiera (33, 6).

    Ma, soprattutto, chiama all'obbedienza l'uomo, che vi porge orecchio, vi presta ascolto:

    Gli ordini del Signore sono giusti, fanno gioire il cuore;
    i comandi del Signore sono limpidi, danno luce agli occhi (19, 9).
    Gli orecchi mi hai aperto...
    Allora ho detto: "Ecco, io vengo.
    Sul rotolo del libro di me è scritto
    di fare il tuo volere.
    Mio Dio, questo io desidero,
    la tua legge è nel profondo del mio cuore" (40, 7-9).

    Un terzo movimento: l'uomo non ha soltanto una bocca per gridare e chiedere aiuto, e un orecchio per ascoltare e obbedire; ha anche una bocca per cantare:
    Benedirò il Signore in ogni tempo,
    sulla mia bocca sempre la sua lode (34, 2).
    Canterò senza fine le grazie del Signore 
    con la mia bocca (89, 2).

     

    e per annunciare e narrare:
    Ho annunciato la tua giustizia nella grande assemblea;
    vedi, non tengo chiuse le labbra, Signore, tu lo sai.

    Mano

    Se l'occhio di Dio vigila sul mondo e ne determina l'intervento, è la mano che lo esegue. Non meraviglia allora di vedere le mani di Dio muoversi nella stessa duplice direzione in cui si dirigono (e le dirigono) i suoi occhi: verso il giudizio e la condanna, verso la sollecitudine e la protezione.

    Da una parte:
    Fino a quando, o Dio, insulterà l'avversario,
    e il nemico continuerà a disprezzare il tuo nome?
    Perché ritiri la tua mano

    e trattieni in seno la destra? (74, 10 s.)
    (L'empio) pensa: "Dio dimentica,
    nasconde il volto, non vede più nulla".
    Sorgi, Signore, alza la tua mano,
    non dimenticare i miseri (10, 32 s.).

    Hai colpito sulla guancia i miei nemici,
    hai spezzato i denti ai peccatori (3, 8).

    Dall'altra:
    Tu vedi l'affanno e il dolore,
    tutto tu guardi e prendi nelle tue mani (10, 35).
    Io sono con te sempre:
    tu mi hai preso per la mano destra (80, 18).
    Sia la tua mano sull'uomo della tua destra (80, 18).
    Ecco, come gli occhi dei servi alla mano dei loro padroni;
    come gli occhi della schiava alla mano della sua padrona,
    così i nostri occhi sono rivolti al Signore nostro Dio,
    finché abbia pietà di noi (123, 2).

    A sua volta la mano di Dio sembra a un tempo temibile e desiderabile, espressione di giudizio e di protezione:
    Se prendo le ali dell'aurora
    per abitare all'estremità del mare,
    anche lì mi guida la tua mano

    e mi afferra la tua destra (139, 9 s.).

    Quando essa si ritira, il salmista fa l'esperienza dell'abbandono di Dio:
    Ha detto: "Questo è il mio tormento:
    è mutata la destra dell'Altissimo" (77, 11);

    ma presto torna a conoscerne la potenza benefica:
    la destra del Signore ha fatto meraviglie,
    la destra del Signore si è innalzata,
    la destra del Signore ha fatto meraviglie.
    Non morirò, resterò in vita

    e annunzierò le opere del Signore (118, 15-17).

    La "meraviglia" fondamentale operata dalla mano di Dio è stata la creazione:
    Nella sua mano sono gli abissi della terra,
    sono sue le vette dei monti.

    Suo è il mare, egli l'ha fatto,
    le sue mani hanno plasmato la terra (95, 4 s).
    Quando guardo il cielo, opera delle tue dita...
    hai dato (all'uomo) potere sulle opere delle tue mani (8, 4.7).

    Ma la meraviglia finale, cioè quella a cui tutte le altre tendono, è l'ordine etico e spirituale:
    Le opere delle sue mani sono verità e giustizia,
    stabili sono tutti i suoi comandi (111, 7).

    Occhi, orecchie, bocca, mani: la preghiera di Israele non teme la contaminazione antropomorfica nel parlare di Dio. E non è che questi "antropomorfismi" siano rivestimenti letterari di concetti puri di Dio; viceversa, i concetti sono interpretazioni di questi simboli, che costituiscono il linguaggio religioso originario. Un Dio che non vede, non sente, non parla, non tocca, non è più Dio: è l'idolo.

    Gli idoli delle genti sono argento e oro,
    opera delle mani dell'uomo,
    hanno bocca e non parlano,
    hanno occhi e non vedono,
    hanno orecchi e non odono,
    hanno narici e non odorano.
    Hanno mani e non palpano,
    hanno piedi e non camminano;
    dalla gola non emettono suoni.
    Sia come loro chi li fabbrica

    e chiunque in essi confida (115, 4-8).

    Invece:
    Il nostro Dio è nei cieli,
    egli opera tutto ciò che vuole (v. 3).

    Spazio

    Lo spazio è una coordinata simbolica fondamentale, e i salmi vi ricorrono costantemente. Per esempio, l'azione liberatrice di Dio viene descritta spesso come un "tirare su" (dal fondo) e un "tirare fuori" (da una strettoia), ricuperando la simbolicità originaria del movimento e della libertà.
    Qui ci limitiamo a due indicazioni. La prima è quella che possiamo chiamare i punti cardinali dell'azione di Dio. Della sua misericordia, anzitutto:

    Come il cielo è alto sulla terra,
    così è grande la sua misericordia su quanti lo temono;
    come dista l'oriente dall'occidente,

    così allontana da noi le nostre colpe (103, 11-12).

    Ma anche del suo giudizio:
    Se salgo in cielo, là tu sei,
    se scendo negli inferi, eccoti.
    Se prendo le ali dell'aurora
    per abitare all'estremità del mare,
    anche là mi guida la tua mano,

    e mi afferra la tua destra (139, 8-10).

    Noi diciamo, in maniera scolorita: Dio è onnipresente. L'uomo della bibbia sente questa presenza come un'atmosfera avvolgente: tanto penetrante nella sua vicinanza quanto immensa nella sua estensione.
    E allora, misericordia e giudizio divini non solo occupano lo spazio; essi creano lo spazio esistenziale entro cui si muove la vita dell'uomo. E quello che i salmi chiamano il "camminare" e la "strada". La strada come simbolo della vita umana è legata, nella tradizione cristiana, all'idea della mèta da raggiungere: l'uomo è viator, pellegrino verso la patria celeste. Nei salmi la simbologia del camminare è diversa: l'uomo non va verso nulla; e non perché la sua esistenza sia un girare a vuoto, ma al contrario perché è già nello spazio della vita: la presenza del Dio che ama e che giudica.

    Camminerò alla presenza del Signore
    sulla terra dei viventi (116, 9).

    A volte prevale la presenza giudicante (in positivo):
    Camminerò con cuore integro dentro la mia casa (101, 2).
    Fammi conoscere la strada da percorrere (143, 8).

    Altre volte la presenza che accompagna e protegge:
    Se dovessi camminare in una valle oscura,
    non temerei alcun male, perché tu sei con me (23, 4).

    O le due cose insieme:
    Il tuo spirito buono mi guidi in terra piana (143, 10).
    Il Signore mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino (23, 3).

    Tempo

    Come l'erba sono i giorni dell'uomo,
    come il fiore del campo, così egli fiorisce.
    Lo investe il vento, e più non esiste

    e il suo posto non lo riconosce.
    Ma la grazia del Signore è da sempre
    dura in eterno per quanti lo temono (103, 15-17).

    Brevità della vita umana ed eternità della vita divina: è un'antitesi su cui i salmi amano ritornare. Con modulazioni diverse. Nel testo appena citato l'eternità di Dio riguarda la sua "grazia", la sua presenza che sostiene la stessa debolezza dell'uomo, riscattandola dal nichilismo. Presenza fedele, che accompagna la vita umana in tutte le sue stagioni:

    Tu mi hai istruito, o Dio, fin dalla giovinezza
    e ancor oggi proclamo i tuoi prodigi.
    E ora, nella vecchiaia e nella canizie,
    Dio, non abbandonarmi (71, 17-18).

    Altre volte l'eternità di Dio non viene collegata positivamente alla brevità dell'uomo, ma le viene duramente contrapposta. Allora questa brevità perde il carattere di serena saggezza e si coniuga a una tormentata coscienza di colpa e di pena:

    Prima che nascessero i monti
    e la terra e il mondo fossero generati,
    da sempre e per sempre tu sei, Dio.
    Tu fai ritornare l'uomo in polvere

    e dici: "Ritornate, figli dell'uomo".
    Ai tuoi occhi, mille anni

    sono come il giorno che ieri è passato,
    come un turno di veglia nella notte.
    Li annienti: li sommergi nel sonno;

    sono come l'erba che germoglia al mattino:
    al mattino fiorisce, germoglia,

    alla sera è falciata e dissecca.
    Perché siamo distrutti dalla tua ira,
    siamo atterriti dal tuo furore.
    Davanti a te poni le nostre colpe,
    i nostri peccati occulti alla luce del tuo volto.
    Tutti i nostri giorni svaniscono per la tua ira,
    finiamo i nostri anni come soffio.
    Gli anni della nostra vita sono settanta,
    ottanta per i più robusti,
    ma quasi tutti sono fatica, dolore;
    passano presto e noi ci dileguiamo (90, 2-10; cf. 92, 6-9).

    Vicino all'intreccio caducità-colpa, è quello di caducità-sofferenza:

    Si dissolvono in fumo i miei giorni
    e come brace cadono le mie ossa...
    Sono simile al pellicano del deserto,
    sono come un gufo tra le rovine.
    Veglio e gemo
    come uccello solitario sopra un tetto...
    I miei giorni sono come ombra che declina,
    e io come erba inaridisco.
    Ma tu, Signore, rimani in eterno,
    il tuo ricordo per ogni generazione (102, 4.6-8.12-13; cf. vv. 24-28).

    La conclusione, in forma di supplica:

    Insegnaci a contare i nostri giorni
    e giungeremo alla sapienza del cuore (90, 12).

    "Contare i giorni": l'uomo non è installato nella vita come a casa sua; vi è ospite di Dio, come Israele nella terra promessa (Lev 25, 23):

    Io sono un forestiero,
    uno straniero come tutti i miei padri (39, 13).
    Io sono straniero sulla terra,
    non nascondermi i tuoi comandi (119, 19).

    Indichiamo altre due figure simboliche, al cui centro è l'uomo e il suo mondo: ora come oggetto dell'azione divina, ora come risultato della propria esistenza giusta. [2]

    Coronare (cingere, circondare):
    Di gloria e di onore hai coronato (l'uomo) (8, 6).
    Coroni l'anno con i tuoi benefici (65, 12).

    Ti corona di grazia e di misericordia (103, 4).
    Incorona gli umili di vittoria (149, 4).
    La grazia circonda chi confida nel Signore (32, 10).
    Hai sciolto il mio sacco e mi hai cinto di gioia (30, 12).

    Il giusto come albero:
    Sarà come albero
    piantato lungo corsi d'acqua,
    che darà frutto a suo tempo
    e le sue foglie non cadranno mai (1, 3).
    Io come olivo verdeggiante nella casa di Dio (52, 10).
    Il giusto fiorirà come palma,
    crescerà come cedro del Libano;
    piantati nella casa del Signore,
    fioriranno negli atri del nostro Dio.
    Nella vecchiaia daranno ancora frutti (92, 13-15).
    La tua sposa come vite feconda
    nell'intimità della tua casa;

    i tuoi figli come virgulti d'olivo
    intorno alla tua mensa (127, 3).


    NOTE

    1 Prefazione a: G. Leopardi, I Canti, Mondadori, Milano 1961, p. 11.
    2 Chi volesse seguire la pista di altri simboli può trovare un utile strumento nella Concordanza pastorale dei salmi (a cura di O. Odelain e R. Séguineau), Dehoniane, Bologna 1984.

    ESEGUIRE: I SALMI COME PREGHIERA CORALE

    La tradizione cristiana sembra avere utilizzato i salmi soprattutto come testo di meditazione; la stessa recitazione comunitaria nei monasteri e nei conventi, con l'uniforme alternarsi dei due cori, non poteva che favorire l'assimilazione meditativa dei singoli versetti. Questa forma di approccio viene oggi prolungata da quei gruppi dove, dopo la recita del salmo, i singoli riprendono liberamente, ripetendolo ad alta voce, questo o quel versetto con cui si sentono maggiormente in sintonia.
    L'uso originario dei salmi era certamente diverso. E, senza negare la legittimità e fecondità dell'uso posteriore, è opportuno recuperare lo stile esecutivo che ne ha accompagnato - anzi costituito - quella pratica nativa. Sono i salmi stessi a suggerirci ancora il loro contesto e il loro tenore originario.

    Il contesto: festose processioni verso e dentro il tempio, cuore della spiritualità ebraica.
    Appare il tuo corteo, Dio,
    il corteo del mio Dio, del mio re, nel santuario.
    Precedono i cantori, seguono ultimi i citaredi,

    in mezzo le fanciulle che battono cembali (68, 25 s).
    Ordinate il corteo con rami frondosi
    fino ai lati dell'altare.

    Sei tu il mio Dio e ti rendo grazie,
    sei il mio Dio e ti esalto (118, 27 s).

    Questo io ricordo, e il mio cuore si strugge:
    attraverso la folla avanzavo tra i primi fino alla casa di Dio.

    In mezzo ai canti di gioia
    di una moltitudine in festa (42, 5).

    Le modalità: danza: 87, 7; 149, 3; 150, 4; ecc.; applausi: 47, 2; 95, 1; 98, 8; ecc.; prostrazioni: 99, 5.9; ecc.; mani alzate: 63, 5; soprattutto: accompagnamento di strumenti: cetra, arpa, cembali, trombe, timpani (150; ecc.).
    L'idea di fondo di questo stile esecutivo è che il salmo non va soltanto letto e pensato, ma "realizzato": è questo appunto il senso forte di "eseguire". D'altra parte, l'esecuzione appropriata è anche il veicolo migliore della comprensione.
    Questa idea di fondo può e deve perciò essere ricuperata; il momento espressivo non è un semplice rivestimento dell'idea, ma dà corpo all'anima teologica del salmo. Una buona esecuzione è già un valore in sé, perché è il corpo che prega: è teologia fatta gesto. Al tempo stesso, aiuta la comprensione; così come una migliore comprensione rifluisce sull'esecuzione e la rende più viva. È questo il circolo ermeneutico-pratico di cui vive la preghiera salmica.
    Qui vengono dati alcuni suggerimenti di ordine generale, ispirati da un pizzico di fantasia (e sostenuti da un pizzico di competenza); e poi alcuni esempi di applicazione a un piccolo numero di salmi.

    Suggerimenti generali

    Prima tappa: attraverso l'analisi letteraria e contenutistica del salmo si arriva a coglierne la struttura, cioè l'unità e la divisione in parti. Per questo è necessario e sufficiente un buon commento: è la parte della competenza.
    Seconda tappa: è la parte della fantasia. Si tratta di dare espressione alla struttura individuata, cioè di metterne in rilievo l'unità/differenza attraverso elementari tecniche di scansione. La più semplice mi sembra la alternanza, cioè l'avvicendamento di due diversi modi esecutivi: per esempio recitazione-canto, antifona (ritornello)-blocco di versetti, coretto-assemblea, solista-assemblea... Naturalmente, queste alternanze semplici possono anche intrecciarsi e dare origine a esecuzioni più complesse.
    Due osservazioni particolari. Sul canto: non è necessario, ovviamente, avere una melodia apposita per il singolo salmo. Se esso è tradotto in metrica (come i salmi di p. David M. Turoldo), gli si può applicare la melodia composta per un altro salmo (o per un inno) dalla stessa metrica. Bisognerà però stare attenti agli accenti, e operare eventualmente piccoli ritocchi o spostamenti... Per le traduzioni abituali resta fondamentale il metodo-Gélineau, basato su accenti ritmici e quindi capace di unire struttura ed elasticità. Ci sono poi sempre i "modi" gregoriani, che conservano una grande suggestione se scelti secondo la tonalità del contenuto del salmo.
    Sul solista: il solista può essere usato con diverse funzioni. La più spontanea è l'invito nei salmi di lode; ma c'è anche la testimonianza (narrazione del bene ricevuto) nei salmi di ringraziamento individuale, la meditazione in alcuni momenti contemplativi, la solitudine-sofferenza nei salmi di lamentazione...

    Applicazione ad alcuni salmi [1]

    Salmo 8

    Tutti: antifona all'inizio e alla fine (vv. 2a e 10): rispecchia sul piano esecutivo la presenza avvolgente del cielo (di Dio) a ciò che accade sulla terra (nella vita dell'uomo).
    Tutti (o coretto): vv. 2b-3.
    Solista: vv. 4-9 (con pausa dopo il v. 5): cantato o letto (magari con leggero fondo musicale): valore contemplativo.

    Salmo 22

    Tutti: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
    1° solista (lamentazione): vv. 2b-3
    Tutti: Dio mio, Dio mio...
    2° solista (fiducia): vv. 4-6
    Tutti: Dio mio, Dio mio...
    1° solista: vv. 7-9

    Tutti: Dio mio, Dio mio...
    2° solista: vv. 10-12

    Tutti: Dio mio, Dio mio...
    1° solista: vv. 13-19

    Tutti: Dio mio, Dio mio...
    2° solista: vv. 20-23

    Tutti (passaggio dalla solitudine all'integrazione comunitaria): vv. 24-27
    1° coretto (oltre Israele): vv. 28-29
    2° coretto (oltre la vita): vv. 30 a-b
    3° coretto (oltre il presente): vv. 30c-32
    Tutti (ripetere): Ecco l'opera del Signore

    Salmo 85

    1° solista: Signore, sei stato buono con la tua terra
    Tutti: Signore, sei stato...
    1° solista: vv. 2-4

    Tutti: Signore, sei stato...
    2° solista: Mostraci, Signore, la tua misericordia
    Tutti: Mostraci, Signore...
    2° solista: vv. 5-8

    Tutti: Mostraci, Signore...
    3° solista (oracolo): v. 9 (pausa dopo 9a)
    4° solista: Giustizia e pace si baceranno
    Tutti: Giustizia e pace...
    4° solista: vv. 10-14
    Tutti: Giustizia e pace...

    Salmo 103

    1° solista (testimonianza): vv. 1-5
    2° solista (proclamazione): vv. 6-7

    1° coretto (lo spazio di Dio): vv. 8-13
    2° coretto (la vita dell'uomo): vv. 14-16
    3° coretto (il tempo di Dio): vv. 17-19
    Tutti (ripresa dell'inizio): vv. 20-22 .

    Salmo 113

    Solista: v. 1
    Tutti: v. 2
    Solista: vv. 3-4
    Tutti: v. 2

    Solista: vv. 5-9
    Tutti: v. 2.

    Salmo 136

    Tutti (a ogni versetto): "perché eterno è il suo amore"
    Solista: invito: vv. 1-3
    1° coretto (i "padri narranti"): vv. 4-9
    2° coretto (i "padri narranti"): vv. 10-15
    3° coretto (i "padri narranti"): vv. 16-20
    4° coretto (i "padri narranti"): vv. 21-24
    Tutti: v. 25

    Solista: v. 26 (Tutti: "perché eterno è il suo amore")

    Salmo 139

    Tutti: Signore, tu mi scruti e mi conosci
    tu che plasmi la mia vita
    Ognuno un versetto (per sottolineare il carattere personale e singolare del rapporto): vv. 1-6
    Tutti: Signore...
    Ognuno un versetto: vv. 7-12
    Tutti: Signore...
    Ognuno un versetto: vv. 13-18
    Tutti: Signore... Tutti: vv. 19-24.

    I salmi in bocca

    Il ventaglio delle possibilità espressive della voce umana non ha, in tutte le culture, la stessa ampiezza e soprattutto non ha la stessa codificazione. Nella nostra cultura occidentale, mediamente alfabetizzata, la differenza tra il parlare e il cantare è netta: o parli, o canti. Vi sono, certo, espressioni individuali che modulano la voce in modi più sfumati, da un minimo a un massimo: dal sussurrare al canterellare, dall'esclamazione al grido. Sono comportamenti che, in determinate circostanze, diventano anche collettivi (la chiacchiera da salotto, lo slogan da piazza, l'urlo da stadio, ecc.). Ma sono tutte modulazioni marcate da stati emotivi strettamente personali, oppure intensamente sollecitate da reazioni di massa. In pratica, nella comunicazione corrente, sono codici che non sono in uso.
    Dunque: o parliamo o cantiamo. E ciascuno di questi due modi porta con sè un fascio di significati propri. Parlare non è "non-cantare" (perché si è, o si pensa di essere, stonati; perché non piace cantare, o per altri motivi); non è una soluzione minimale ma un codice esprimente sobrietà, immediatezza, quotidianità. All'inverso, cantare non è "non-parlare", ma uno stato comunicativo per certi aspetti píù intenso, più espressivo e impegnativo, con valenze anche pronunciatamente estetiche ed edonistiche. Se poi si passa dall'atto individuale a quello collettivo, entrano in campo effetti rafforzati di "immagine", di auto-ascolto, di proiezione del gruppo fuori da sè, con possibili incroci e variabili.
    Se questo regge, occorre trarne alcune conseguenze anche per la preghiera dei salmi.

    Dire i salmi

    Comunemente, il dire è la forma più semplice per far proprio il testo. Ma occorre davvero provare a dirli, facendo ad es. il passaggio dalla lettura mentale, o appena a fior di labbra, al pronunciare, al proferire propriamente detto. Sentire il testo fra i denti, articolarlo, dargli fiato, pause e silenzi. Modulare il tono e il volume. Lasciare che provochi in noi risonanze, rifiuti o adesioni, noia o entusiasmo. Dire il salmo è mettere se stessi alla prova del salmo: dalla bocca al cuore. Una consuetudine un po' costante con il testo finisce per provocare la curiosa impressione che sia lui a "dire" colui che lo dice. Siamo detti dal salmo, lavorati, plasmati. A questo punto l'appropriazione è piena e reciproca. Se siamo, per dir così, in balìa del testo, la strada in qualche modo è spianata a una più tagliente presenza dello Spirito, che bussa alla porta interiore.
    Dire i salmi insieme. Spesso è un accavallarsi confuso di voci, dove ciascuno va per proprio conto. Con una valutazione strettamente estetica, si direbbe che è brutto, ed è anche vero. Ma il fatto è che, sul piano celebrativo, la forma sbrindellata e un po' caotica che ne risulta non lega il gruppo, lascia ciascuno nel proprio guscio, non dà nessun segnale di unità e di coesione. La lacuna, allora, è anche spirituale: tocca il simbolo dell'agire in assemblea. Dire bene insieme non è dunque un preziosismo estetizzante ma un'esigenza della preghiera comune. Le esigenze minime sono: un ritmo verbale a cui tutti acconsentano e un tono di voce rispondente al tono del testo. La scansione in versetti e in strofe è un utile quadro di riferimento. L'andatura del dire non può lasciar spazi a varianti emotive o a preferenze individuali, pena il prevalere di individualismi privi di senso.
    Solo il genere letterario del salmo può richiedere delle giuste varianti. E difficile stabilire una grammatica dei toni di voce; sarebbe oltre tutto un po' ridicolo. Ma è importante non livellare tutti i salmi in una sorta di "tono retto", quasi fosse un approccio più rispettoso e riverente del testo. Questa ricorrente - anche oggi - propensione mi sembra una forzatura che non mette in evidenza la notevole varietà dei generi, e che denuncia più che altro un fondo di inconfessata nostalgia per un passato mitizzato e pseudosacrale. È chiaro che non si dirà, insieme, un salmo di lode o di ringraziamento con la stessa pacata tranquillità di un salmo di fiducia, o con il tono sommesso di una lamentazione. Qui l'emotività collettiva può entrare in campo, anche se bisogna osservare che la preghiera comune resta alle soglie della forma drammatica, varcate le quali tutto si accentrerebbe sull'uomo e sul gruppo, senza più spazi aperti e liberi che permettano qualche passo autentico verso l'alto.
    Il codice del parlato non è certo ristretto. Tuttavia predomina, come si è detto, il significato della quotidianità, semplicità, contenutezza. Dunque, dire un salmo può anche essere una scelta di senso. Può convenire al giorno feriale, al tempo ordinario. È adatto a un'assemblea limitata, a un gruppo piccolo, o fatto di gente poco propensa al canto, o semplicemente stanca (alla fine della giornata!). Sarà la cosa più giusta se preghiamo con un malato, o attorno a un defunto. O se occorre rispettare la quiete dei vicini di casa... Vi sono salmi particolarmente complessi o difficili da articolare, o irregolari nella forma: converrà recitarli. I salmi sapienziali forse si esprimono meglio nel parlato. Infine, la ritualità, quando c'è: altro è un salmo fra le letture o un responsorio, altro è la salmodia nelle Ore: i primi sono una risposta dopo un ascolto; nell'altra prevale il "fare", l'azione del pregare. La scelta concreta andrà comunque fatta intersecando esigenze, necessità, capacità, generi, tempi e momenti.
    Un'osservazione sull'uso eventuale di strumenti musicali (organo, chitarra, metallofono, cetra, piccole percussioni). Non è escluso che, sotto le mani di un abile musicista, uno strumento possa fornire talora un buon sottofondo sonoro, che si amalgami con la recitazione del salmo. Un sottofondo, specie quando il testo è di ti-
    po meditativo, contribuisce a rallentarlo, a distenderlo, creando un alone che funge come da prospettiva in secondo piano, mettendo in rilievo l'oggetto principale. Condizione assoluta è che il tessuto sonoro non distolga l'orecchio, anzi consenta un ascolto indiretto, obliquo. Va in genere evitata qualsiasi melodia solistica o comunque in primo piano; converrà lavorare su dissonanze o su ritmi ripetitivi. L'esperienza può insegnare molto.
    Un appunto ancora sul respiro: vale per la parola individuale e per quella collettiva, benché in misura diversa. Anche per chi non pratica agevolmente la respirazione diaframmatica, il dire un testo salmico modulandolo su un ritmo regolare di ispirazione-espirazione fa entrare nella preghiera una componente corporea di grande impatto. Le corrispondenze ritmiche fra testo e respiro possono essere estremamente variate. Conta molto il predisporvisi e il riprendere ogni tanto questo modo. Sul piano collettivo, la realizzazione dev'essere, per forza di cose, più semplice. È da sperimentare ad es. in gruppi ristretti e "affiatati" (appunto!), e con salmi dalla versificazione molto regolare. Ne deriva, in genere, una recita molto interiorizzata.

    Cantare i salmi

    Qui il termine "cantare" viene usato nel significato comune: vere e proprie melodie, ritmicamente misurate. Nel canto, la melodia ha un suo valore proprio. Il ritmo, in genere, fa attenzione alla parola ma tende a esserne indipendente. Il testo deve fare i conti con la musica, la quale ha il suo peso specifico e, del resto, incide sul testo stesso. La melodia inoltre ha una sua forma, semplice o complessa a seconda delle tradizioni culturali e musicali. Il testo viene a trovarsi così in una situazione inedita, in cui nasce qualcosa di nuovo, che non è la semplice somma di parole e musica. D'altra parte, l'atto del cantare - si è detto - implica una partecipazione personale più piena e "dispendiosa", che può anche essere gratificante. Certo, rinsalda maggiormente il gruppo e, in linea di massima, è elemento indispensabile di una festa o celebrazione comunitaria.
    Nei repertori e raccolte attuali di canto non esistono moltissimi casi di salmi da cantare, in senso proprio. Tuttavia se ne trova un numero sufficiente, di stile tradizionale oppure ritmico-giovanile, per offrire questo spunto a chi lo desidera. La scelta è a sua volta limitata dalle preferenze dei singoli compositori per questo o quel salmo, che talvolta sembrano un po' casuali e anche poco attente al genere letterario. Spesso si tratta di una parte soltanto dei versetti, o di "collages" di versetti presi da salmi diversi. Oppure il testo è stato adattato, o addirittura parafrasato, perché entri nell'alveo di forme melodiche precostituite.
    Pur con questi limiti, è suggestivo utilizzare queste composizioni quando si ha particolare bisogno di cantare, lasciar cantare e far cantare, in momenti di intensa partecipazione comunitaria, specie nei giorni di festa. Della forza dei testi salmici resta, in tal caso, soprattutto il contenuto: sono canti con testo salmico. L'esperienza è quella di una preghiera biblica piena e vigorosa: il salmo è preso nel circuito vitale del canto, fiato, bocca, melodia, assemblea in azione.

    Salmodiare

    Da ultimo, questa maniera di mettersi "i salmi in bocca", che non trova facilmente spazio né nelle categorie culturali né nelle pratiche musicali correnti. Tant'è vero che questa nota iniziava dando per scontata l'alternativa: o parli o canti. Provare a scriverne, allora - tanto più poi cercare di promuoverne l'uso - sta più dalla parte di un progetto, che da quella dell'analisi e della cura di un modo acquisito di pregare con i salmi. Benché non manchino agganci con pratiche esistite o esistenti, e lo vedremo, tuttavia la salmodia (detta anche "cantillazione" o, semplificando, recitativo) resta un uso vocale poco diffuso, specie sul piano collettivo. Di che cosa si tratta?
    Salmodiare non è parlare, ma non è neppure cantare. Da un lato, infatti, l'intonazione della voce non è più quella oscillante e personale del parlato: una, o poche, note vengono fissate come "corde di recita" su cui si dipana il testo, sia nell'azione individuale sia in quella collettiva. A differenza però del canto, non si dà un ritmo precostituito: vale il ritmo fluente della frase parlata, con le sue caratteristiche. Non solo, ma si evita qualsiasi accenno di vera e propria melodia: un paio di note, ripetitive, costituiscono tutto il materiale sonoro, che perciò è di tipo formulare. Il testo, in questa azione vocale, prevale dunque di gran lunga sugli elementi ritmo-melodici.
    È, in sostanza, un "recitare intonato", che sottrae il testo all'aleatorio del parlare puro, lo codifica in modo più stretto, ma insieme lo tiene al riparo dall'invadenza di una musicalità più prorompente. Certo, è un tipo di vocalità che rischia tutte le ambiguità della formula fatta: imbalsamazione del testo, sterilizzazione emotiva, ripetitività priva di senso. Ma anche: accentuazione delle costanti ritmiche del testo (se ve ne sono; di qui l'estrema importanza, nel nostro caso, di una versione salmica attenta al problema), impatto mnemonico, creazione di vasti spazi salmodianti, compatti eppure vivi, entro cui avere agio per una tranquilla, meditante contemplazione. Forse solo nella salmodia avviene il vero "corpo a corpo" con il testo salmico, quel rimando continuo, quasi un rimpallo, tra il salmista (non l'autore, ma colui che salmodia) e le parole del salmo. È una pratica che domanda un accostamento umile e fiducioso, una costanza fedele, un entrare in una fascia espressiva nuova.
    Del resto, brandelli di memoria consentono ancora oggi a molti di cogliere qualcosa di una cantilena salmodica di altri tempi (pur con le sue, ahimé, pesanti cadute di tecnica e di spirito). Nell'oggi, vale la pena farsi l'orecchio allo stile di diversi cantautori, che privilegiano il proprio testo, e il messaggio ivi espresso, al punto da proporlo con elementi musicali talmente sobri che sfiorano, in effetti, il recitativo vero e proprio.
    Condizioni per una buona salmodia: anzitutto, si è accennato, una buona traduzione. Non c'è molto da scegliere. Fra quelle da indicare, oltre la versione ufficiale della liturgia delle Ore, vi è l'ormai antico Salterio Corale LDC (1965), duro ma ritmicamente molto interessante, e il nuovo omonimo Salterio Corale (ABU-LDC), tratto dalla recente versione inter-confessionale (1985), diseguale nel suo insieme, ma con alcuni ottimi risultati. Altre prove, a mio parere, non sono che varianti dei precedenti. Poi una buona formula salmodica. Quelle esistenti sono di due tipi: a versetti (stichi) o a strofe (di 3 o più versi). Alcune sono a nota (corda) unica di recita; altre, variandola, permettono di appoggiarvi i principali accenti del verso; altre infine hanno finali ornate. Non vedo motivi di preferenza, che non siano quelli legati al modo in cui il singolo salmo è strutturato, e alle capacità degli oranti. Ci si può soltanto augurare che, ad esempio, un gruppo stabile faccia proprie diverse formule, per non appiattire le possibilità espressive.
    Non è detto che, specie nei salmi più lunghi e internamente articolati, si debba mantenere la stessa formula da capo a fondo: un cambio al punto giusto può rinnovare l'attenzione e rendere meglio ragione dell'intelaiatura e della dinamica interna del testo.
    Certo, salmodiare conviene. Ogni volta che si può, e che il salmo lo comporta (forma regolare, carattere di lode o di meditazione-rievocazione storica, o di lamento e supplica). Ogni volta che la partecipazione può essere impegnata, fervente. Come alternativa al parlato e al cantato. Con il sostegno di strumenti adatti (meglio se a note tenute, come le tastiere, per aiutare l'intonazione; comunque, in tonalità medie e mai alte, perché queste richiedono uno sforzo che fa fuoruscire dalla salmodia e scivolare nel canto).


    NOTE

    l Altri esempi si possono rilevare nel libretto di Luigi Della Torre, Salmi da celebrare, Queriniana, Brescia 19832.

    PER UNA LETTURA CRISTIANA DEI SALMI

    I salmi nella letteratura patristica

    Nella chiesa antica il libro dei salmi è stato il più usato dei libri dell'antico testamento. È stato alla base dell'apologetica e della riflessione teologica, ma soprattutto ha costituito l'alimento della preghiera liturgica e personale. E a questo proposito è stato secondo solo al Padre nostro. L'origine dell'uso liturgico non è immediatamente documentabile dal punto di vista storico:

    Non pare che la chiesa apostolica lo abbia accolto direttamente dalla sinagoga. All'inizio sembra certo che nella preghiera cristiana venivano usati canti 'idioti-ci', cioè di nuova e propria composizione. Solo dopo questa fallimentare esperienza, causata pare da abusi gnostici, la chiesa si rivolse alla preghiera dei salmi [1].

    Una velata allusione di Clemente Alessandrino testimonia che intorno all'anno 200 essi venivano cantati nella chiesa d'Egitto:

    Chiunque ha scelto di partecipare al banchetto partendo dalla fede, è fermamente pronto all'accoglimento delle parole divine, poiché egli possiede la fede come razionale criterio di giudizio; e di qui gli viene, per sovrappiù, la persuasione... E ciascuno di questi, rendendo grazie, canti con le parole del beato Davíd [2].

    A partire dal terzo secolo i salmi entrano ufficialmente nella liturgia cristiana. E nel secolo successivo le testimonianze si moltiplicano. A titolo esemplificativo riportiamo, qui di seguito, due voci significative: una proviene dall'oriente, l'altra dall'occidente, ma entrambe scavalcano confini geografici e barriere culturali. Due voci che, pur con sensibilità diverse, possiamo considerare complementari.

    Riguardo all'accusa sul modo di cantare i salmi, con cui soprattutto i nostri accusatori turbano i più semplici, posso dire questo: l'abitudine ora invalsa è conforme e consona a quella adottata presso tutte le chiese di Dio. Di notte, infatti, presso di noi il popolo si alza per venire alla casa di preghiera e, confessando a Dio in fatica e tribolazione e spargimento di lacrime, e infine levandosi dalle preghiere, passa alla salmodia. Allora, divisi in due cori, cantano i salmi alternativamente tra di loro, traendo da ciò forza nella meditazione delle Scritture e insieme procurandosi una maggiore capacità di attenzione e di concentrazione di spirito. Poi di nuovo affidano a uno solo il ruolo di iniziare il canto e gli altri lo accompagnano. Così, trascorrendo la notte nella varietà della salmodia, e intervallandola con preghiere, quando ormai spunta il giorno, tutti insieme, come da una sola bocca e con un solo cuore, innalzano al Signore il salmo della confessione, pronunciando ciascuno parole di pentimento. Se dunque per questi motivi voi rifuggite da noi, dovete rifuggire dagli egizi, dovete rifuggire da entrambi i libici, dai tebani, dai palestinesi, dagli arabi, dai fenici, dai siri e dagli abitanti della regione dell'Eufrate: insomma, da tutti coloro presso i quali sono tenuti in onore la veglia e le preghiere e i canti in comune dei salmi [3].

    In quei giorni non mi saziavo di considerare con mirabile dolcezza i tuoi profondi disegni sulla salute del genere umano. Quante lacrime versate ascoltando gli accenti dei tuoi inni e cantici, che risuonavano dolcemente nella tua chiesa! Una commozione violenta: quegli accenti fluivano nelle mie orecchie e distillavano nel mio cuore la verità, eccitandovi un caldo sentimento di pietà. Le lacrime che scorrevano mi facevano bene. Non da molto tempo la chiesa milanese aveva introdotto questa pratica consolante e incoraggiante, di cantare affratellati, all'unisono delle voci e dei cuori, con grande fervore. Era passato un anno esatto, o non molto di più, da quando Giustina, madre del giovane imperatore Valentiniano, aveva cominciato a perseguitare il tuo campione Ambrogio, istigata dall'eresia in cui l'avevano sedotta gli ariani. Vigilava la folla dei fedeli ogni notte nella chiesa, pronta a morire con il suo vescovo, il tuo servo. Là mia madre, ancella tua, che per il suo zelo era in prima fila nelle veglie, viveva di preghiere. Noi stessi, sebbene freddi ancora del calore del tuo spirito, ci sentivamo tutti eccitati dall'ansia attonita della città. Fu allora, che si incominciò a cantare inni e salmi secondo l'uso delle regioni orientali, per evitare che il popolo deperisse nella noia e nella mestizia, innovazione che fu conservata da allora a tutt'oggi e imitata da molti, anzi ormai da quasi tutti i greggi dei tuoi fedeli nelle altre parti dell'orbe [4].

    In questo stesso arco di tempo abbiamo testimonianze circa la recita personale dei salmi: essi venivano sempre letti, ascoltati o cantati, anche nei momenti ordinari di vita quotidiana e ritmavano le diverse ore della giornata [5].
    Trova così una legittima giustificazione l'abbondanza dei commentari che teologi e pastori ví hanno dedicato, sia a tutto il complesso, sia a singoli particolari. La tradizione non li ha conservati tutti nella loro forma originale. Molti di essi sono andati perduti e sono stati tramandati nelle "catene" esegetiche [6].

    Il primo libro da leggere

    Pertanto il libro dei salmi è il primo testo biblico che bisogna leggere e rimandare a memoria almeno qualche suo versetto. È una esortazione che echeggia di frequente, quasi come un ritornello, nelle lettere di amicizia e di 'pedagogia' di Girolamo:

    La prima cosa che deve imparare è il salterio; i salmi le devono far dimenticare le canzonette.
    Quando avrà raggiunto, ormai donnina in erba e con i suoi denti, l'età di sette anni, e comincerà ad avere il senso del pudore, a conoscere ciò che deve tacere e a esitare su quel che deve dire, impari il salterio a memoria.
    Deve ignorare le canzonette del mondo; la sua lingua, mentre è ancora tenera, deve impregnarsi della dolcezza dei salmi [7].

    Tuttavia le motivazioni non sono puramente di ordine pedagogico o metodologico: i salmi, infatti, comunicano al lettore il senso del mistero divino. Essi sono la sintesi e la rielaborazione di tutti i libri dell'antico testamento; sono un compendio della storia della salvezza: dalle meraviglie della creazione alle promesse fatte aí patriarchi, dai grandi avvenimenti dell'Esodo, che comprendono la liberazione dell'antico popolo dall'Egitto, il soggiorno nel deserto, la promulgazione della Legge, all'ingresso nella terra promessa e alla costruzione del tempio di Gerusalemme; dalla nuova schiavitù in Babilonia al ritorno in patria e alla riedificazione della città e del santuario. Non si tratta soltanto di una rievocazione di fatti e di personaggi del passato o di una lettura asettica, ma devono essere ripensati in prima persona.

    Nei salmi c'è qualcosa di meraviglioso; negli altri libri ciò che dicono i santi e ciò che di essi si dice, i lettori lo riferiscono a quello che è stato scritto; gli uditori si ritengono estranei al discorso e le gesta rievocate provocano meraviglia e desiderio di imitazione... Recita i salmi, invece, come discorsi propri; ascoltandoli si pente profondamente come se fosse lui stesso a dirli e stabilisce un ordine nell'azione dei canti, come se gli appartenessero [8].

    Inoltre hanno una intonazione profetica in quanto preannunciano
    i misteri fondamentali e caratterizzanti della fede cristiana: incarnazione, morte-risurrezione-ascensione del Signore.

    Non c'è dubbio che quanto è stato detto nei salmi, bisogna interpretarlo alla luce della predicazione evangelica: ciò che lo Spirito di profezia ha detto di qualsiasi personaggio è da riferire alla venuta, all'incarnazione, alla passione e al regno di nostro Signore Gesù Cristo [9].

    Nei salmi non solo nasce in noi Gesù, ma soffre, muore, risorge, ascende al cielo e siede alla destra del Padre [10].

    L'intonazione profetica dei salmi ha anche una dimensione escatologica, in quanto costituiscono il preannuncio della nostra glorificazione mediante la fede in Cristo [11].

    Salmoterapia

    L'ascolto e la recita dei salmi da parte del credente non significa ripensare soltanto le varie tappe della storia della salvezza, ma costituiscono anche quasi uno specchio attraverso il quale rivedere le proprie situazioni e riacquistare speranza e fiducia in Dio. Pertanto si raggiunge la capacità e la forza per uscire dalla propria angoscia.

    I salmi sono il limpido specchio in cui diveniamo più profondamente coscienti di ciò che ci accade. Resi sensibili dalla nostra propria esperienza, per noi non si tratta più di cose meramente ascoltate, ma ecco che ne tocchiamo la realtà, le percepiamo a fondo. Non restano semplicemente affidate alla nostra memoria, anzi le generiamo dalla profondità del nostro cuore, tanto che fanno parte del nostro essere [12].

    Essi hanno un valore terapeutico, vengono considerati come un complesso ospedaliero.

    Ogni parte della santa scrittura è divinamente ispirata e utile e proprio per questo è composta dallo Spirito santo, affinché, come in un ospedale aperto a tutte le anime, noi uomini possiamo ricevere, ciascuno, il medicamento appropriato al suo male particolare...
    Ma uno è l'insegnamento dei profeti, altro quello degli storici, altro quello della legge, altro ancora ancora il senso delle esortazioni dei Proverbi. Ma il libro dei salmi abbraccia tutto ciò che vi è di utile negli altri... Cura le antiche ferite dell'anima e reca rapido sollievo alle recenti; cura ciò che è malato e conserva in salute ciò che è sano [13].

    Indicano inoltre un metodo comportamentale che consiste nella eliminazione del peccato e nella relativa penitenza, nel sopportare le tribolazioni e tracciano una direttiva come comportarsi durante le persecuzioni e, infine, danno l'intonazione sul come lodare Dio [14].

    Nel libro dei salmi è possibile trovare la via del progresso per tutti e, per così dire, la medicina per la salute dell'uomo. Chiunque lo legga, ha di che potersi curare, con un rimedio specifico, le ferite del proprio male [15].

    Bisogna perciò farvi ricorso in ogni circostanza:

    Afferriamo dunque questi medicamenti per curare le nostre ferite! Che non capiti che, quando diciamo di essere in grado di curare gli altri, ci si dica: medico, cura te stesso! Facciamo dunque anche noi quel che comunemente fanno, non dico i medici, ma almeno la gente comune, tra cui pochi sono veri professionisti di medicina e moltissimi sostengono di conoscere qualche ricetta; o quel che fanno i garzoni dei medici: noi pure cioè dobbiamo offrire ai bisognosi il rimedio di un medicamento che non è di nostra invenzione [16].

    Nella stessa divisione in tre o cinque parti del Salterio (libro dei salmi) vi è sottesa un'allusione al suo valore terapeutico. Ilario, partendo dal significato simbolico del numero cinquanta, che sta a indicare la confessione e la remissione dei peccati, considera i salmi in tre cinquantine. La prima ha come scopo la liberazione dal peccato, la seconda esorta all'esercizio della virtù, la terza è una previsione della glorificazione dell'umanità nel regno di Dio [17].
    Gregorio di Nissa, sulla scia di Origene, intravede una struttura "tecnica" nella suddivisione pentapartita del libro dei salmi: si tratta di cinque tappe che bisogna percorrere per raggiungere la "beatitudine". Tale suddivisione, artificiosamente modellata sulla acclamazione finale, pressoché identica, di cinque salmi (40, 71, 88, 105, 150), offre lo spunto per fissare cinque tappe che conducono alla beatitudine, quasi altrettanti gradini sulla via della perfezione [18]. Collegata con la pentapartizione del libro del salterio è anche l'interpretazione "somatica" del salterio strumento musicale, il quale è strutturato come il corpo umano.

    Salterio a dieci corde è detto il corpo, poiché ha cinque sensi, e le cinque facoltà dell'anima che vengono stimolate dai singoli sensi [l9].

    Il parallelismo tra sensi fisici e sensi spirituali è assai ricorrente negli scritti di Origene e nella letteratura cristiana che a essi si ispira [20]. Nell'uomo esistono dieci sensi: cinque fisici e cinque spirituali. Il salterio è dotato di dieci corde: cinque esterne e cinque interne.

    Cinque libri e un solo salterio. Come l'uomo fisico è vivificato da cinque sensi e ancora cinque sono i sensi spirituali che formano la perfezione di questo nostro uomo nascosto nello spirito, l'uomo interiore, che è l'unico... È chiaro che cantava all'esterno e all'interno, con la voce e col cuore, dice il salmo (143, 9): Salmodierò a te sul salterio a dieci corde. Il salterio è dunque l'uomo perfetto in Cristo: in lui le opere delle armoniose virtù cantano una musica [21].

    Perché quindi si raggiunga la pienezza dell'uomo perfetto in Cristo è necessario che ci sia coerenza tra sensi fisici e sensi spirituali, come le corde esterne del salterio devono essere accordate con quelle interne perché possano emettere una musica armoniosa.

    Abbiamo un buon salterio, quando la vita è coerente con la fede, quando la carne è coerente con lo spirito, quando la volontà tende alla virtù. Questo è un dolce salterio, quando la regola di vita è un canto spiegato e si adempie la parola della Scrittura: "Chiara risuonerà la lingua dei muti" (Sal 48, 6) [22].

    Il salterio è uno strumento musicale munito di corde. Il nostro salterio è il nostro operare. Chiunque con le mani compie opere buone, inneggia a Dio col salterio [23].

    Il materiale e la forma del salterio, strumento musicale, alludono anche simbolicamente alla croce di Cristo, cui il credente deve continuamente conformare la propria vita. Il salterio è uno strumento di legno, la cui parte superiore è concava per far da cassa di risonanza; su di essa vengono tese le corde ricavate da nervi di animali [24].

    Nel salterio si stirano le corde... si crocifigge la carne... il salterio... vuole che tu prenda colui che ama il cantico nuovo, colui che per ammaestrarti ti rivolge queste parole: "Chi vuol essere mio discepolo, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua" (Mt 15, 24). Non abbandoni il suo salterio!... Si stenda sul legno e lasci seccare la concupiscenza della carne. Più i nervi sono tirati più acuti sono i suoni che emettono. Suonando dunque delle note assai acute il salterio dell'apostolo Paolo, cosa diceva? Dimentico delle cose passate, proteso verso quelle che mi sono davanti, corro verso la palma della superna vocazione (Gal 6, 14). Egli stirava se stesso, Cristo lo toccò e la dolcezza della verità emise dei suoni [25].

    Chiave interpretativa dei salmi

    Un'altra simbologia a cui si è fatto ricorso per rappresentare il libro dei salmi si rifà all'architettura urbanistica. Esso è costruito come una città o come un palazzo, con diversi alloggi, per accedere ai quali è necessario individuare la chiave giusta, tra quelle che sono ammucchiate alla rinfusa. Questa chiave è sia Cristo che lo
    Spirito santo.

    L'intero libro dei salmi è simile a una città bella e grande; le sue abitazioni sono numerose e diverse e le loro porte sono chiuse da chiavi particolari e differenti. Se queste vengono raccolte alla rinfusa in un posto, e chi vuole aprire qualche abitazione, se è inesperto, trova difficoltà, finché non individua la chiave di ciascuna casa; se ha familiarità conosce subito la chiave e la sceglie tra l'abbondanza della confusione e della varietà; oppure a grande fatica trova la chiave adatta e corrispondente per aprire l'ingresso dí ciascuna; perché la natura e il calcolo non permettono di adattare a differenti serrature le proprie chiavi [26].

    Il salterio è come un palazzo con una sola chiave esterna alla porta, nelle diverse stanze invece ha all'interno le chiavi proprie. Anche se la chiave più grande della porta è lo Spirito santo, tuttavia ciascuna stanza ha la propria chiave: così i singoli salmi sono come le singole celle che hanno chiavi proprie. La grande porta di questo palazzo è il primo salmo... Alcuni pensano che la chiave di questo salmo sia da riferirsi alla persona di Cristo Signore nostro [27].

    Cristo dunque è la chiave interpretativa dei salmi non soltanto per la intonazione profetica di cui sono dotati, ma anche per la loro intonazione sapienziale. Non sono cioè soltanto un preannuncio della vita terrena di Cristo, ma sono anche la sua stessa voce: egli, infatti, si è rivolto direttamente a David [28] e, attraverso di essi, continua a parlare di noi.

    Nei salmi è Cristo che parla costantemente, e costantemente parla di noi, così come noi parliamo di lui. Egli non ha voluto parlare separatamente, perché non ha voluto essere separato [29].

    I salmi sono voce di Cristo, non solo dal punto di vista storico, vale a dire che sono stati i testi della sua preghiera durante la sua vita terrena [30], ma sono un suo ripetuto e insistente invito nei nostri confronti, ai membri della chiesa e a tutti gli abitanti del mondo [31].
    I salmi sono anche voce dello Spirito santo perché ne è l'autore, essendo stato lui a comporli e a dettarli [32] e David li ha appresi direttamente, perché da lui ispirato [33]. Non si tratta di una voce del passato, ma essa è sempre attuale e anche noi possiamo ripeterli e trarne alimento per la nostra vita.

    Nei salmi lo Spirito non ci insegna l'arida storia, ma forma le nostre anime [34].

    In essi possiamo intendere la voce dello spirito di Dio più che la nostra, perché non potremmo dire quelle parole se egli non le avesse ispirate [35].

    Di conseguenza sono anche voce della chiesa, sia perché sono uno dei testi base della sua preghiera [36], sia perché si riferiscono alla sua santità [37]. E questo perché esiste una consonanza di voci: la voce di Cristo che si accompagna con quella della chiesa mediante l'azione dello Spirito [38]. Tale consonanza è stata feconda e creativa nel corso dei secoli. E a questo punto sarebbe necessaria una ulteriore indagine, che esula dall'economia del presente quaderno e dal limite che ci siamo imposti. Volutamente abbiamo fatto una scelta e abbiamo voluto offrire un ristretto campionario di testimonianze del passato, non come hobby archeologico, ma come provocazione per una lettura più integrale e personale.

    Una diversa attualizzazione

    I Salmi "in Cristo"

    L'accezione più propria di lettura cristiana dei salmi è di recitarli con la consapevolezza che essi, come ogni umana preghiera, raggiungono Dio solo perché sono portati da Gesù Cristo, solo perché camminano su quel ponte unico che è Gesù, che collega la sponda umana a quella divina. Senza Gesù il cammino dell'uomo verso Dio sarebbe impossibile. Gesù Cristo è il fondamento della nostra possibilità di andare a Dio perché è il fondamento posto da Dio stesso venendo a noi. Noi possiamo presentare la lode e la lamentazione al Padre solo attraverso Cristo e il suo Spirito (Ef 2, 1118; Rom 8, 26-27). Anche gli ebrei pregano i salmi "in Cristo". Chiunque reciti i salmi, in tanto prega davvero - lo sappia o no, lo voglia o no - in quanto cammina nel nuovo tempio che è il corpo di Cristo. Il cristiano aggiunge la consapevolezza di questo; cioè sapere e credere che Dio è venuto a me e io posso andare a lui solo tramite Gesù Cristo.

    Cristo (e l'uomo nuovo) oggetto dei salmi

    Si possono anche riferire a Cristo i salmi con una modalità di riferimento appropriata, ossia rispettando l'intenzionalità dei salmi, non snaturandoli, non portandoli a un significato accomodatizio o arbitrario.
    Il modo di lettura cristiana dei padri della chiesa è di riferire i salmi a Cristo in forma tipologica. L'interpretazione tipologica è quella che fa delle vicende, dei personaggi e dei precetti dell'antico testamento, nel suo complesso e nelle sue singole espressioni, una prefigurazione di qualcosa che avviene poi nella sua realtà in Gesù e nella chiesa. Figura-realtà: la figura non contiene ancora ciò che è nella realtà, ma ne contiene una immagine. Questa interpretazione tipologica, già presente nel nuovo testamento (come per esempio in 1 Cor 10), ha avuto nel medioevo vari livelli, fissati nel detto: littera gesta docet; quid credas allegoria; quid agas moralis; quo tendas anagogia. La lettera dell'antico testamento ci insegna i fatti, le vicende storiche; la allegoria, che è la loro applicazione alla vita di Gesù, ci dice ciò che dobbiamo credere, cioè il suo mistero; la morale ci insegna come dobbiamo comportarci; la anagogia ci indica dove tende la nostra speranza: la visione di Dio. C'è dunque un senso letterale dell'antico testamento; e ci sono tre sensi spirituali o tipologici: allegorico, morale, anagogico. Il primo è la "figura", gli altri sono la "realtà". (Le tre domande fondamentali di Kant: che cosa posso sapere? che cosa devo fare? che cosa mi è lecito sperare? non sono che una trasposizione laica di questi tre sensi biblici "reali").
    Ora, la lettura tipologica mangia o risucchia l'antico testamento nel nuovo. L'AT perde la sua consistenza, non è più un insieme di esperienze religiose, etiche, di fede che hanno un loro valore in sé e per sé e non possono essere considerate semplici figure di un'altra realtà. La lettura tipologica dissolve l'antico testamento: questo è il suo pericolo, se non addirittura difetto ineludibile. Il ritorno a questa esegesi patristica - proposto da Daniélou, De Lubac e altri - non è praticabile se non con un forte senso critico. Questo non toglie che sia possibile un'altra strada, già presente in s. Tommaso: lettura del sensus plenior. Il nuovo testamento in molti punti costituisce il "senso pieno" dell'antico testamento: quest'ultimo è formato da esperienze e realtà che, pur avendo già una loro consistenza e ricchezza spirituale, trovano il loro compimento in Gesù. Sulla linea del senso pieno è possibile una lettura cristiana dei salmi che ne rispetti il tenore originario - la spiritualità ebraica che in essi vive - e insieme lo purifichi e lo potenzi. Sal 22 o i salmi dí lamentazione: coloro che hanno recitato questi salmi non furono soltanto una figura di Gesù in croce. Ogni volta che il salmo è stato recitato, quella recitazione ha avuto una sua consistenza propria, che non era semplice profezia di una realtà a venire. Quando Gesù l'ha recitato, l'ha recitato come uno dei tanti poveri, sofferenti, abbandonati da Dio. Però quella povertà e quella sofferenza hanno raggiunto in lui una pienezza che nessun altro ha mai raggiunto. Allora il salmo 22 in Gesù crocifisso raggiunge il suo senso pieno. Nell'abbandono di Gesù è presente in qualche modo il fallimento dell'intera umanità verso Dio. Gesù è il maledetto, la personificazione del peccato. Gesù è supremamente abbandonato. Il rapporto tra l'esperienza dei poveri che hanno recitato il salmo 22 e l'esperienza di Gesù in croce è un rapporto da realtà parziale a realtà completa. (Questa lettura dei salmi riferendola a Cristo non è forse possibile per tutti i salmi, ma certo per molti).
    Ancora un'osservazione: Gesù diventa il Cristo, risorge e viene accolto nella gloria del Padre proprio perché è il povero, il giusto sofferente. Allora Gesù diventa il fondamento della possibilità di recitare i salmi, proprio perché è stato il loro compimento. C'è relazione tra recitare i salmi "in Cristo" e recitarli riferendoli a Cristo: in questo riferimento, che vede in lui il giusto e il Messia sofferente, si esplicita la fonte di quello Spirito in cui la preghiera dei salmi può giungere veramente fino al Padre.
    Ma non è soltanto Gesù a costituire il sensus plenior dei salmi; è anche l'uomo nuovo, cioè l'uomo - individuo o collettività - che nasce dalla croce e risurrezione di Gesù. Quest'uomo nuovo non è soltanto íl cristiano, né la sua forma collettiva soltanto la chiesa, ma la persona umana e l'intera umanità viste nello spazio della redenzione. Allora i salmi subiscono un inveramento, che avviene in direzioni diverse. Ne indichiamo due.

    La universalizzazione. Diversi salmi sono legati a situazioni particolari, da cui vanno liberati nella nostra preghiera. Per esempio: lì dove parla Israele e parla dell'amore di Dio per Israele, dell'elezione di Dio per Israele, noi abbiamo il diritto di pensare a tutta l'umanità, perché l'elezione di una parte esprime la qualità eletta del tutto. L'umanità è stata chiamata da Dio a una vocazione che non è nelle possibilità dell'umanità stessa, e la rivelazione di questa vocazione universale alla qualità eletta (cioè alla comunione con Dio) è stata detta scegliendo una parte dell'umanità, Israele.
    Altro elemento di universalizzazione: il povero che si trova in una situazione di carenza'. L'essenzialé del movimento della supplica non è lo specifico della condizione di povertà (calunnia, esilio, malattia...) ma che essa sía la condizione di povertà. Il salmo di lamentazione è quindi legittimamente trasferibile su ogni condizione di povertà, individuale o sociale, economica o culturale o affettiva o altro.
    Il secondo processo di inveramento dei salmi (ossia il portare il salmo alla sua pienezza di verità umana) è quello della purificazione. Nei salmi imprecatori (che, non dimentichiamolo, non sono espressioni di vendetta individuale ma richieste di intervento della giustizia divina: cf. sopra) è già in nuce l'idea del perdono: dalla volontà che sia cancellato il peccatore all'aspirazione che sia cancellato il peccato c'è un cammino di purificazione lungo ma non impossibile.
    Altro esempio: il rapporto tra giustizia e vita sembra applicato, in più d'un salmo, meccanicamente: sono felice perché sono giusto - sono malato ecc. perché sono peccatore. Questo principio di alleanza e di sapienza va anch'esso purificato; e la lettura "cristiana" del salmo è chiamata a farlo. Recitare i salmi e dire che il giusto fiorirà come palma è continuare a credere che l'unico nostro modo di far prosperare il mondo è di essere giusti, di non accettare l'illusione di poter creare prosperità di qualunque tipo attraverso l'irresponsabilità. Questa linea di purificazione dei salmi non dice che la verità del salmo è quella di trasferire il frutto, il premio, lo shalom dalla terra al cielo; la purificazione del salmo è continuare a credere che la nostra giustizia fruttifica già in questo mondo, ma rinunciando a calcolarne i risultati.

    Cristo (e la verità dell'uomo) soggetto dei salmi

    I salmi sono la nostra preghiera vera, non vogliono essere la nostra preghiera spontanea. La preghiera vera esprime quello che noi siamo aldilà di quello che percepiamo di noi stessi. E la preghiera in cui non si fa voce il nostro stato d'animo del momento, ma in cui prende voce la nostra realtà sostanziale, quello che noi siamo di fronte a Dio e in mezzo ai fratelli. Qual è la nostra verità? Possiamo definirla secondo le tre dimensioni spaziali: la profondità, o la nostra condizione esistenziale di fondo; la lunghezza, o la nostra appartenenza alla tradizione; l'ampiezza, o la nostra appartenenza all'umanità contemporanea. Secondo ognuna di queste dimensioni Cristo è "la verità dell'uomo", e i salmi sono l'espressione di questa verità.

    a) I salmi esprimono la nostra verità secondo la dimensione di profondità. Noi nel profondo siamo contemporaneamente peccatori e giusti, alienati e redenti, immersi in un mondo sconnesso ma attraversato dallo Spirito creatore e dal Risorto. E il fatto di appartenere a un mondo peccatore e redento è la nostra più profonda verità, aldilà di quello che sentiamo di noi stessi.
    Il soggetto dei salmi è il povero. Ma la povertà attuale, nelle varie sue forme, è l'emergenza dí quella povertà radicale che noi siamo come creature e che abbiamo ulteriormente scavato come peccatori.
    Ora, Gesù ha preso su di sé anche e soprattutto questa povertà: si è incorporato il nostro peccato per incorporare in noi la sua giustizia (2 Cor 5, 21). Egli è, per primo, simul peccator et iustus: peccatore in quanto rappresentante nostro, giusto nella sua personale libertà. Noi siamo peccatori per l'appartenenza alla storia umana di peccato, giusti perché rinnovati da quella sua libertà: siamo poveri e graziati.
    Dunque i salmi, nella loro componente principale di lamentazione e di ringraziamento/lode, danno espressione a questa condizione ambivalente, che è la nostra verità profonda e la presenza di Gesù Cristo in noi.

    b) I salmi esprimono la nostra verità nella dimensione della lunghezza. Noi siamo dentro la tradizione, dentro una trasmissione di testimonianze di lettura e interpretazione e di pratica dei salmi che è parte essenziale di ciò che i salmi sono. Recitare i salmi non è solo recitare un testo che già in se stesso ha una ricchezza di esperienza spirituale e di espressività estetica, ma è anche recitare un testo carico di tutte le recitazioni già fatte. Noi sappiamo di essere dentro questo fiume di recitazioni che va dai poveri dell'antico testamento alla chiesa primitiva, dai monaci alle comunità cristiane odierne. E sappiamo che il punto più vivo e luminoso di questa tradizione salmodica è Gesù. Se egli è il "senso pieno" dei salmi, il loro oggetto più alto, non è soltanto perché nella sua vicenda di crocifisso e risorto si rispecchia oggettivamente la situazione di tutti i poveri che nei salmi hanno gemuto e cantato, ma anche e soprattutto perché quei loro salmi sono passati attraverso la sua coscienza, sono usciti anche dalle sue labbra. Prima della "lettura" cristologica deí salmi, che comincia con la chiesa, c'è la loro "fattura" cristologica, che viene operata da Gesù. Recitare i salmi è sfilare nella processione degli oranti di tutta la tradizione ebraico-cristiana, di cui Gesù è fulcro e snodo; è pregare "in persona Israelis, in persona Christi, in persona ecclesiae". La storia dei salmi è la nostra storia; recitandoli noi diciamo questa verità come appartenenza a questa storia.

    c) I salmi esprimono la nostra verità nella dimensione di ampiezzaTutto il mondo è contemporaneamente peccatore e giusto, tutto il mondo è sotto il segno del peccato e della redenzione. I salmi non devono esprimere la nostra spontaneità ma la nostra verità: qui vuol dire che i salmi non li preghiamo per noi stessi, per la nostra piccola biografia, ma per il nostro essere inseriti in un mondo di sofferenza e di redenzione. Per una corretta pratica dei salmi non bisogna cercare in essi prevalentemente ciò che essi possono dire alla nostra "vita spirituale", la risonanza che possono dare a noi per nutrirci di spunti meditativi. Tutto questo può esserci o non esserci; meglio, tutto questo ci sarà dato "in sovrappiù". Nei salmi deve prendere voce ogni grido e ogni canto che risuona, oggi, sulla faccia della terra. Nel salmo di lamentazione deve parlare ogni malato, ogni affamato, ogni emarginato, ogni torturato; anche e soprattutto chi nella sua malattia, fame, emarginazione, tortura, non conosce la possibilità della preghiera. Il nostro salmo dev'essere il luogo in cui il suo gemito, forse la sua bestemmia, viene transustanziato in preghiera.
    E così per ogni amicizia, per ogni festa, per ogni nascita, per ogni liberazione: il salmo di azione di grazie e di lode deve trasformare la vita che zampilla e canta in inno al Dio della vita.
    E anche tutto questo avviene in compagnia di Gesù Cristo e passando per lui, perché «attraverso lui sale a Dio il nostro Amen per la sua gloria» (2 Cor 1, 20).


    NOTE

    1 R. Falsini, Pregare con i salmi: per una "lettura" cristiana e liturgica, in AA.VV., Esperienza cristiana della preghiera, Milano 1978, p. 49. Nella presente ricerca abbiamo tenuto presenti le riflessioni e le conclusioni di B. De Margerie (Introduzione alla storia dell'esegesi, Roma 1983-1986, 3 voll.) e di M. Pellegrino (La preghiera dei salmi in s. Agostino, ed. Qiqajon, comunità di Bose, 1984).
    2 Clemente Alessandrino, Stromati 1, 1, 8. Questa è l'interpretazione di A.G. Hamman, I cristiani del secondo secolo, Milano 1973, p. 276.
    3 Basilio, Lettera 207, 3.
    4 Agostino, Confessioni 9, 6, 14-7, 15. Girolamo, Lettera 108, 20 ci ragguaglia dell'uso liturgico dei salmi in Palestina, in ambiente monastico.
    5 Cf. ad esempio, Giovanni Crisostomo, Omelia sul salmo 41, 1 e Girolamo Lettera 108, 20.
    6 Col nome di catene, nella letteratura cristiana si indicano le raccolte di passi esegetici a un libro della Scrittura ordinati insieme da compilatori tardivi, che dedussero da opere esegetiche precedenti andate perdute. Il primo commentatore del libro dei salmi è Origene. Nel 222 ad Alessandria fece un primo parziale tentativo, che riprese a Cesarea verso il 244, anche questa volta in modo parziale. Alla fine, non avendo potuto portare a termine la sua monumentale opera redasse delle brevi note su tutto il salterio (Excerpta). Nel quarto secolo, verso il 330, Eusebio di Cesarea seguì le tracce del maestro alessandrino, ereditandone l'erudizione, ma non il genio religioso. Atanasio, in data incerta, in una lettera a Marcellino indica le linee interpretative dei salmi, mettendone in risalto il contenuto, il carattere messianico e la bellezza, e raccomandandone l'uso. Sulla scia di Eusebio si situa Basilio di Cesarea: prima del 370 pronunciò una serie di tredici omelie. Non si tratta di un commento organico e unitario, bensì una proposta di meditazioni occasionali. Sulla linea di Origene, invece, si colloca Gregorio di Nissa (335/340-379), in due saggi sui titoli dei salmi sviluppa l'idea che i salmi costituiscono una via verso la perfezione. In occidente Ilario di Poitiers, dopo l'esilio in oriente compone un suo commento: il progetto prevedeva l'esegesi dell'intero salterio, ma si è fermato al salmo 50. Sempre in occidente, Ambrogio di Milano aveva prodotto una spiegazione di dodici salmi, scaturita da una scelta intenzionale, e perciò non organica, mentre più sistematica è la spiegazione del salmo 118. Nella sua esegesi, Ambrogio segue la linea origeniana. Contemporaneamente in oriente, Giovanni Crisostomo, dedicò ai salmi una serie di omelie scaglionate nel tempo; la serie è incompleta, è stato tramandato il commento a soli cinquanta salmi. I trattati sui salmi di Girolamo, sono un accomodamento latino delle note di Origene: risalgono a dopo il 400. Anche nel suo epistolario a più riprese Girolamo propone dei criteri interpretativi e di lettura dei salmi.
    Di Agostino invece è l'opera più maestosa e profonda: le Enarrazioni sui salmi: si tratta di una serie di omelie pronunciate durante la sua attività pastorale.
    7 Girolamo, Lettere 107, 12; 128, 4; 107, 4. Un'analoga esortazione si riscontra anche in Basilio, Lettera 42, 3: «Non essere uno che rallegra le compagnie; non amare la campagna né la città, ma la solitudine, rimanendo sempre immutato in te stesso, ritenendo come tua attività precipua la preghiera e il canto dei salmi».
    8 Atanasio, Lettera a Marcellino, 11.
    9 Ilario, Esposizione sui salmi, prologo 5.
    10 Ambrogio, Spiegazione del salmo, 1,
    11 Ilario, cf. nota 9.
    12 Cassiano, Conferenze 20, 11.
    13 Basilio, Omelia sul salmo 1, 1.
    14 Atanasio, o. c. 10; Gregorio Nisseno, I titoli dei salmi 1, 3, 9; Ambrogio, Spiegazione del salmo 1, 10.
    15 Ambrogio, Spiegazione del salmo 1, 6.
    16 Ambrogio, Spiegazione del salmo 36, 3.
    17 Ilario, o. c., prologo 10-11. Nelle tre cinquantine intravede ancora il regno terrestre, il regno celeste del Figlio e il regno eterno del Padre.
    18 Gregorio Nisseno, o, c. 1, 5-8.
    19 Origene, Sul salmo 32, 2. Agostino, a più riprese, propone una sua interpretazione del salterio e delle sue funzioni. Cf. Enarrazione sul salmo 32, 11, 1. Clemente Alessandrino (Pedagogo 2, 4, 43, 3) commentando Sal 32, 1-3 afferma che «il salterio a dieci corde può significare il Logos Gesù poiché egli è indicato con la lettera della decina». L'iniziale greca del nome di Gesù (lesoas), è anche segno numerico che equivale a 10.
    20 Su questo argomento, cf. M. Todde, La spiritualità del corpo nella tradizione patristica orientale, in Servitium 17 (1983) pp. 50-53.
    21 Ambrogio, Spiegazione del salmo 40, 39-40.
    22 Ambrogio, Spiegazione del salmo 42, 7.
    23 Agostino, Enarrazione sul salmo 91, 3.
    24 Agostino, Enarrazioni sui salmi 32, 2, 1, 5; 56, 16; 70, 2, 11.
    25 Agostino, Enarrazione sul salmo 149, 8.
    26 Ilario, Esposizione sui salmi, prologo 24. Origene riferisce la simbologia a tutte le Scritture.
    27 Girolamo, Trattati sui salmi, prologo. Il medesimo pensiero viene esposto dallo stesso Girolamo nella sua omelia per il giorno di pasqua, dove, leggendo in parallelo Sal 117, 19 con Ap 3, 7, afferma che Cristo è la chiave di David.
    28 Ambrogio, Spiegazione del salmo 38, 2.8.12.
    29 Agostino, Enarrazione sul salmo 56, 1.
    38 Numerosi sono i riferimenti patristici in questo senso, anche se talvolta si è avuto un certo timore a porre sulle labbra di Cristo le parole dei salmi che esprimono una sofferenza interiore.
    31 Origene, Sul salmo 48.
    32 Atanasio, o. c. 12; Ilario, Esposizione sul salmo 138, 1.
    33 Gregorio Nisseno, o.c. 2, 10.
    34 Gregorio Nisseno, o.c. 2, 11.
    35 Agostino, Enarrazione sul salmo 26, 1.
    36 Basilio, Omelia sul salmo 1, 3.
    37 Ilario, Esposizione sul salmo 131, 11.
    38 Agostino, Enarrazione sul salmo 32, 6.


    PER UNA LETTURA SPIRITUALE DEL SALTERIO

    Guida bibliografica

    «Questa è una delle ricompense di essere uomini: la serena esaltazione, la capacità di celebrare Dio. È bene espressa in una frase che rabbì Akiba ha offerto ai suoi discepoli: Un canto ogni giorno, un canto per ogni giorno». Le parole J.A. Heschel possono quasi fare da sigla al Salterio come libro della preghiera della sinagoga e della chiesa. Il fedele e la comunità ogni giorno esprimono il loro essere uomini, cioè l'essere creature in dialogo con l'eterno e il mistero, attraverso la lode e la supplica che per l'ebreo e il cristiano hanno il loro testo privilegiato nella collezione dei tehillîm, "le lodi", cioè i Salmi. Per rendere queste 150 liriche canto orante quotidiano è necessario uno sforzo di comprensione del testo, della sua poesia, delle sue connotazioni: non per nulla Lutero affermava che «il grammaticale è il primum teologico». È, quindi, indispensabile penetrare nei segreti e nei meandri della pagina biblica attraverso sussidi e guide che ormai anche l'editoria italiana offre con estrema abbondanza. Eccone solo una selezione organica e motivata.

    I commentari

    Indispensabile è il riferimento ad un commento scientificamente corretto: solo così è possibile evitare nella lettura spirituale salmica ogni sbavatura misticoide e ogni vaneggiamento fondamentalista. Alcuni commenti poi sono attenti anche alla dimensione "attualizzante" ed "esistenziale". Tra costoro ne indichiamo tre come degni di rilievo e come dotati anche di una serie di indicazioni applicative:
    - A. Deissler, I Salmi. Esegesi e spiritualità, Città Nuova, Roma 1986.
    - G. Ravasi, Il Libro dei Salmi, 3 voll., Dehoniane, Bologna 198184 (dello stesso autore I Salmi, BUR, Rizzoli, Milano 1986).
    - A. Weiser, I Salmi, 2 voli., Paideia, Brescia 1984.
    Più semplificati o meno attenti a questa dimensione sono questi tre altri commenti integrali in lingua italiana:
    - G. Barbaglio - L. Commissari - E. Galbiati, I Salmi, Morcelliana, Brescia 1972.
    - G. Castellino, Libro dei Salmi, Marietti, Torino 1955.
    - A. Lancellotti, Salmi, Edizioni Paoline, Roma 19842.
    Un volume di particolare suggestione per le sue fini analisi letterarie che si aprono a orizzonti spirituali molto intensi è quello che un esegeta del Pontificio Istituto Biblico di Roma, L. Alonso Schökel, ha dedicato a una trentina di salmi:
    - L. Alonso Schökel, Trenta salmi: poesia e preghiera, Dehoniane, Bologna 1982.

    Commenti spirituali

    Alcuni testi si collocano direttamente sul versante spirituale, senza per questo dimenticare che esso deve fiorire dal tenore originale della pagina biblica. Naturalmente non mancano anche tentativi troppo liberi e indipendenti dal testo primigenio o vagamente spiritualistici o eccessivamente "cristiano-centrici". È il caso del fortunato ma molto esile e superficiale:
    - S. Rinaudo, I Salmi. Preghiera del Cristo e della Chiesa, LDC, Leumann (TO) 1973 (I ed. 1966).
    Abbastanza generico, anche se con qualche spunto felice, è anche
    - N. Quesson, Il messaggio dei Salmi, 2. voll. Borla, Roma 1979- 80
    Il commento ai singoli salmi è costantemente scandito in tre fasi: lettura con Israele, lettura con Gesù, lettura col nostro tempo.
    Talora la tensione spirituale può emergere dalla fragranza del testo nudo o circondato da poche e spoglie annotazioni. E il caso di:
    - D.M. Turoldo - G. Ravasi, Lungo i fiumi... I Salmi, Edizioni Paoline, Cinisello B. (MI) 19882.
    La straordinaria resa poetica di Turoldo fa splendere il testo in tutti i suoi bagliori, facendo intravedere orizzonti di infinito e rivelando tutta la tavolozza dei sentimenti dell'orante antico e moderno che segue il Salterio e il suo filo poetico e spirituale. Una breve e allusiva chiave di lettura iniziale, il sobrio commento, la dossologia e la preghiera finale trasformano ogni salmo in una stupenda celebrazione di lode e di luce, ma anche in un appello vigoroso e provocatorio all'esistenza.
    Altri sussidi, invece, si presentano più in forma antologica, selezionando gruppi di salmi per una prima lettura del Salterio. Segnaliamo innanzitutto un ottimo volume:
    - R. Lack, Mia forza e mio canto è il Signore, Edizioni Paoline, Roma 1981.
    Il testo commenta tutti i salmi e i cantici della liturgia delle lodi e dei vespri articolando l'analisi lungo tre traiettorie seguite sempre con estrema finezza e rigore: il "genere letterario", l'"analisi poetica e letteraria", la "lettura cristiana e attualizzazione". Un'altra suggestiva antologia è quella di:
    - P. Beauchamp, Salmi notte e giorno, Cittadella, Assisi 1983.
    Vi si rivelano le dimensioni teologiche segrete dei carmi salmici e la loro forza di suggestione e di provocazione, soprattutto sulla base della loro simbolica. Una serie di antologie salmiche è anche quella preparata da chi scrive questa nota:
    - G. Ravasi, I Salmi, Ancora, Milano 19874 (32 salmi).
    - Idem, Ti amo, Signore, mia forza, O.R., Milano 1979 (30 salmi).
    - Idem, Pregare con i Salmi, Dehoniane, Bologna 1978 (30 salmi).
    - Idem, È festa. Preghiamo con i Salmi, Paoline, Cinisello B. (MI) 1987.
    Quest'ultimo testo propone sul filo dell'anno liturgico per ogni domenica e festa cristiana le strofe più intense dei Salmi seguite da una breve meditazione. Talora è possibile avere anche un solo salmo come oggetto di ampia riflessione: è il caso del celebre Miserere meditato dal card. Martini durante una delle sue scuole della Parola nel Duomo di Milano:
    - C.M. Martini, La Scuola della parola. Riflessioni sul salmo "Miserere", Mondadori, Oscar, Milano 1985.

    Guide alla preghiera salmica

    L'editoria italiana ha prodotto, su impulso del concilio Vaticano II, una sequenza molto varia di sussidi destinati a introdurre il fedele nel mondo della preghiera salmica soprattutto perché la Liturgia delle Ore e l'introduzione del "salmo responsoriale" nella liturgia della Parola avevano dischiuso a tutti questi mirabiles precum thesauri ("tesori mirabili di preghiera") come la Dei Verbum ha definito i Salmi (n. 15). Alcune di queste guide sono molto elementari, orientate verso il pubblico più vasto possibile, come nel volumetto di:
    - C.M. Martini, Che cos'è l'uomo perché te ne curi? Pregare con i Salmi, LDC, Leumann (TO) 1983.
    Altre, invece, sono più approfondite come nell'opera di:
    - E. Beaucamp, Israele in preghiera. Dai Salmi al Padre Nostro, Borla, Roma 1986.
    Qui l'autore, che ha al suo attivo anche un bel commento al Salterio in francese, legge il Padre Nostro alla luce dei salmi e interpreta i salmi sulla scia delle parole del Cristo. Si attua, così, un intreccio interessante tra la preghiera dell'antico Israele fedele e quella dell'Israele che in Cristo loda il Padre. Altro testo, molto ampio e prezioso per una rilettura spirituale del Salterio è quello di:
    - D. Cox, I Salmi incontro con il Dio vivente, Ed. Paoline, Cinisello B. (MI) 1986.
    Il Salterio è il luogo ideale per l'incontro personale, comunitario, teologico e affettivo, tra l'uomo e Dio. A un livello più "tecnico", anche se non specialistico, si pongono altre introduzioni di:
    - G. Ravasi, La spiritualità del Salterio, in AA.VV., La spiritualità dell'Antico Testamento (a cura di A. Bonora), Dehoniane, Bologna 1987, pp. 275-327.
    - Idem, I canti di Israele, Dehoniane, Bologna 1986, pp. 131-222.
    Più essenziali e più agevoli sono, invece, queste introduzioni preparate da esegeti che hanno alle spalle talora già commenti o saggi sul Salterio:
    - A. George, Pregare i Salmi, Queriniana, Brescia 1971.
    - M. Mannati, Per pregare con i Salmi, Gribaudi, Torino 1978.
    - M. Masini, I Salmi. Preghiera di un popolo in cammino, Queriniana, Brescia 1982.
    - C. Westermann, I Salmi, preghiera di sempre, Marietti, Torino 1973.
    Più generica è, invece, l'"introduzione" di un notissimo scrittore di testi spirituali legati alla bibbia:
    - D. Barsotti, Introduzione ai Salmi, Queriniana, Brescia 1985. ,94 [ 214 ]

    La lettura patristica

    «Psalterium meum, gaudium meum!». Quest'esclamazione di Agostino esprime l'entusiastica adesione della spiritualità e della teologia patristica al Salterio. Agostino, come è noto, ha dedicato ai Salmi un numero immenso di pagine e una serie monumentale di Enarrationes in Psalmos, disponibili anche in un'ottima edizione italiana con testo latino a fronte:
    - Agostino, Esposizioni sui Salmi, Città Nuova, Roma 1967-77 (4 voll.).
    A chi volesse gustare qualche frammento dell'esegesi spirituale sul Salterio di Agostino senza ricorrere a grosse edizioni critiche suggeriamo invece la piccola antologia:
    - I Salmi pregati da S. Agostino, Ed. Paoline, Cinisello B. (MI) 1986.
    Un altro grande padre, maestro di Agostino, è Ambrogio. Della sua lettura dei salmi è disponibile in un'ineccepibile edizione italiana con testo a fronte il commento al Sal 118 (119), il più lungo del Salterio, e a dodici altri salmi:
    - Ambrogio, Commento al Salmo 118, 2 voll., Città Nuova - Biblioteca Ambrosiana, Roma-Milano 1987.
    - Idem, Commento a Dodici Salmi, 2 voll., ibidem 1981.
    Per una lettura sistematica dei salmi in compagnia dei padri è indispensabile:
    - J.-C. Nesmy, I Padri commentano il Salterio della Tradizione, Gribaudi, Torino 1983.
    nel quale ogni versetto dei Salmi è accompagnato da brani o sintesi di testi dei vari Padri occidentali e orientali. Sapendo poi che il testo biblico su cui si è formata la tradizione cristiana è quello della versione greca dei Settanta c'è anche una versione italiana commentata di quel Salterio greco:
    - L. Mortari, Il Salterio della Tradizione, Gribaudi, Torino 1983. [ 215 ] 95
    Tuttavia bisogna ricordare che quella del Salterio è la peggiore di tutte le traduzioni che i Settanta hanno fatto sulla bibbia ebraica e perciò dev'essere usata con cautela e con un continuo riferimento alle edizioni modellate sull'originale ebraico.
    le grandi meditazioni
    Concludiamo il nostro itinerario bibliografico con un cenno a tre grandi figure cristiane moderne che hanno attinto al Salterio per le loro meditazioni. La prima è quella di R. Guardini che ha lasciato 14 meditazioni su 13 salmi (due per il Sal 148):
    - R. Guardini, Sapienza dei Salmi, Morcelliana, Brescia 1976.
    La sua è una lettura "sapienziale" incentrata sul mistero di Dio che nell'orazione e nella contemplazione è svelato all'orante. Diversa è, invece, la prospettiva adottata dal teologo G. Ebeling che cerca in alcuni salmi la loro forza dirompente. Suggestive sono, così, le note sul Dio che ride contro i nemici del suo re-Messia (Sal 2, 4) o quelle sui salmi dei "privi di Dio" (ad es., Sal 14):
    - G. Ebeling, Sui Salmi, Queriniana, Brescia 1973.
    L'ultima testimonianza a cui vogliamo riferirci è quella, sempre straordinaria, di D. Bonhoeffer, il teologo martire nei campi di concentramento nazisti:
    - D. Bonhoeffer, Pregare i Salmi con Cristo, Queriniana, Brescia 1985.
    Ed è con una parola di Bonhoeffer che concludiamo, invitando a aprire e a pregare col Salterio sulla scia della sua indicazione:

    Si rimane sorpresi a prima vista che nella bibbia vi sia un libro di preghiere. La bibbia non è infatti tutta una parola di Dio rivolta a noi? Ora le preghiere sono parole umane e allora come possono trovarsi nella bibbia? Se la bibbia contiene un libro di preghiere, dobbiamo dedurre che la parola di Dio non è soltanto quella che egli vuole rivolgere a noi ma è anche quella che egli vuole sentirsi rivolgere da noi.


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