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    Costruire la

    fraternità universale

    Timothy Radcliffe

    1. L'avventura di essere fratelli e sorelle

    Quando ero un giovane domenicano, [1] ho studiato per un anno a Parigi con i confratelli francesi. Durante la mia prima cena con loro, mi si è avvicinato un monaco e mi ha chiesto: «Frère, comment tu t'appelles?», che significa «Fratello, come ti chiami?». Era una domanda affascinante. Mi ha chiamato suo fratello e ha utilizzato l'espressione intima del "tu", anche se non ci eravamo mai incontrati prima e non sapeva nemmeno il mio nome. Questo è il paradosso nel cuore della cristianità: noi siamo già fratelli e sorelle in Cristo. Siamo la famiglia di Dio. Ci rivolgiamo a Dio come nostro padre e a Gesù come nostro fratello. Fratello e sorella sono gli unici titoli importanti per i cristiani. Quindi apparteniamo già a una fraternità universale, anche quando non conosciamo il nome dell'altro. Ma la fraternità è anche un'avventura.
    Thomas Merton, un monaco cistercense, ha scritto: «Noi siamo già uno, ma immaginiamo di non esserlo. E quello che dobbiamo recuperare è la nostra unità originaria. Ciò che dobbiamo essere è ciò che siamo» (Merton, 1973, p. 308). Dobbiamo acquisire i cuori e le menti di fratelli e sorelle, è un compito per la nostra immaginazione! Questo è il motivo per cui il mio ultimo libro Alive in God. A christian imagination (Radcliffe, 2019) parla dell'immaginazione cristiana. Quindi, questa è la domanda: come può la vita comune aiutarci a diventare completamente ciò che noi siamo già in Cristo, cioè fratelli e sorelle? Come le nostre famiglie, le nostre parrocchie e le comunità ci formano alla fraternità con chi non conosciamo già? Compresa quella tra inglesi e italiani dopo la Brexit! In inglese abbiamo una parola difficile da tradurre, home. In francese si dice chez moi, mentre immagino che in italiano l'espressione che si avvicini maggiormente è "a casa". Essere fratelli e sorelle significa "sentirsi a casa".

    2. Sentirsi a casa

    La storia di Cristo e della sua presenza nelle nostre vite è la storia di come noi allarghiamo la nostra casa. A Madre Teresa di Calcutta piaceva dire: «Il problema del mondo è che disegniamo il cerchio della nostra famiglia troppo piccolo». La storia dell'incarnazione inizia con una scena domestica: i pittori dell'Annunciazione rappresentano Maria all'interno della loro visione ideale di casa. I pittori del Rinascimento italiano la raffigurano in case piene di marmo, spesso affacciate su alberi di ulivo; gli artisti fiamminghi e olandesi, dal freddo Nord, ci mostrano case più accoglienti con pannelli in legno, il fuoco acceso sormontato da un pentolone e magari un letto sullo sfondo. Il messaggero di Dio, Gabriele, entra in una casa di uomini. Non ci sono le restrizioni anti-Covid per gli arcangeli! A Natale, Dio arriva nella casa di ciascuno, sia che si tratti di piccoli appartamenti dove si sta stretti sia che si tratti di rifugi per i senzatetto. Maria è sempre dipinta da sola: Dio arriva anche quando siamo soli nelle nostre case, isolati dalla pandemia. Sentirsi a casa è forse il desiderio più importante dell'uomo.
    Alastair Bonnet ha scritto che «un luogo è il tessuto delle nostre vite; la memoria e l'identità sono cucite su di esso. Se non si ha un proprio posto, un luogo che sia casa, la parola libertà è una parola vuota» (Bonnet, 2014, p. 85). Milioni di persone erano senza tetto questo Natale, i senzatetto nelle nostre strade e i rifugiati in tutto il mondo. A loro non manca soltanto un tetto, ma anche un luogo dove realizzarsi. Dio ci dice: «Vieni a casa». Una vera casa ci dà due cose che apparentemente sembrano in conto ma che sono entrambe necessarie: l'accettazione incondizionata e la sfida del crescere. "Casa" è dove sei accettato incondizionamente, dove non hai bisogno di giustificare la tua presenza. Non hai bisogno di una ragione per essere a casa. La poetessa americana Maya Angelou ha scritto: «Il mal di casa è presente in tutti noi. Il luogo sicuro dove possiamo andare così come siamo, senza che ci vengano poste domande» (Angelou, 1991, p. 196).
    Proprio perché la Chiesa è la nostra casa, non dovremmo subire un interrogatorio su chi siamo e cosa abbiamo fatto. Al suo interno siamo come bambini in seno alla propria famiglia. Dovremmo anche essere in grado di esprimere noi stessi liberamente, fare domande e dar voce ai nostri dubbi. A casa ognuno può essere spontaneo. Hilaire Belloc, una scrittrice cattolica dell'anteguerra, racconta di una volta in cui andò a messa a Nòtre Dame a Parigi e rimase in piedi in fondo, appoggiata a una colonna senza inginocchiarsi mentre tutti gli altri lo facevano. Un sagrestano si avvicinò e le disse: «Dovrebbe inginocchiarsi adesso» e Belloc rispose: «Vada al diavolo». Il sagrestano replicò: «Scusi, non avevo capito che lei fosse cattolica». Soprattutto a Natale ognuno dovrebbe sentirsi a casa in una Chiesa. Non è importante chi sei o cosa hai fatto. Non importa se sei sposato o divorziato, gay o etero o transgender. Papa Francesco ha detto: «La Chiesa è chiamata ad essere sempre la casa aperta del Padre [...] la Chiesa non è una dogana, è la casa paterna dove c'è posto per ciascuno con la sua vita faticosa (Evangelii gaudium, 2013, n. 47). Qualche volta le persone protesteranno dicendo: «Ma io non sono un buon cattolico». L'unica risposta possibile è: «Nemmeno io». Come affermò James Joyce: «Qui viene chiunque». Non tutti si sono sempre sentiti accolti nella Chiesa. Facciamo in modo che in futuro nessuno si senta escluso.

    3. Crescere nella vita comune

    Ma una vera casa può anche essere faticosa qualche volta. Impariamo a crescere. E il luogo dove siamo invitati a diventare ciò che siamo chiamati ad essere. Il bambino vivrà le più grandi sfide della sua vita, imparando a vedere, a camminare, a parlare. Nelle nostre comunità siamo incondizionatamente accettati per come siamo, ma siamo anche invitati a diventare ciò che Dio ci chiama ad essere. Impariamo a vedere, a camminare e a parlare come fratelli e sorelle in Cristo. Pensiamo quindi a come un bambino cresce e chiediamoci come anche noi possiamo crescere nella vita comune. La prima cosa che impara un bambino è riconoscere un volto umano, solitamente il volto della mamma. Uno dei miei rimpianti è di non aver mai cresciuto un bambino, ma secondo il "professor" Google «entro due o tre mesi dalla nascita il bambino inizierà a riconoscere le caratteristiche facciali, come il naso e la bocca. Dai tre ai cinque mesi, la maggior parte dei bambini riesce a distinguere il volto della mamma dal volto di uno sconosciuto. Presto inizierà a riconoscere i volti dei suoi fratelli e delle sorelle». Da quel momento inizierà ad essere a casa.
    La vita comune nelle nostre parrocchie, nelle comunità religiose o laiche dovrebbe semplicemente insegnare l'inizio di ogni discepolato cristiano, cioè l'arte di vedere gli estranei come nostri fratelli e sorelle in Cristo. Una volta un rabbino chiese ai suoi studenti: «Come facciamo a sapere quando è l'alba?» Uno studente rispose: «Quando riesco a vedere la differenza tra un leone e un leopardo». «No» disse il rabbino. Un altro propose: «Quando posso distinguere un melo da un pero?». «No» rispose di nuovo il rabbino. «E quando guardi uno sconosciuto e vedi tuo fratello o tua sorella». Formazione spirituale è imparare ad essere un volto per gli altri e a guardare i volti degli altri.

    4. La religione dei volti

    Romano Guardini descrive come la santità renda i nostri volti più trasparenti. Il volto di colui che lotta per la verità non è solo più "spirituale", ma più volto di quello di un uomo apatico; il che significa corpo più vero, più intenso (Guardini, 2005). Il cristianesimo è la religione dei volti. Questa è la differenza tra una chiesa e una sinagoga o una moschea: è piena di volti. Cristo e i santi ci guardano in volto e noi guardiamo i loro volti.
    Saper leggere i volti degli sconosciuti è un'arte. Necessita di un'immaginazione trasformata. Alcuni anni fa viaggiai per tutta l'Algeria con uno dei miei fratelli domenicani, che era vescovo. A causa dei conflitti nel Paese, non potemmo prendere un aereo per andare a sud, così dovemmo ripiegare sull'automobile. Pro-prio vicino al Sahara finimmo in un conflitto tra l'esercito e la popolazione locale. L'auto davanti a noi fu fermata e le persone all'interno vennero prese come ostaggi. In un attimo, anche la nostra fu circondata. Sapevamo che non saremmo stati presi in ostaggio, ma probabilmente uccisi. Di fronte alla nostra macchina c'era un ragazzo con in mano una grossa pietra. Si sporse sul parabrezza, pronto a lanciarla. Se avesse visto il mio volto, i miei occhi, forse ci avrebbe risparmiato. Avrei potuto ricordargli un vecchio zio! La sua faccia era piena di odio, ma quando lo guardai meglio vidi, al di là dell'odio, la paura. Era un ragazzo spaventato. Probabilmente si stava chiedendo cosa ci facesse lì. E dietro la sua paura vidi un ragazzo amato dalla madre. Un mio fratello.
    Vi racconto un altro episodio. Un gruppo di cristiani gestiva un ostello nel quartiere a luci rosse di Amsterdam e una sera una prostituta vi entrò. Il custode le disse: «Tu devi essere cristiana!». «Come lo sai?». «Perché mi guardi negli occhi», rispose il custode. Ogni comunità cristiana dovrebbe essere un luogo dove i nostri occhi sono aperti per guardare gli sconosciuti da fratelli e sorelle.
    Siamo anche invitati a lasciare che i nostri volti vengano guardati. Durante questa pandemia molti di noi sono stati isolati per mesi, da soli o con i membri stretti della propria famiglia o comunità: è difficile nascondersi dietro a una maschera, se trascorri insieme a qualcuno tutto il tuo tempo. Forse abbiamo osato lasciar cadere le nostre maschere così da essere visti per come siamo: umani, vulnerabili, fragili. Ed è in questo momento che dovremmo essere amati. Quando Dio divenne carne inizialmente fu visto come un bambino vulnerabile. San Giovanni scrisse che «nessuno può vedere Dio e vivere». Ma noi possiamo perché quel bambino che è Dio ha gli occhi chiusi. Quindi impariamo a guardare e ad essere guardati.

    5. Osare di fallire

    La seconda sfida per un bambino è imparare a camminare. Secondo alcuni miei amici, questo accade più o meno intorno ai nove mesi dopo la nascita. Camminare significa che il bambino non è più il centro statico del cerchio. Lui o lei può muoversi verso altre persone. Il bambino inizia a prendere l'iniziativa.
    Mi piace il dipinto di Van Gogh in cui una mamma e un papà insegnano al loro bambino a camminare. Quel bambino proverà a muovere qualche passo e poi cadrà. Lo tireranno su e lui cadrà di nuovo: una casa è un luogo dove puoi osare andare incontro ad altre persone, cadere e poi ricominciare. È meglio prendere le iniziative sbagliate, come il figliol prodigo, piuttosto che non fare proprio niente.
    Questo significa che crescere è osare di fallire. Significa anche attraversare delle crisi. Una casa è un luogo dove puoi fare questo: se non osi fallire, non sei a casa. Ogni essere umano cresce attraverso diverse crisi: la crisi della nascita, quando lasci la calda "Jacuzzi" nel ventre di tua madre; la crisi dello svezzamento, quando ti siedi a tavola e cominci a mangiare cibo solido; la crisi della pubertà, quando il tuo corpo è ricco di ormoni e ti senti confuso. C'è poi la crisi del lasciare la casa dei genitori: molte persone non hanno potuto farlo a causa della pandemia. Tutti noi poi affrontiamo l'ultima crisi, quella della morte. Senza crisi non cresceremmo mai e non diventeremmo fratelli e sorelle di nessuno.
    Questa è la mia domanda per voi: la vostra casa, la vostra famiglia, parrocchia, comunità religiosa o laica, è un luogo dove potete fallire serenamente e attraversare delle crisi con speranza? Se uno dei nostri fratelli o sorelle ha una crisi lo ignorate e fingete che non sia successo niente? O lo aiutate a vivere la crisi come un'opportunità per una nuova vita? Scappate o siete come una levatrice di un nuovo inizio?
    Il sacramento della nostra fraternità universale è l'Eucaristia. Questa rievoca la più grande crisi di tutte, l'Ultima Cena, quando sembrava non esserci più futuro. Giuda ha tradito Gesù, Pietro lo stava per rinnegare. Anche gli altri lo avrebbero rinnegato e sarebbero scappati via. Tutto quello che successe dopo fu sofferenza e morte. Ma è proprio nel momento di questa maggiore crisi che Gesù ci diede se stesso: «Questo è il mio corpo, offerto per voi. Questo è il mio sangue versato per voi, per la nuova ed eterna alleanza di fraternità universale». Questo è il sacramento di Fratelli tutti (2020c).
    Ogni famiglia attraverserà i suoi momenti di crisi, quando la vita comune è approfondita o persa. Ogni prete, ogni comunità religiosa, incontrerà crisi. Anche a me è successo qualche volta! Ma se noi attraversiamo questi momenti con speranza, allora poi i nostri cuori e le nostre menti saranno allargati e noi saremo sullastrada per diventare fratelli e sorelle di tutta l'umanità in Cristo. Se scappiamo dalle crisi e allontaniamo chi è in difficoltà, non cresceremo mai. Ci ritireremo in noi stessi.

    6. Imparare a parlare

    L'avventura più grande per un bambino è quella di imparare a parlare. Ci sentiamo a casa con le nostre famiglie, i nostri fratelli e sorelle quando entriamo nelle loro conversazioni. In Inghilterra un bambino ci mette circa un anno prima di dire le sue prime parole. Scommetto che i bambini italiani ci mettono meno! La fraternità è fondata sul parlare la lingua della famiglia. Come cristiani siamo invitati ad un'avventura ancora più emozionante, cioè parlare con l'estraneo come a un fratello o a una sorella. Come possiamo sentire cosa dicono? Quali parole aprono la nostra casa a loro? Questo è ben più difficile di quanto possa esserlo per me imparare a parlare italiano o inglese. Questa è l'arte di parlare alle persone che hanno idee radicalmente diverse dalle mie, è un compito di immaginazione.
    Le divisioni più profonde avvengono all'interno delle comunità e persino delle famiglie. In Inghilterra, la Brexit è diventata un argomento così controverso che alcuni fratelli e sorelle non potevano parlarne fra di loro. In America il muro più difficile da valicare è quello tra democratici e repubblicani. Se in America utilizzi un'ape per incontri, per cercare marito o moglie, la prima domanda che ti viene posta è «A chi dai il tuo voto?». La scelta politica influenza completamente la vita. Vai a prendere un caffè da Starbucks, se sei un democratico e da Dunking Doughnuts, se sei repubblicano! Ovviamente sto semplificando, ma le società occidentali stanno diventando più tribali. Come possiamo imparare a parlare una lingua che superi non solo le barriere linguistiche, ma anche le divisioni ideologiche?
    Come superiamo i silenzi che ci separano, persino dalle persone che amiamo? Come parliamo ai nostri nemici? Quando la Parola di Dio divenne carne, non parlò esclusivamente alla stretta cerchia dei discepoli. Parlò con i nemici che cercavano di catturarlo. Parlò con le prostitute e con gli uomini della legge. Gesù parlò a chiunque volesse ascoltarlo, ma cercava di parlare anche a coloro che non volevano ascoltarlo. Infine, al suo processo rimase in silenzio e sulla croce la Parola non parlò più. Ma nel giardino, il mattino di Pasqua parlò nuovamente quando incontrò Maria Maddalena: «Maria!» «Rabbunì!».
    Costruire la fraternità universale – Fratelli tutti – significa parlare con le persone che potrebbero non volere parlare con te. Questo inizia all'interno delle nostre comunità. Osiamo rompere il silenzio all'interno delle nostre comunità? Se lo facciamo, dovremmo imparare a parlare con gli sconosciuti.
    Guardiamo per un attimo alla difficile conversazione che Gesù ebbe con la samaritana al pozzo (Vangelo di Giovanni, 4). È più assurda di qualsiasi conversazione potremmo mai avere: rompe qualsiasi regola.
    Le prime parole di Gesù sono: «Dammi da bere». Osa avere bisogno di ciò che lei può offrire. Noi parliamo con persone "difficili", che magari hanno punti di vista che non ci piacciono, perché hanno qualcosa di cui abbiamo bisogno. Al vescovo Pierre Claverie, il martire algerino domenicano, piaceva dire questa frase riguardo al suo dialogo con i musulmani: «J'ai besoin de la verité des autres» (Claverie, 2008, p. 141), che significa «Ho bisogno della verità degli altri». Questo è il motivo per cui venne martirizzato.
    Tommaso D'Aquino scrive, citando Aristotele: «Dovremmo amare entrambe le tipologie di persone: quelle di cui condividiamo le opinioni e quelle di cui rigettiamo le opinioni. Per entrambe studiare di trovare la verità e, in questo modo, entrambe ci daranno assistenza» [2] (Tommaso D'Aquino, 1971, p. 599).
    La donna al pozzo non pensava nemmeno che la conversazione potesse realmente avvenire! «Come mai tu che sei giudeo chiedi da bere a me che sono una donna samaritana? I Giudei, infatti, non vanno d'accordo con i Samaritani» (Vangelo di Giovanni 4,9). Lui non doveva parlare con lei perché era samaritana, era una donna e conduceva una vita immorale. Ma parlarono. Il divario tra loro venne superato dall'ascolto più intenso. Immaginateveli lì, da soli, con l'afa di mezzogiorno, ogni senso teso al massimo. Alice Duer Miller ha scritto: «Puoi ascoltare come un muro vuoto, o come uno splendido auditorium dove ogni suono torna indietro più pieno e più ricco» («you can listen like a blank wall or like a splendid auditorium where every sound comes back fuller and richem) (Gibson - Beitler III, 2020, p. 47) .
    E così Amos Oz, il poeta israeliano, riguardo a suo nonno:

    Nonno era dotato di una qualità quasi irreperibile negli uomini, una virtù straordinaria che forse è per le donne più sensuale di qualunque altra cosa: lui ascoltava. Non faceva finta di ascoltare per buona educazione, aspettando con impazienza che lei finisse e tacesse, finalmente. Non carpiva le frasi della sua interlocutrice per terminarle bruscamente al posto di lei. Non la interrompeva e non saltava dentro il suo discorso per arrivare al dunque e passare oltre. Non lasciava che lei parlasse al vento, mentre lui pensava che cosa risponderle quando avesse finalmente finito. Non fingeva di interessarsi o divertirsi, si interessava e si divertiva davvero. (Oz, 2002, p. 151)

    La conversazione tra Gesù e la donna non sembra andare da nessuna parte. La svolta arriva quando egli le parla della sua vita. Tocca la verità di ciò che lei ha sperimentato: «Va', chiama tuo marito e torna qui». La donna gli risponde: «Ma io non ho marito» ed egli le dice: «Hai detto bene, "non ho marito", poiché ne hai avuti cinque e quello che hai ora non è tuo marito» ( Vangelo di Giovanni 4, 16-18). E in questo momento che si incontrano davvero nella verità. Lei dirà: «Mi ha detto tutto quello che ho fatto» (4, 39). La conversazione decolla quando entriamo nella verità dell'altro e lasciamo che l'altro veda la nostra. La verità che noi cerchiamo non è un teorema, ma una persona che dice «Io sono la verità». Questo accade quando abbiamo il coraggio di rivolgerci all'altro come esseri imani reali e vulnerabili e non come fantocci di paglia.
    La fraternità universale significa che osiamo parlare con gli sconosciuti, anche quando sembra inutile e senza senso. Impariamo quest'arte nelle nostre comunità quando non sappiamo come parlare a quelli che ci sono più vicini. Qualche volta si potrebbe fallire e la conversazione cadrebbe come al processo di Gesù. Qualche volta non troviamo le parole e dobbiamo rimanere in silenzio per un po'. Ma non ci arrendiamo. Alan Jacobs, un teologo americano, lesse un post su un blog in cui veniva fortemente attaccata la visione di Rowan Williams, l'ex arcivescovo di Canterbury. Era furioso ed iniziò a scrivere la risposta, ma poi si fermò:

    Mi fermai perché le mie mani tremavano così tanto che non riuscivo a digitare bene per quanto fossi arrabbiato. Quindi ho dovuto prendermi cinque minuti, non avevo altra scelta. E proprio durante quella pausa forzata capii quello che stavo facendo, quello che stavo diventando... Avevo un mio problema personale che avevo bisogno di indirizzare. Così cancellai il commento che stavo scrivendo, spensi il computer e me ne andai (Jacobs, 2017, p. 110).

    Qualche volta siamo incapaci di proseguire una conversazione per un po' di tempo. Se entri in contatto con qualcuno a qualsiasi livello lo lasci entrare in te stesso. Fai spazio per lui nel tuo ego e qualche volta non sei ancora pronto a farlo. Devasterebbe chi sei. Una conversazione profonda mette in discussione la tua identità poiché fai entrare nella tua interiorità qualcuno che potrebbe negare punti di vista radicati in chi pensiamo di essere.
    Immaginate qualcuno del movimento "Black Lives Matter" parlare con un suprematista bianco. Sono fratelli e sorelle, ma potrebbe esserci un momento in cui non troverebbe le parole. Ma noi non rinunciamo mai alla speranza che alla fine le parole possano essere trovate. Continuiamo a cercare. Il silenzio della croce lascerà posto alle parole che il Cristo risorto pronuncia alla mattina di Pasqua.
    Perciò le nostre comunità, le nostre famiglie, le nostre parrocchie e comunità religiose dovrebbero educarci ad essere fratelli e sorelle del mondo. Fratelli tutti! Dovrebbero essere case in cui siamo accettati incondizionatamente, ma allo stesso tempo invitati a crescere. Come bambini impariamo a vedere i volti, non solo quello della madre, ma anche quelli degli sconosciuti. Impariamo a camminare, a prendere iniziativa, a cadere e a rialzarci. Una vera casa è un luogo dove puoi sbagliare. Come bambini impariamo a parlare non solo con i membri della nostra famiglia, ma anche con gli sconosciuti. E quando non possiamo, speriamo ancora nel giorno in cui poterlo fare.
    Ci sono molte altre cose che mi piacerebbe esplorare. Per esempio, una casa è intergenerazionale. Come attraversiamo le generazioni così che gli adolescenti di oggi possano parlare con le persone più anziane? Come impariamo a non essere soltanto fratelli e sorelle, ma anche madri e padri? Ma l'arte della conversazione è anche imparare a smettere di parlare, cosa che farò adesso!

    NOTE

    1 Relazione di padre Timothy Radcliffe in occasione del Convegno online di Pastorale giovanile Dio è comunione, organizzato dalla diocesi di Milano, Oratori Diocesi Lombarde e Osservatorio Giovani-Istituto Toniolo, svoltosi sulla piattaforma zoom il giorno 6 febbraio 2021, disponibile sul canale YouTube della Pastorale giovanile: https://www.youtube.com/watch?v=OpAm6R6CRDM. Autore del testo in inglese è padre Timothy Radcliffe, la traduzione in italiano è di Susanna Bottini, responsabile della vita comune al Centro Giovanile Stoà di Busto Arsizio. Quando non altrimenti specificato, anche la traduzione delle citazioni da altri autori sono da intendersi a cura di S. Bottini. Nell'ambito del Convegno sono stati presentati alcuni risultati dell'indagine "Giovani e vita comune" promossa da 01)1. (Oratori Diocesi Lombarde), realizzata dall'Osservatorio Giovani, con il contributo economico della Regione Lombardia (Introini - Pasqualini, a cura dl, 2021).
    2 In un passo della Somma Teologica, l'Aquinate riprende il medesimo concetto, citando Ambrogio: «Omne verum, a quocumque dicatur, est a Spiritu Sancto» («Ogni verità, da chiunque sia detta, viene dallo Spirito Santo», III, q.109, a.1, ad 1).

    (Paola Bignardi - Fabio Introini - Cristina Pasqualini, Oasi di fraternità. Nuove esperienze di vita comune giovanile, Vita e Pensiero 2021, pp. 257-266)


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