Fragilità, una risorsa
per restare umani
Bruno Meucci
Riconoscere le proprie fragilità è sempre stato un problema e lo diventa ancora di più in una società che ci vuole tutti perfetti. Esplorando le dinamiche che portano a negare le proprie debolezze e inadeguatezze, si comprende invece come la fragilità possa rivelarsi una risorsa necessaria per rendere migliore la vita di ognuno di noi e della società.
La fragilità come problema
«Sento forte il desiderio di svelare la mia fragilità, di mostrarla a tutti coloro che mi incontrano, che mi vedono, come fosse la mia principale identificazione di uomo in questo mondo. Un tempo mi insegnavano a nascondere le debolezze, a non far emergere i difetti, che avrebbero impedito di far risaltare i miei pregi e di farmi stimare. Adesso voglio parlare della mia fragilità, non mascherarla, convinto che sia una forza che aiuta a vivere». Così scriveva diversi anni fa Vittorino Andreoli, il celebre psichiatra, in un bel libro dal titolo L'uomo di vetro. La forza della fragilità (Rizzoli, Milano 2008). Viene un tempo, nella vita di ogni uomo, in cui bisogna imparare a convivere con le proprie fragilità, accettandole. E magari, come scrive Andreoli, scoprire come esse non siano qualcosa di cui vergognarsi, bensì una risorsa per vivere meglio con sé stessi e con gli altri. Da giovani combattiamo contro le nostre debolezze, nascondiamo i nostri difetti. Ci comportiamo come i nostri lontani cugini, gli oranghi, che si battono il petto per mostrare ai nemici quanto siano forti. Per mascherare difetti e paure, facciamo nostro il modello dell'uomo (e della donna) sicuro e compiaciuto di sé, di un uomo invincibile che, come recitava una nota pubblicità televisiva, non deve chiedere mai. Impariamo presto che la nostra timidezza è un handicap, la sensibilità rende vulnerabili, e che farsi rispettare significa imporre la propria volontà con determinazione e prepotenza. Fin da ragazzi ci insegnano che la vita è una competizione e che gli altri sono avversari da battere. La vita è una giungla, ci ripetono, mostra più grinta, colpisci prima di essere colpito, non aver paura di farti avanti, sgomita più che puoi, senza farti troppi scrupoli. Perché c'è anche la giustificazione morale: stai sicuro che gli altri farebbero lo stesso con te. E così impariamo a nascondere i nostri difetti, le nostre inadeguatezze, cercando ogni giorno di corrispondere all'immagine della persona forte, sicura, soddisfatta, a proprio agio nella vita. La nostra società ci vuole belli e fisicamente perfetti, bravi nello studio, abili nello sport, efficienti sul lavoro, a proprio agio nelle relazioni sociali, soddisfatti nella vita amorosa, in una parola sempre e comunque vincenti, quando sappiamo benissimo che non è così.
Andando avanti con gli anni, poi, il nostro corpo diventa più fragile, la mente più lenta, e per quanto cerchiamo di nascondere il più possibile gli effetti dell'invecchiamento, non li possiamo nascondere a noi stessi. A volte una grave malattia ci costringe all'inattività e ci toglie la possibilità di fare tutte quelle cose che facevamo prima. La morte di un conoscente o di una persona cara ci portano il triste annuncio che niente è per sempre in questa vita. Allora siamo posti di fronte ai nostri limiti, alla nostra fragilità di esseri umani. Siamo costretti a prendere atto che la fragilità non è un incidente di percorso, un pericolo che si può cercare di evitare, ma è parte costitutiva della condizione umana, caratterizzata dal limite, dalla finitezza e dalla morte. «L'uomo – scriveva Pascal nel suo frammento forse più conosciuto – non è che una canna, la più debole della natura, ma è una canna che pensa. Non serve che l'universo intero si armi per schiacciarlo; un vapore, una goccia d'acqua è sufficiente per ucciderlo» (Pensieri, 186). Pascal insisteva su un genere speciale di grandezza (il pensiero) che consiste – ed è questo il paradosso della condizione umana –nella consapevolezza della propria fragilità o, per usare il termine pascaliano, della propria miseria. Il virus contro cui stiamo combattendo sta ricordando al mondo intero che, nonostante i progressi nei campi della scienza e della medicina, l'uomo è un essere fragile in balia delle forze della natura. E che sono sempre i soggetti più deboli a subire le conseguenze peggiori delle calamità naturali o delle crisi economiche e sociali: gli anziani, le donne, i giovani, i malati. La pandemia, inoltre, ha tolto il velo che teneva nascosta la debolezza del nostro sistema sociale, sanitario, economico, amministrativo. All'improvviso ci siamo resi conto che siamo soggetti fragili che vivono in sistemi sociali estremamente fragili. E che non possiamo farcela da soli, ma dobbiamo prenderci cura della nostra fragilità e di quella degli altri, perché tutti abbiamo bisogno di aiuto. E così, sembrerebbe evidente che al posto dell'individualismo e della competizione sociale – esaltati dal modello neoliberista e ora rilanciati dai sovranismi e dai nazionalismi solleciti verso i propri concittadini, ma indifferenti alla sorte degli altri – dovrebbero subentrare atteggiamenti e politiche ispirati alla compassione e alla solidarietà verso tutti, specialmente i più deboli. Ricordiamo l'ultimo messaggio della poesia di Leopardi che ci insegnavano a scuola? Nella Ginestra il poeta di Recanati affermava che di fronte al dolore e all'incertezza della condizione umana, esposta ai colpi di una natura indifferente, ci può essere una sola risposta: formare una «social catena» tra gli uomini riconoscendo di essere tutti accomunati dal medesimo destino. Insieme uniti possiamo fronteggiare meglio le sventure, aiutandoci gli uni gli altri, prendendoci cura a vicenda delle nostre fragilità. Da sempre, infatti, l'umanità ha combattuto la dura lotta contro i limiti dell'esistenza facendo ricorso alla collaborazione, al gioco di squadra, perché nessuno, veramente, può salvarsi da solo. È quello che ha voluto ricordare anche papa Francesco nella sua ultima enciclica Fratelli tutti dove cogliamo innanzitutto la sua forte preoccupazione per l'arresto di quel cammino di integrazione e di cooperazione internazionale che aveva caratterizzato la politica del secondo dopoguerra. «Un progetto con grandi obiettivi per lo sviluppo di tutta l'umanità oggi suona come un delirio. Aumentano le distanze tra noi, e il cammino duro e lento verso un mondo unito e più giusto subisce un nuovo e drastico arretramento» (Fratelli tutti, n. 16). La società sempre più globalizzata – scrive ancora il papa, citando Benedetto XVI – ci rende vicini, ma non ci rende affatto fratelli: «Siamo più soli che mai in questo mondo massificato che privilegia gli interessi individuali e indebolisce la dimensione comunitaria dell'esistenza» (n. 12). Al contrario, Francesco ci ricorda che siamo tutti fratelli e che possiamo sperare di uscire indenni, e forse migliori, dalle crisi che l'umanità deve affrontare, nel presente e nel prossimo futuro, solo con politiche concrete di solidarietà e di cooperazione tra i popoli della terra.
Il mito della forza
Eppure, accettare la fragilità costitutiva della condizione umana e aprirsi alla dimensione dell'aiuto e della solidarietà non è per niente facile. Proprio in questi giorni di sofferenza e di disagio a causa della pandemia assistiamo a moti ripetuti di protesta contro i limiti imposti dalla situazione (ad esempio la battaglia contro l'uso della mascherina), tentativi di minimizzare il pericolo o addirittura di negarlo (facendo finta che non esista o inventando teorie complottiste), polemiche contro i governi che limitano quella possibilità quasi illimitata di movimento e di caccia al godimento di cui abbiamo usufruito fino a oggi. Accade perfino di sentir tornare fuori, con la rabbia e la stanchezza dei mesi in cui tutte le attività si sono fermate, la teoria della selezione naturale, di darwiniana memoria, secondo cui sarebbe un errore ostacolare il compito della natura, portando tutta la società sull'orlo del collasso, per salvare la vita di anziani e di malati. Non sarebbe meglio lasciar fare alla natura il suo lavoro, permettendo ai più forti di sopravvivere, come è sempre successo da che mondo è mondo? Pur di non ammettere che la fragilità dell'altro – dell'anziano – riguarda anche noi che un giorno saremo deboli e anziani, siamo disposti a riesumare non soltanto la legge della selezione naturale, ma anche il mito della giovinezza, della salute e dell'energia fisica, che credevamo scomparso con la caduta dei fascismi. Cosicché la pandemia, invece di aprire gli occhi sulla fragilità della condizione umana e sulla necessità di sentirsi solidali con la sorte degli altri, potrebbe stimolare la rinascita di egoismi e di chiusure ancora più nette e radicali.
Sul mito della forza ci sembra illuminante il giudizio di Virginia Woolf riportato in un piccolo libro di Alberto Meschiari dal titolo Lezioni di disumanità, dove in realtà è riprodotto il testo di una conferenza tenuta dall'autore al Cinema Teatro Astra di Parma il 18 marzo 2019. Meschiari spiega che, dopo l'aggressione alla Spagna repubblicana da parte dei regimi fascisti, nel 1936, la scrittrice venne interpellata da un'associazione antifascista inglese per rispondere alla domanda-come fare a scongiurare la guerra? Provocata dalla domanda, Virginia Woolf scrisse un saggio straordinario, Le tre ghinee, dove sviluppa una lucida argomentazione basata sul collegamento tra il fascismo e il maschilismo che dominava da secoli nei paesi occidentali, compresa l'Inghilterra. È in quella cultura patriarcale, in cui le donne sono tenute soggiogate, che la mentalità fascista affonda le sue radici, esaltando da un lato la forza fisica, la giovinezza e la violenza, e disprezzando dall'altro la sensibilità e la debolezza. «Quando mai un uomo ha interpellato una donna per sapere come, secondo lei, si possa prevenire la guerra? – si chiede Virginia [...]. Come possiamo comprendere un problema che è solo vostro? La nostra psicologia ci farebbe dire: "che bisogno c'è di combattere? È chiaro che dal combattimento voi traete un'esaltazione, la soddisfazione di un bisogno" che a noi donne è estraneo. Combattere "è sempre stata un'abitudine dell'uomo, non della donna". Uccelli e animali "li avete sempre uccisi voi, non noi" (A. Meschiari, Lezioni di disumanità, Edizioni Tassinari, Firenze 2019, p. 6). Così per secoli la cultura patriarcale ha suddiviso la società in soggetti deboli (le donne, i bambini) e forti (gli uomini) destinando questi ultimi a prendere il comando e a sottomettere i più deboli. Allo stesso modo, caratteristiche che appartengono a ogni essere umano a prescindere dall'età e dal genere, come la sensibilità e la consapevolezza della propria fragilità, sono state attribuite soltanto ai deboli, alle donne e ai bambini, come loro difetti naturali, mentre agli uomini, ai maschi adulti, è stato insegnato a respingerle come qualcosa di innaturale, degradante e vergognoso.
Il conflitto con la propria vulnerabilità
Quello che secondo la Woolf è un bisogno tipicamente maschile (il bisogno di combattere, di vincere, di affermare il proprio ego con la forza), nasce in realtà da un conflitto ancora più profondo che si manifesta precocemente in tutti i bambini. Ogni bambino, infatti, come spiega Martha C. Nussbaum, oscilla tra desideri narcisistici di onnipotenza e disperata consapevolezza dei propri limiti e della propria impotenza. Riportando numerosi studi di psicologi dell'età infantile, la Nussbaum scrive: «Appena nati, i bambini indifesi si trovano in un mondo che non hanno scelto e che non controllano. Le primissime esperienze del neonato oscillano in un'impressionante altalena fra beata sazietà, in cui tutto sembra ruotare attorno a lui per la soddisfazione dei suoi bisogni – proprio come nel ventre materno –, e una disperata consapevolezza di impotenza, quando le cose buone non arrivano al momento desiderato, e il bambino non può farci proprio nulla. I cuccioli dell'uomo hanno un livello di impotenza sconosciuto nel resto del regno animale – impotenza però combinata con un altissimo livello di capacità cognitiva. [...] Man mano che si sviluppano, i bambini diventano sempre più consapevoli di ciò che accade loro, ma non possono farci nulla. L'aspettativa di essere costantemente accuditi – l'"onnipotenza infantile" catturata così bene nella frase di Freud "Sua maestà il Bambino" – è unita all'ansia, e alla vergogna, di sapere di non essere affatto onnipotente, bensì del tutto alla mercé degli altri. Da quest'ansia e da questa vergogna emerge un desiderio impellente di compiutezza e pienezza che non scomparirà mai del tutto, anche quando i bambini impareranno di essere solo una piccola parte di un mondo di esseri limitati e bisognosi. Ed è questo desiderio di trascendere la vergogna dell'incompiutezza che genera tanta instabilità e precarietà morale» (Martha C. Nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, il Mulino , Bologna 2011, pp. 47-48). Il desiderio narcisistico di essere onnipotente e padrone del mondo induce l'uomo non solo a rifiutare quegli aspetti che gli ricordano la sua condizione fragile e mortale, ma anche a proiettarli fuori di sé, in soggetti che egli comincerà a considerare come deboli, inferiori e degni di disprezzo: le donne, i bambini, i malati, gli anziani, i poveri, i migranti, tutti coloro che portano impressa e non possono nascondere l'impronta dell'impotenza e del bisogno di aiuto. Ed è così che si creano le gerarchie sociali, i forti al comando e i deboli al servizio, come pure le discriminazioni dei gruppi umani considerati inferiori perché socialmente deboli e indifesi. Non diversamente, anche Vittorino Andreoli sottolinea che la volontà di potenza nasce «come difesa dalla fragilità, dal non volerla accettare, incapaci di sopportare il limite e la condizione umana, immaginandosi parte di una élite divina scesa sulla terra per dominare e per dimostrare la propria immortalità, dimenticando che anche il Dio che si è fatto uomo è morto, morto sulla Croce» (op. cit., p. 26). Al contrario, una buona educazione dovrebbe aiutare il bambino, maschio o femmina che sia, ad accettare la propria fragilità, i propri limiti, e ad affrontare positivamente la sofferenza indotta dalla percezione della propria vulnerabilità. A questo proposito la Nussbaum ricorda che nell'Emilio «Rousseau fece della coscienza dello stato di debolezza dell'uomo il fulcro di tutto il suo programma educativo, affermando che solo la consapevolezza di tale stato ci rende socievoli e inclini all'umanità, per cui proprio la nostra inadeguatezza diventa la base della speranza in una comunità degna di questo nome» (p. 51).
Senza dubbio il conflitto con la propria vulnerabilità interessa maggiormente il maschio, a cui per secoli la società ha chiesto quasi unicamente prestazioni fisiche e intellettuali. È il maschio che si vergogna di manifestare le proprie emozioni, i propri sentimenti, la propria sensibilità. È il maschio che pretende sempre di farcela da solo, senza l'aiuto di nessuno. Ed è il maschio che ancora oggi considera la donna un oggetto di possesso da cui non sopporta di essere rifiutato. Dal momento, però, che i ruoli tra uomini e donne si stanno scambiando e che la società di massa si avvia verso una sempre maggiore omologazione, anche le donne devono fare i conti con le richieste pressanti di prestazioni e di risultati da parte di un mondo sempre più dominato dalle logiche della crescita e dell'efficienza tecnologica. Richieste alle quali si può rispondere solo mettendo da parte la consapevolezza della fragilità propria e degli altri, di tutto ciò che in altre parole non permette di essere all'altezza delle aspettative di un sistema che ricompensa solo il successo. Esiste, d'altra parte, un modello positivo di virilità che Francesco Piccolo nel suo libro, bello e coraggioso, L'animale che mi porto dentro (Einaudi, Torino 2018) chiama «virtuosa» e che contempla eroismo, moralità, altruismo, coraggio, lealtà, onestà, generosità, ma che purtroppo la nostra società propone di rado ai ragazzi che devono diventare uomini. Un modello che richiama alla mente le figure dei cavalieri della Tavola rotonda o quella di Parsifal, l'eroe giovane e generoso, che parte alla ricerca del santo Graal e che nel corso della sua ricerca dovrà fare i conti con le proprie paure, tentazioni e fragilità. Un esempio che forse, proprio per questo, è considerato obsoleto ai nostri giorni dove invece molto più facilmente prevale un modello di maschio compiaciuto della propria forza, arrogante e competitivo, nonché perennemente intento a mascherare la propria insicurezza in una società che peraltro pone profondamente in crisi i ruoli tradizionali.
La fragilità come risorsa
Se avessimo il coraggio di guardare in faccia i nostri difetti, le nostre debolezze, le nostre paure, se tutti imparassimo, fin da bambini, da adolescenti e da adulti, a considerare la fragilità una caratteristica costitutiva della condizione umana, probabilmente la nostra vita e quella della società sarebbero migliori. In primo luogo, diventeremmo più socievoli e andremmo a cercare nell'altro non un essere da dominare e da sfruttare per i nostri bisogni, ma un essere umano simile a noi, fragile come noi, con cui condividere i nostri desideri e le nostre paure, un altro a cui appoggiarsi per sostenerci a vicenda nel cammino doloroso della vita. La persona che sa di essere fragile è capace di comprendere la fragilità degli altri e di trovare i mezzi per alleviare il loro dolore. «Il dolore – scrive Andreoli – è la sostanza, l'ubi consistam della fragilità, e la fragilità genera una visione del mondo che tiene conto del bisogno dell'altro. Per la fragilità l'uomo cerca aiuto, cerca dei legami per scambiare fragilità, e appoggiando una fragilità a un'altra si sostiene il mondo» (cit., pp. 27-28). La fragilità permette oltretutto di affidarsi all'altro in una relazione d'amore che può nascere soltanto, come insegnava Platone nel Simposio, dal senso del limite che uno avverte dentro di sé: «Io sono tanto fragile da pensare sempre all'amore – scrive ancora Andreoli – nelle sue varie specificazioni, e sento la voglia di essere amato per poter amare: un circolo virtuoso per cui la voglia di amare coincide soltanto con l'essere amato: due fragilità si uniscono si fanno forza dentro il segreto, nel mistero dell'amore. Assieme all'amore esistono l'amicizia, la simpatia, la solidarietà: volti certo minori che però ne contengono l'essenza, il bisogno dell'altro» (cit., p. 14). Viceversa, l'uomo potente non sa e non può amare. Chi sceglie di negare la parte vulnerabile di sé si chiude nell'illusione della propria autosufficienza ed è l'uomo più miserevole che esista: rimarrà solo e odiato, senza aver mai potuto sperimentare neppure lontanamente la forza di un legame capace di dare coraggio anche nel dolore e nella morte. La fragilità non è un difetto, ma l'espressione della condizione umana. Nasciamo con la consapevolezza di dover morire. Proprio per questo la fragilità può diventare una risorsa insostituibile per creare amicizia tra gli esseri umani, per cercare insieme le soluzioni ai problemi che ci troviamo ad affrontare. Lo vogliamo riconoscere o no, tutti siamo fragili. Ammetterlo però è la cosa più importante perché è la condizione necessaria per costruire una visione della società che metta al centro la collaborazione e la cura, lo sviluppo e la protezione dei deboli, il progresso tecnologico e la salvaguardia della natura. Per dirla ancora con Andreoli: «Una società fragile non è una società debole, semmai è una società saggia» (cit., p. 30).
Il riconoscimento della propria fragilità è fondamentale anche nella vita spirituale, a tal punto che non esiste un vero e proprio cammino spirituale senza che esso sia accompagnato dalla consapevolezza dei propri limiti, della propria debolezza e del bisogno di essere aiutati. Non c'è niente nella vita cristiana che attiri maggiormente la misericordia di Dio che il pentimento sincero per i propri errori, per i propri peccati. Riconoscere che si è sbagliato, pur con le migliori intenzioni, anche se si voleva fare diversamente da come si è fatto, è la condizione preliminare per mettersi nella giusta posizione di fronte a Dio e per aprirsi ai doni della sua misericordia. Santa Teresa di Gesù scriveva che il riconoscimento della propria condizione di miseria non deve mai abbandonare neppure coloro che giungono alle vette più alte dell'orazione. La persona che si ritiene perfetta, infatti, non ha bisogno di ricevere niente da nessuno, neppure da Dio. E come potrà allora Dio continuare a ricolmarla delle sue grazie? Nella vita spirituale è una tentazione molto frequente quella di ritenersi perfetti o comunque impeccabili di fronte a Dio per il fatto di aver compiuto le giuste azioni o aver detto tutte le preghiere o aver celebrato molte messe (se si è un sacerdote) o aver manifestato a sé stessi le intenzioni più sante (se si è un religioso). A volte anche aver fatto la carità, aver aiutato i poveri, i malati, i morenti invece di far nascere un sempre più profondo sentimento di pietà per il dolore umano e di disperazione per la propria impotenza, può rafforzare un sentimento di orgoglio e di soddisfazione per essersi comportati da ottimi cristiani. Del resto, il peccato più grande nella vita spirituale è la superbia che si sviluppa soprattutto in quei cristiani che si dimenticano di avere dei difetti e non si riconoscono più di fronte a sé stessi, agli altri e a Dio come bisognosi di perdono. Famoso a questo proposito è il giudizio che un visitatore apostolico inviato presso il monastero femminile di Port Royal, alle porte di Parigi, sul finire del XVII secolo ebbe a scrivere nel suo rapporto: «Queste donne sono pure come angeli, ma orgogliose come demoni» (in G. Cucci, La forza della debolezza. Aspetti psicologici della vita spirituale, AdP 2007, p. 88). Ogni relazione umana è un dare e un ricevere e lo stesso vale per la relazione con Dio: l'orgoglio si sviluppa quando facciamo pendere dalla nostra parte la bilancia del dare, pensando che abbiamo dato di più rispetto a quello che abbiamo ricevuto. Non si possono alimentare sentimenti di gratitudine e di amore per l'altro se sí pensa che tutto ciò che siamo lo dobbiamo unicamente a noi stessi. Per questo motivo, santa Teresa di Gesù sosteneva che il primo passo nel cammino spirituale consiste nel mettersi di fronte alla propria miseria, ma aggiungeva che il passo successivo è riconoscere la grandezza di Dio: perché non è possibile fare il primo passo (riconoscere la propria miseria) senza il secondo (riconoscere la grandezza di Dio). Solo di fronte all'infinita bontà di Dio, ad esempio, è possibile misurare quanto sia manchevole la nostra volontà di essere buoni. D'altra parte, Dio non sarebbe venuto a salvarci se non avessimo bisogno di essere salvati e non sarebbe venuto a guarirci se non avessimo bisogno di essere guariti. Tutti i racconti contenuti nei vangeli insistono sulla manifestazione della misericordia di Dio nei confronti della fragilità degli uomini e delle donne che Gesù incontra sulla sua strada. Povertà, malattia, morte, peccato, esclusione sociale, solitudine, disprezzo ed emarginazione: chi vive queste condizioni si apre più facilmente all'incontro con Gesù, riconoscendo in lui la manifestazione di un Dio diverso da quello della religione ufficiale. Viceversa, per coloro che si ritengono autosufficienti l'incontro con Gesù si trasforma in uno scontro, uno scontro di potere. E così anche dopo, nel corso dei secoli, coloro che lo accolgono veramente e lo seguono non appartengono a quelle categorie sociali orgogliose e fiere di sé, anche sotto il profilo religioso, ma a quelle che hanno realmente bisogno di essere riscattate da una condizione di miseria e di umiliazione.
(FONTE: Feeria, 2020/2 - n. 58 - pp. 9-14)