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    La crisi delle vocazioni

    don Luigi Ricceri *

    Confratelli e Figliuoli carissimi, eccomi al nostro periodico incontro mentre in tutta la Congregazione ferve il lavoro preparatorio al Capitolo Generale Speciale. Le notizie che pervengono un po' da tutte le Ispettorie dicono l'interesse e la serietà con cui si risponde all'invito del Rettor Maggiore per una partecipazione personale, consapevole, illuminata.
    Anche noi cerchiamo di fare la nostra parte: mentre si pensa già alla sede e a tutto quello che questa implica, si sta organizzando la Commissione Tecnica che dovrà schedare organicamente il materiale che arriverà dai Capitoli Ispettoriali. Stiamo pure studiando la formazione delle cinque Commissioni Precapitolari che avranno il delicato incarico di approntare le relazioni di base da servire poi per lo studio alle Commissioni Capitolari.
    Vi rendete subito conto che si tratta di un lavoro assai importante il cui felice risultato dipenderà non poco dalla preparazione e dalla sensibilità salesiana dei membri delle 5 Commissioni. D'altra parte, anche guardando alla esperienza di altri ordini religiosi, il proficuo svolgimento dei lavori del Capitolo Generale Speciale è strettamente legato alla preparazione seria e sistematica che vi si porta; ed è quello che tutti insieme vogliamo fare.
    Se quindi nelle Ispettorie bisognerà fare qualche sacrificio per mettere a disposizione i confratelli occorrenti al centro per tutto questo prezioso lavoro, vi prego di accettarlo volentieri, convinti che si tratta di un primario servizio di collaborazione nell'interesse di tutta la Congregazione.

    Solidarietà fraterna in azione

    In questo numero degli Atti troverete un lungo elenco comprensivo di tutte le somme pervenute (anche di quelle inviate sin dall'inizio e riportate nel primo elenco) per la solidarietà fraterna con le relative destinazioni delle suddette somme.
    Desidero esprimere da queste pagine la riconoscenza vivissima ai singoli confratelli, ai gruppi, alle Comunità, che per venire incontro ai fratelli in necessità han saputo trovare tanti modi e mezzi quali solo il vero amore fraterno può suggerire. I confratelli e le comunità beneficate sapranno trovar modo di esprimere il loro grato animo: io lo faccio sin d'ora per tutti.
    So che in molte Ispettorie l'«operazione solidarietà» è ancora in corso. Nel prossimo numero degli Atti cercheremo di pubblicare un nuovo elenco che comprenda queste altre Ispettorie. Ma intanto vorrei invitare tutti a non desistere da questa azione di carità fraterna che in pari tempo è un potente vincolo di unione.
    La carità, specie nelle nostre condizioni, non può essere up abito da festa eccezionale, ma l'abito di tutti i giorni.
    La Quaresima e l'Avvento specialmente sono le occasioni che ogni anno vengono a stimolarci a rinnovare concretamente la nostra carità verso i fratelli. Vi attendo quindi all'appuntamento della solidarietà. Sono sicuro che non mancherete.

    Un problema vitale

    Lasciate ora che vi intrattenga su un argomento al quale vado pensando da tempo. È un argomento di estrema attualità, non solo, ma di tale natura, che ci tocca, come suole dirsi, sulle carni: si tratta di un problema che interessa tutta la vita della Congregazione e in pari tempo quella di ciascuno di noi; è il problema delle vocazioni, o meglio la crisi delle vocazioni.
    È un fenomeno che non da oggi investe tutta la Chiesa, ma che si è fatto molto più acuto e preoccupante in questi ultimi anni. La nostra Congregazione non poteva essere indenne da tale situazione. È vero che sino a qualche anno fa nel complesso il bilancio delle vocazioni segnava ogni anno un attivo, ma è anche vero che, pur continuando varie Ispettorie ad avere una consolante crescita di vocazioni, nell'insieme della Congregazione da qualche anno il bilancio non è attivo come per il passato.
    È una situazione che dobbiamo guardare con grande umiltà e sincerità, con sereno coraggio, senza perderci in sterili lamenti né in accuse emotive. Dinanzi a crisi di persone di cui mai avremmo lontanamente dubitato, di persone che per i gradi della gerarchia da esse occupati, per gli uffici disimpegnati apparivano ormai sicuri da ogni attacco, dòbbiamo, senza farisaici sensi di scandalo, raccoglierci in preghiera e chiedere al Signore che ci aiuti, per quanto ci riguarda, a vedere con la massima oggettività la situazione, individuandone le cause e gli eventuali rimedi.
    Il problema, ripeto, interessa tutti, perché tutti abbiamo una vocazione non solo da salvaguardare e difendere, ma ancora più da valorizzare e rendere feconda per questi nostri tempi.
    Ma poi sentiamo di essere in non piccola parte responsabili e della vocazione dei confratelli che ci circondano (nessuno di noi è un'isola, e ognuno, ne abbia coscienza o no, influisce sulla vocazione del suo vicino... e del meno vicino...) e delle nuove vocazioni di cui la Congregazione ha bisogno per vivere e per continuare ad esplicare la sua missione nella Chiesa.
    Come accennavo sopra, la crisi delle vocazioni religiose e sacerdotali è in atto in tutta la Chiesa, con zone che diremmo di punta e con altre che possiamo dire privilegiate.

    Aspetti generali della crisi

    L'Unione dei Superiori Generali ha voluto studiare e fare studiare seriamente il fenomeno nei vari suoi aspetti su un piano mondiale. Riferisco molto sinteticamente alcuni risultati che interessano anche noi. La crisi risulta più forte nei Paesi nei quali - sino ad un recente passato - le strutture ecclesiastiche erano forti e più o meno statiche: si è fatto un passo avanti troppo rapido, a cui la mentalità non era preparata. In molti Paesi la situazione viene complicata da fattori sociali, economici o politici. Si constata che le defezioni sono più rare là dove la vita è più aspra e difficile. Poche sono le defezioni dei missionari, poche dei sacerdoti e religiosi dell'Est dove le vocazioni si conservano ancora abbastanza salde; anche per i religiosi dedicati al Ministero e per i religiosi laici si constata un numero relativamente minore di defezioni.
    Sin qui la «geografia», certo assai sintetica, delle crisi vocazionali.
    Nel citato studio c'è anche una diagnosi per forza di cose piuttosto generica; tuttavia è interessante notare che le Commissioni di studio - pur riflettendo paesi e situazioni assai lontane e diverse - sono venute in sostanza alle stesse conclusioni.
    Un fatto constatato comunemente è una fede più che diminuita: tutto è messo in discussione, il contenuto della fede, i dogmi, la Chiesa, l'autorità, l'ubbidienza, gli impegni solenni: si mette in questione il valore fondamentale della vocazione; si demitizza la vita religiosa dando grande valore al matrimonio «sacramento» ignorando Concilio, Magistero...
    Si accettano senza approfondirle idee mal digerite di una filosofia e teologia più o meno marginali e in contrasto evidente col Magistero.
    Il desiderio di conoscere tutto e sperimentare ogni cosa col motivo di essere con tutti, istrada lentamente ma sicuramente verso questo indebolimento della fede.
    Molti nelle loro ansie di apostolato, ridotto spesso a impegni di carattere temporale, affermano di voler essere «con gli altri», ma con i fatti dimostrano di essere «come gli altri».
    Di qui una vita spirituale e religiosa sempre più pallida e debole. D'altra parte l'inefficacia di tanti atti di culto, di sacramenti, di pratiche divenuti fatti di routine, crea uno stato di apatia, di vuoto e di richiamo verso «qualche altra cosa» o «un'altra persona». Di qui anche la ricerca di relazioni e di contatti specialmente femminili motivati da attività di ministero, la familiarità eccessiva con i giovani, cause che provocano colpe morali che si cerca di giustificare sul piano della dottrina e della fede.
    È anche vero che spesso la comunità per un complesso di cause strutturali ed umane non offre al soggetto quel calore di carità di cui ogni essere umano sente il bisogno spingendolo così a trovare compensazione fuori della comunità.
    C'è anche una crisi di fiducia nelle strutture sia della Chiesa che della vita religiosa o nelle attività esercitate dagli Istituti Religiosi.

    Cause lontane della crisi vocazionale

    A tutto questo si aggiungano elementi e motivi provenienti da lontano, che le varie Commissioni di studio hanno dovunque trovato presenti nelle crisi: la mancanza di selezione che ha portato avanti persone prive di autentica vocazione, che avrebbe dovuto essere studiata nel periodo di formazione; difetto nell'opera di formazione, che non è ' giunta a maturare convenientemente certi aspetti della vita umana, che poi mettono in crisi la perseveranza nella vocazione.
    Un elemento poi che non manca mai come componente della crisi vocazionale è il decadimento - e spesso l'abbandono totale - della preghiera: il che è strettamente legato all'indebolimento della fede.
    Infine si riconosce che la pubblicità data alla problematica e alla crisi della vocazione sacerdotale e religiosa in chiave negativa, e più ancora alle defezioni, specialmente ad alcune che fanno più notizia, produce un effetto deprimente in anime incerte e deboli, aggravando in esse Io stato di crisi e accelerandone l'epilogo purtroppo negativamente.
    Questo il quadro, certamente doloroso, che risulta dallo studio promosso dai Superiori Generali. Come dicevo sopra, ho dovuto necessariamente sintetizzare, ma mi pare ci sia sufficiente materia per renderci conto e della situazione e delle cause più generali della crisi, che viene però a colpire anche noi, poiché non possiamo pretendere di vivere in una riserva, o in un hortus conclusus.
    Ma appunto per questo, pur riconoscendo che molte constatazioni fatte dai Superiori Generali si attagliano anche a noi e che i rimedi emergono già dalla descrizione della diagnosi, tuttavia mi sembra non solo utile, ma doveroso, dire qualcosa di più specifico riguardo alla nostra situazione.
    In una famiglia di adulti si deve parlare con chiarezza anche dei tristi eventi.

    La crisi nella Congregazione

    Sino al 1964-65 la crisi era limitata ad alcune Ispettorie e compensata in Congregazione dalla crescita di molte altre.
    Già nel 1966-67 si cominciò a notare qualche leggera flessione, che è continuata, anche se non violenta, in questi due anni.
    Mi sembra opportuno, perché abbiate una conoscenza non deformata della situazione, fornirvi alcuni dati.
    La differenza in meno dei soci in Congregazione tra l'anno 1965 e il 1969 compreso è in realtà di circa 250 confratelli. A tale cifra vanno aggiunti circa 150 confratelli di oltre-cortina defunti o ritiratisi nell’ultimo decennio, dei quali prima non si era potuto avere informazione alcuna.
    Molte Ispettorie hanno ancora un incremento naturale annuale di vocazioni. In Europa l'Ispettoria Jugoslava (da cui presto si staccherà la Croazia) dal 1965 al 1969 ha segnato un incremento di 112 confratelli.
    Così pure hanno avuto ancora un certo incremento alcune altre Ispettorie d'Europa; però l'andamento delle Ispettorie d'Europa e dell'America del Nord accusa un calo, per alcune piuttosto sensibile, anche per le uscite non compensate da nuove vocazioni, mentre per la maggior parte delle Ispettorie è discretamente contenuto.
    Le Ispettorie dell'America Latina nel complesso hanno un movimento calante, alcune assai sensibile, anche se qualcuna segna ancora una costante linea di incremento.
    Le Ispettorie dell'Asia segnano tutte, eccetto due, un confortante aumento: Vietnam e Filippine sono in testa.
    Anche l'Australia dal 1965 al 1969 ha sempre avanzato.
    Vi farà piacere conoscere come si presentano i nostri noviziati per l'anno in corso 1969-70.
    Secondo i dati pervenuti al Centro, il numero complessivo dei novizi è di 673, così suddivisi: Europa 359, di cui 105 in. Italia, 120 nella Spagna, 134 nelle altre Ispettorie di Europa (escluse la Cecoslovacchia e Ungheria); America (compresi gli Stati Uniti) 186; Asia 118, di cui 69 in India e 35 nel Vietnam; Australia 10; Africa: è sospeso il noviziato. È da notare che anche altre Ispettorie (otto) hanno sospeso il noviziato, in quanto hanno prolungato il corso di studi che lo precedono.
    Una constatazione che deve far pensare è la notevole diminuzione (e in certe Ispettorie completa mancanza) di novizi coadiutori. Il fatto invita tutti, ma specialmente gli Ispettori, a serie considerazioni, anche in vista del Capitolo Generale. La nostra Congregazione ha nel salesiano coadiutore una componente essenziale della sua natura e della sua missione.
    Concludendo questa esposizione, la diminuzione complessiva del numero dei soci è un fatto che - anche se con pena - dobbiamo constatare.

    I fratelli che hanno lasciato il sacerdozio

    Detto ciò, dobbiamo tener presente che sono due le fonti della passività. È appunto su questi due fronti che dobbiamo sentirci mobilitati: contenere le perdite (ma le vere perdite) delle vocazioni già avanti nel curriculum salesiano, accrescere le nuove vocazioni (naturalmente autentiche vocazioni).
    A proposito delle perdite, se tutte sono sempre motivo di tristezza, quelle di nostri fratelli che lasciano il sacerdozio, lo sentiamo nel cuore, ci rattristano profondamente.
    Il fatto più grave di questi anni è certamente quello della crisi di questi nostri fratelli. I giornali hanno pubblicato l'anno scorso una statistica dei sacerdoti ridotti allo stato laicale. Fra gli Istituti religiosi la nostra Congregazione compariva al sesto posto. Bisogna però dire che nella statistica, come precisò poi l'Osservatore Romano, si computavano molti casi che rimontavano a decine di anni addietro e venivano regolarizzati in questi anni: e per questo motivo e in relazione al numero totale dei nostri sacerdoti, la percentuale era di fatto notevolmente inferiore a quella indicata dai giornali.
    Ma è anche vero che tali perdite sono continuate, e che - anche se ridimensionate nel numero - non cessano di essere profondamente dolorose, specialmente quelle di alcuni fratelli che per età o per ufficio suscitano più profondo senso di pena e di tristezza.
    Nel 1969 i confratelli sacerdoti ridotti allo stato laicale sono stati esattamente 59; di essi una decina erano irregolari da molti anni ed hanno potuto essere regolarizzati. I sacerdoti attualmente in Congregazione sono oltre 11.000.
    Sarebbe interessante un esame di quanto scrivono questi poveri nostri fratelli e conoscere certe confessioni: ci sarebbe assai da meditare.
    Un particolare mi piace qui notare che viene a rispondere a certe voci: lasciando la Congregazione, la stragrande maggioranza ha parole di profonda riconoscenza per quanto di bene ha ricevuto da essa. Uno, non molto tempo fa, mi scriveva testualmente: «Alla Congregazione io debbo tutto, per me è stata madre munifica e benefica». Lo stesso pensiero con parole diverse esprimono molti altri. Ma tutto questo non può cancellare il nostro dolore e non può esimerci dal fare il nostro esame di coscienza.

    La nostra responsabilità

    Noi dobbiamo chiederci, tutti indistintamente, con sincerità di cuore, quali responsabilità abbiamo dinanzi a queste defezioni di nostri fratelli. So quale può essere la risposta di qualcuno. Ma io ribatto: - Noi non possiamo conoscere e tanto meno interferire sul mistero della coscienza umana; questi nostri fratelli risponderanno essi dinanzi alla loro coscienza e a Dio stesso, ma a noi incombe il sacrosanto dovere di interrogarci: Che cosa a suo tempo toccava fare a noi come Superiori, come fratelli, per evitare a quel fratello, a quell'altro, l'estremo passo? E che cosa facciamo e possiamo fare oggi per evitarne degli altri? E questa domanda ci investe come singoli e come comunità, come uomini di governo ad ogni livello, come confratelli aventi sempre una qualche responsabilità, ci si chiami confessore, prefetto, provveditore, assistente...
    Mi rendo conto che la domanda investe una montagna di problemi e di impegni per tutti, mentre bisogna riconoscere che non si può dire sempre che tutto dipende da noi; ma, ripeto, a noi in questa sede tocca vedere la nostra parte di responsabilità.
    E questo vale, non solo nei confronti dei sacerdoti che ci lasciano, ma per ogni confratello, in modo particolare per i giovani (che offrono la più alta percentuale di defezioni), i quali oggi sono premuti - e violentemente - da una girandola di idee, di problemi o creduti tali, che respirano, per così dire, nell'aria, un po' dappertutto. Bisogna avvicinarli personalmente (questo vale specialmente per i Direttori), fare sentire il nostro affetto, farli parlare, ascoltarli, comprenderli; in un clima di sincera amicizia è assai più facile chiarire, sceverare l'oro dalla ganga, e quindi orientare, guidare, correggere...
    Se è vero che ognuno è responsabile della propria vocazione, non è meno vero che tanti elementi e valori che la difendono, la potenziano, la rendono gioiosamente vitale, sono legati fatalmente all'opera di ciascuno di noi, ma specialmente di coloro che debbono essere gli animatori delle nostre comunità.

    Una parola ai giovani

    E ai giovani confratelli, sacerdoti e non sacerdoti, che cosa dirò? - Voi, fra l'altro, attendete e con impazienza una Chiesa e una Congregazione diverse da quelle che si presentano a voi oggi. In molte cose avrete anche ragione. Però, anzitutto... videte quod tractatis . Credete che basti il vostro «sentire», il vostro punto di vista, perché tutto senz'altro si cambi? Come è possibile cambiare tutto o quasi in Congregazione secondo le idee di questo o di quello? Se per ipotesi si dovesse accettare questo principio, non ci vuole molto sforzo per rendersi conto che sarebbe il caos, la dissoluzione, e questo vale non solo per la Congregazione, ma per qualunque vita associata, pur dovendo aggiungere che noi non siamo un sindacato o un partito politico.
    D'altra parte non possiamo ignorare che ci troviamo fortunatamente alle porte di un Capitolo Generale Speciale, al quale la Chiesa assegna appunto il mandato di rivedere, di rinnovare, nella fedeltà al carisma del nostro Padre, tutto quanto occorre per dare vita feconda alla Congregazione dinanzi ai nuovi tempi.
    È il modo più logico, saggio e ragionevole (e qualcuno direbbe anche democratico) per fare non dei passi comunque, ma per avanzare, progredire e migliorare secondo la nostra finalità. Naturalmente prima nei Capitoli Ispettoriali Speciali ai quali direttamente o indirettamente hanno tutti voce, quindi in quello Generale, si studierà, si discuterà con tutta libertà, con senso di responsabilità e specialmente con vero amore alla Congregazione, quell'amore che si preoccupa di tener sempre presente Don Bosco, il suo spirito, la sua missione, il Concilio, il Magistero; e si prenderanno in nomine Domini tutte quelle risoluzioni, anche coraggiose, che occorreranno al caso.
    È questa la via onesta, limpida, sicura per arrivare all'auspicato rinnovamento: altre vie non ci possono essere.
    Ma vorrei ancora aggiungere: - Cari fratelli, giovani e anziani, non illudiamoci, le riforme, anche le più geniali e ardite, a nulla gioveranno se non si riformano gli uomini, se non ci riformiamo noi! Per questo dico a tutti, a chi esercita l'autorità e a chi non ha questa preoccupazione: Mentre ci prepariamo al Capitolo Speciale, preoccupiamoci di attuare i tanti orientamenti del Capitolo Generale XIX, che, pur validissimi, attendono ancora la loro piena attuazione.
    Tale attuazione in definitiva gioverà, se non a eliminare, certamente a diminuire tanti di quegli elementi che alimentano la crisi delle vocazioni.
    Se infatti si riesamina con un po' di attenzione il quadro sopra riportato sulla crisi delle vocazioni, anche nel nostro ambiente ci si accorge subito che tante carenze si possono eliminare se ci si mette seriamente ad attuare norme precise del Capitolo Generale XIX.
    Crisi di vocazione è crisi di fede Penso ora che convenga, proprio in questa sede, richiamare e sottolineare alcuni princìpi e orientamenti di valore perenne che sono il supporto insostituibile dì ogni vocazione religiosa - lo sono oggi, lo saranno domani dopo il Capitolo Generale Speciale e sempre.
    Nel suaccennato studio dei Superiori Generali si mette in evidenza come alla base dei complessi e vari motivi delle defezioni vocazionali c'è sempre una crisi di fede, il che non comporta sempre la perdita totale, ma almeno un illanguidimento, un oscuramento della fede.
    La medesima constatazione si riscontra in altre ricerche sull'argomento. La cosa è logica. La vocazione è un fatto intimamente legato al trascendente, alla fede nel sovrannaturale. Senza la fede la nostra vocazione non ha senso, non si regge, manca della base.
    Non per nulla Maritain dice: «La vocazione religiosa non ha alcun parametro umano per essere catalogata». E noi aggiungiamo: è sopra l'umano.
    Cerchiamo allora di approfondire questa realtà fondamentale.
    «Per rafforzare e difendere la nostra vocazione bisogna partire dalla fede, fondamento e motivo di essa». Ho trovato questa affermazione, con gradita meraviglia, in uno psicologo moderno che studia, dal suo punto di vista, i problemi vocazionali. Quest'uomo di scienza, evidentemente cristiano, nel corso di un lungo dibattito, promosso da un nostro Capitolo Ispettoriale dell'America Latina, ripete per ben tre volte che «attualmente solo per mezzo della fede si può mantenere la vocazione».
    Orbene, noi abbiamo ricevuto dal Signore questo dono sovrannaturale nel Battesimo che lo ha radicato nella nostra anima. Ora, la fede nella nostra vita deve scaturire dal nostro spirito, di qui deve traboccare nella nostra esistenza.
    Purtroppo dobbiamo confessare che la nostra fede è spesso come dice uno scrittore - piuttosto epidermica, superficiale, è informazione, un fatto esterno, una frase fatta, non esplode dal di dentro per trasformarsi in vitalità.
    Riconosciamolo: la nostra fede tante volte non sembra che dorma? Non è forse una reminiscenza in certo modo sedimentata nel nostro spirito, più che vibrazione profonda del cuore di Dio dentro di noi? Dinanzi a un dono stupendamente grande quale è la fede, forse la fede che noi pratichiamo è più una incredulità che fede.
    Dobbiamo liberare la nostra fede - che è capacità di vedere l'invisibile, di ascoltare la voce del Dio vivo, persona viva - dalla ruggine di una certa abitudine, di un certo automatismo, perché il Signore faccia realmente da Signore nella nostra esistenza.
    E perché questo avvenga c'è un mezzo: la preghiera intrisa di fiducia e di umiltà che dobbiamo rinnovare ogni giorno con l'atteggiamento del poveretto del Vangelo dinanzi a Gesù: «Signore, credo, voglio credere, ma vieni in soccorso della mia incredulità».
    La nostra vocazione è intimamente legata, prende senso e si regge solo sulla fede.
    La nostra vocazione è una donazione totale a Dio Orbene, alla luce di essa rivediamo questo secondo prezioso, dono che il Signore ha voluto darci dopo quello della fede col Battesimo. Anzitutto conviene tenere ben presente che il Signore - attraverso le sue vie misteriose - ci ha chiamati alla vita consacrata nella Congregazione salesiana: la nostra, dunque, è vocazione religiosa e salesiana.
    Il sacerdozio non è, di per sé, l'oggetto della vocazione religiosa, della nostra consacrazione salesiana.
    Mi pare necessario mettere in evidenza questa realtà, perché appunto per mancanza di chiarezza non raramente si constatano idee errate e atteggiamenti non meno errati e crisi che mancano di basi oggettive.
    Noi dunque, come Salesiani, siamo dei consacrati. È una parola che va approfondita: essa ci svela o almeno ci fa risentire tutti i valori e le implicanze che contiene.
    Ognuno di noi a suo tempo ha compiuto in piena libertà e consapevolezza un gesto non tanto giuridico quanto religioso, nel senso profondo del termine, di donazione totale a Dio.
    Con la nostra consacrazione siamo diventati, per nostra volontà, proprietà di Dio - esclusiva, piena, integrale -; gli abbiamo offerto, definitivamente, tutto ciò che siamo, tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che possiamo.
    Gli abbiamo donato il corpo con le sue membra, con le sue potenze e facoltà; abbiamo donato l'intelligenza e la volontà: una oblazione di una integralità veramente sconcertante. E sarebbe veramente tale se non avesse una adeguata motivazione: l'amore di Dio.
    Noi abbiamo rinunciato in piena e lieta libertà a valori autentici - come per esempio il matrimonio - ma per un supervalore, per Dio, per amare Lui, e quindi per amare meglio.
    Noi ci siamo fatti proprietà assoluta, schiavi integrali di Dio addirittura, come dice il Galot, ma solo per amore del Padre, per seguire Cristo che si è dato tutto al Dio Padre.
    Come vedete, la nostra vocazione ha due motivazioni, due sorgenti vitali: la fede anzitutto, e con essa l'amore, che è una conseguenza della stessa fede, la carità, che, partendo da Dio nostro Padre e da Gesù Cristo nostro fratello, si rifrange come per una legge fisica sul prossimo secondo la parola di S. Giovanni: «È menzogna amare Dio (che non si vede) se non ama il prossimo (che si vede)».
    L'apostolato quindi, il servizio dei fratelli, che secondo il carisma salesiano sono di preferenza i giovani, e fra questi i più bisognosi, è una conseguenza e una estrinsecazione del nostro amore verso Dio che ci ha portato alla nostra donazione totale a Lui, e per Lui ai nostri prossimi.
    Da tutto quanto detto ci si rende conto che noi siamo Salesiani perché crediamo in Dio e di conseguenza nell'amore del Padre, nostro bene supremo, per noi; e al suo amore rispondiamo con la nostra totale donazione che si traduce in amore di servizio per le anime.
    La nostra consacrazione quindi non è diretta, di per sé, ai prossimi; solo Dio può rendere sacra una donazione. Noi non siamo dei «volontari della pace», o dei semplici tecnici dello sviluppo: siamo qualcosa di profondamente diverso e più nobile. Noi abbiamo professato i consigli evangelici per seguire Cristo povero, casto, obbediente. E seguendo il Cristo totale, lo seguiamo in quella carità che Egli ha portato sulla terra, carità che per essere vera e cristiana si sviluppa sempre inscindibilmente in due direttrici: Dio e prossimo.
    Questa è l'essenza e la natura della nostra vocazione.
    Queste realtà dobbiamo tenerle ben presenti e renderle operanti affinché si mantengano limpide e vivaci anche di fronte alle difficoltà, alle diverse tentazioni, alle stesse confusioni di oggi; alimentate dalla preghiera semplice che è contatto filiale con Dio, esse ci faranno vivere in generosa e fedele coerenza la nostra vocazione, più che certe discussioni o dibattiti, più che i tanti articoli che spesso servono solo a confondere le idee e a turbare le coscienze.
    Ho detto sopra: fedele e generosa coerenza. Mi pare necessario sottolineare queste parole. Se crediamo, se appunto credendo veramente abbiamo fatto la nostra totale donazione per amore verso il buon Dio, non è possibile, oggi specialmente, trascinare una vocazione nella mediocrità, nella routine, peggio nel compromesso.
    La prima vittima del compromesso è la stessa persona che lo vive. Nel fondo dell'animo è scontento e per questo spesso è amaro, critico, contestatore. Anche i laici reagiscono duramente quando si accorgono di trovarsi dinanzi a chi vive la sua vocazione incoerentemente, con una vita in cui sembra ci siano due anime che si annullano a vicenda.
    Questo avviene specialmente quando si vive nel compromesso come si dice oggi - affettivo.
    Non mi sembra fuor di luogo fermarsi un poco su questo argomento: è uno dei motivi che ricorrono più frequenti nelle crisi vocazionali.
    Il compromesso affettivo Maturità affettiva, integrazione affettiva.
    Oggi nell'ambiente religioso si parla e si scrive di complementarità dei sessi, di abolizione della separazione dei sessi, di una cosiddetta terza via tra matrimonio e celibato consacrato.
    Non pochi dei paladini di questi nuovi principi hanno finito con l'imboccare la via del matrimonio; e non fa meraviglia. Queste teorie infatti, sono - a ben provarle - deviazioni insostenibili nella vita religiosa.
    Se la nostra consacrazione è totale (e non credo che di ciò si possa dubitare), come si può pensare a compromessi del tipo a cui portano tali teorie? Nessun documento che provenga da una qualsiasi autorità della Chiesa ha mai detto cose simili.
    Purtroppo c'è chi in pratica si illude di poter attuare questa «terza via», pretendendo accordo tra castità consacrata e vita mondana, relazioni femminili più o meno spinte, che si cerca di avallare con varie motivazioni.
    C'è chi, senza averne alcun incarico, si cerca apostolati ma tali apostolati, se non sono affidati dalla obbedienza, se non sono richiesti dal vero bisogno delle anime, se non sono attuati nei modi, nei tempi e nello stile che si devono esigere (e i laici stessi esigono) da un salesiano, non sono, non possono essere un alibi per una evasione, per quella terza via che, purtroppo, finisce spesso col portare all'abbandono della vocazione, anche dopo molti anni di professione e di sacerdozio.
    L'esperienza ci ripete ogni giorno che non bastano a difenderci gli stessi cinquanta o sessant'anni, le alte cariche che si ricoprono, non basta neppure la consacrazione episcopale.
    Si dirà che non si può vivere entro quattro mura, che bisogna aprirsi, che non si può e non si deve guardare alla donna come si faceva nel passato, ecc.
    Certo, bisogna aprire, e la Congregazione incoraggia tutte quelle aperture che sono costruttive per il salesiano e per le anime. Bisogna aprire; ma questa parola non può servire perché chiunque butti allo sbaraglio i confratelli specie se giovani.
    Ad esempio, a proposito della cosiddetta mixité, ci sono nonne e principi precisi: come ci si attiene? D'altra parte, si fa osservare che in certi casi si porta tanto zelo nell'apostolato femminile, mentre nello stesso ambiente i giovani, la nostra porzione specifica, sono praticamente abbandonati.
    Ci sono al riguardo tristi esperienze, qua e là, anche recenti. La verità è questa: le realtà umane rimangono quelle di sempre. L'uomo è sempre uomo accanto a una donna. Ma poi con tutte le sollecitazioni erotiche e afrodisiache che imperversano un po' dovunque, il consacrato è ancora più esposto, proprio perché non destinato al matrimonio.

    Moniti che fanno pensare

    Mons. Ancel, il noto vescovo dei preti operai, ha parole di sano e spregiudicato realismo che però riecheggiano l'insegnamento di sempre.
    «Se vogliamo conservare una perfetta castità - egli dice - dobbiamo saper rinunciare a ciò che, di fatto, determinerebbe in noi delle ossessioni o impulsi cui non potremmo resistere.
    Colui che crede di poter leggere tutto, sentire tutto e vedere tutto, colui che rifiuta di dominare la propria immaginazione e i suoi bisogni affettivi non deve impegnarsi nella via del celibato».
    E il Card. Pellegrino, commentando il passo citato a giovani chierici, aggiunge: «Si tratta di scegliere: credete di poter leggere tutto, sentire tutto, vedere tutto, non volete impegnarvi a dominare l'immaginazione e i bisogni affettivi? Allora vi conviene prendere un'altra strada, ma per tempo. Se qualcuno dice: Io posso leggere qualunque cosa, vedere qualunque cosa, senza alcun pericolo, senza alcun turbamento - continua il Card. Pellegrino - non posso prenderlo sul serio. Insomma: non siete mica d'acciaio, siete carne e ossa anche voi».
    E Mons. Ancel conclude: «Dio non potrebbe restarvi fedele: non si può esigere da Dio che stabilisca per voi una salvaguardia miracolosa».
    Ma un monito desidero qui riportare che viene da coloro che sono stati per tanti anni a noi uniti dai vincoli della consacrazione e del sacerdozio, e poi ci hanno lasciati abbandonando consacrazione e sacerdozio.
    Di fronte a chi sembra cancellare la realtà del peccato originale, le confessioni di questi fratelli invitano a riflettere.
    Nello studio sociologico dal titolo: Il dramma degli «ex», don Burgalassi riporta questi risultati sulle cause dell'abbandono.
    Il 95% le attribuisce all'aver lasciato la preghiera; il 75% all'amore per una donna; l'83% al disagio di una coscienza non più in pace.1 E don Burgalassi conclude: «Gli ex non hanno difficoltà ad ammettere che la loro decisione è stata la logica conclusione di uno stato che durava dal tempo ("Non vivevo da tempo in pace con la mia coscienza") in cui si erano allentati e affievoliti i normali mezzi di aiuti spirituali».
    Come si vede, non si arriva al triste epilogo improvvisamente, e a un certo punto si intersecano e si confondono cause ed effetti, abbandono di preghiera e relazioni femminili; purtroppo la conclusione è sempre dolorosamente negativa.
    Non vorrei che qualcuno riportasse da tutto quanto detto l'impressione di eccessive paure, di chiusure ad oltranza. Non si vuole assolutamente nulla di tutto questo, lo ripeto lungo tutta la mia lettera, ma solo si vuole fare un discorso leale e costruttivo; esso muove da un senso di realismo, che non vuole coprire di nebbie fumogene, di parole reboanti, ma equivoche, la verità.
    E la verità è questa: la nostra consacrazione esige un cuore indiviso. Chiunque allora comprende, anche da un punto di vista di umana dignità, la situazione ripugnante in cui verrebbe a trovarsi il salesiano che volesse vivere una vita di compromesso. Bisogna avere il coraggio e la lealtà coerente di una vera scelta.
    Ho insistito sinora su quella che deve essere la linea di difesa L'Autore della ricerca fa notare che la percentuale totale supera il 100% perché ogni intervistato ha operato più scelte, della nostra castità consacrata, ma come potrei tacere sull'altra verità? L'aiuto primario alla nostra castità viene dalla Grazia e conseguentemente dalla preghiera.
    Avete sentito al riguardo le confessioni ammonitrici degli ex-sacerdoti: sentiamo ora le parole di un grande teologo del nostro tempo, Padre K. Rahner: «...trattandosi di teologia del celibato (vale bene per noi consacrati!), si tratta di una parte della teologia che si acquista non dalla cattedra accademica, non dalle chiacchiere dei molti, non dalle mediocri compensazioni, ma si acquista in ginocchio, nella preghiera» (Lettera sul celibato).
    E concludiamo queste considerazioni nella luce del nostro Padre. Don Bosco ebbe a trattare largamente col mondo femminile (basta leggere le Memorie e l'epistolario); in tutti questi rapporti non si mostra mai un complessato, ma nella sua amabile socievolezza fu sempre sacerdote.
    Guardiamo dunque a Lui che anche in questo ci è magnifico maestro: cerchiamo anzitutto di essere e quindi di vivere di pensare, di agire e di mostrarci ovunque sacerdoti come Lui: e come Lui potremo vivere la nostra integrale e gioiosa castità ed esercitare serenamente il nostro apostolato a bene nostro e delle anime.

    Nessuno di noi è un'isola

    Ma nessuno di noi è un'isola.
    Siamo responsabili anche della vocazione dei confratelli. 11 Mandavit unicuique de proximo suo mi pare che valga anzitutto per la nostra famiglia.
    Si parla di corresponsabilità: appunto noi - proprio in questo campo - possiamo costruire o distruggere, salvare o perdere delle vocazioni (anche senza averne coscienza). I Superiori (che non sono i soli Ispettori e Direttori, anche se questi hanno la primaria responsabilità della vocazione dei confratelli) ne abbiano veramente cura.
    Anche in una comunità responsabile, di adulti maturi, come si dice oggi, i confratelli non possono essere lasciati a se stessi, né la fiducia può voler dire disordine, caos, le cui vittime in definitiva vengono ad essere gli stessi confratelli.
    Ma c'è anche da dire che ogni salesiano rimane sempre un uomo: ha bisogno di conforto, di guida e talvolta anche di aiuto. La carenza di questi elementi spesso viene a determinare situazioni che incidono negativamente, anche se lentamente, sulle vocazioni. Tale costatazione vale specialmente (non si dice esclusivamente) per i confratelli tirocinanti, per gli studenti universitari.

    Atteggiamenti frustranti

    Ci sono però responsabilità più vaste, più profonde che si riflettono sulla vocazione dei confratelli e che toccano in particolare quanti esercitano ai vari livelli delle comunità una qualche autorità, ma non solo essi.
    Mi spiego. Il Ridimensionamento...: la difesa irrazionale del passato quante e quali conseguenze ha sulla vita e sulla vocazione del salesiano di oggi!... Il rinnovamento auspicato dal Concilio e dal Capitolo Generale XIX non ancora attuato...: si può pensare che lasci indifferenti i confratelli? Si pensi, per esempio, al problema della scuola non animata da un soffio vivificante di formazione cristiana; non possono ignorarsi certe frustrazioni di confratelli dinanzi a situazioni pertinacemente statiche proprio in questo settore del nostro apostolato. Ci si chiude ermeticamente dinanzi a istanze ragionevoli e costruttive (per esempio il modo di esercitare l'autorità, la corresponsabilità...) provocando reazioni e lasciando ad un altro estremismo certe iniziative che purtroppo peccano per eccesso: e così «rifiutando tutto» quasi fatalmente si finisce col provocare quelli che «accettano tutto».
    La Congregazione non è e non vuoi essere una istituzione sclerotizzata... ma purtroppo certuni, senza accorgersene, la presentano in questo atteggiamento. Bisogna presentare la Congregazione con un volto e un passo giovanile.
    Non è ammissibile il quieta non movere: la storia non ci attende.
    Ma ciò non vuol dire che tutto sia lecito, che chiunque possa prendere ogni iniziativa che gli salta in testa. I documenti sia consiliari che postconciliari dicono chiaramente che gli «esperimenti» devono essere promossi e comunque sempre preventivamente approvati da chi ne ha l'autorità: la norma è dettata da saggia esperienza.
    Ma detto ciò, è forse il caso di chiederci: che cosa abbiamo fatto per realizzare de facto il Capitolo Generale XIX e il Concilio nella Ispettoria, nella casa, nella parrocchia? Per tante e tante di tali attuazioni importanti e preziose non occorrevano ingombranti permessi, ma solo volontà effettiva di attuarle.
    Non è il caso allora di verificare come abbiamo risposto alle ragionevoli attese, in questo campo, dei confratelli? Sarebbe assai triste se certe autentiche vocazioni avessero dovuto subire penose frustrazioni per la chiusura di chi avrebbe dovuto.., aprire. Per esempio: che cosa si fa per la informazione dei confratelli sulla vita, sugli interessi ed i problemi della casa, che cosa per far vivere la comunità educativa, per la vita liturgica della comunità dei confratelli e dei giovani? Ma c'è anche il difetto opposto (è sempre vero che in medio stat virtus). Non si può, in nome di un rinnovamento di interpretazione tutta personale, far man bassa di ogni norma di vita religiosa, anche delle più essenziali, riducendo una comunità religiosa ad un insieme di persone che si trovano insieme per i pasti.
    So bene che è difficile evitare, specie in questo momento, sbandamenti ed abusi. È vero che questo è spesso il tormento di ogni persona che abbia responsabilità: ma la posta in gioco è di tale importanza che ogni sacrificio deve essere affrontato per evitare tali sbandamenti: c'è di mezzo la vita della Congregazione e non si può essere in alcun modo disertori dinanzi a questa prospettiva.

    Le componenti che alimentano la nostra vocazione

    Ma ci sono elementi essenziali che, mentre interessano la nostra vocazione personale, in pari tempo servono ad alimentare nella comunità la consacrazione e la vocazione di ogni suo membro.
    La nostra consacrazione e quindi la nostra vocazione non sono fatti di un'occasione, di un momento, ma hanno bisogno di rinnovarsi, possiamo dire ogni momento.
    Orbene, questo rinnovarsi continuo della nostra consacrazione totale e gioiosa, viene ad essere efficacemente potenziato da quel «clima» che è frutto, nelle comunità, di varie componenti, le quali a loro volta operano per effetto dell'azione dei singoli membri ed in particolare di quanti hanno influenza o responsabilità nella vita della comunità.
    Quali sono le principali componenti di questo clima alimentatore della vocazione nella comunità?

    a) La preghiera
    Anzitutto la preghiera.
    Nello studio dei Superiori Generali sulle crisi vocazionali a un certo punto si legge: «Chi sa pregare persevera»; e si riporta come controprova il fatto che i falliti vocazionali confessano in genere di avere iniziato il cammino dell'abbandono lasciando la preghiera.
    La stessa cosa confermano direttamente ed esplicitamente gli ex sacerdoti interpellati da don Burgalassi, il prete sociologo, per una ricerca sulle cause dell'abbandono del sacerdozio.
    Come ho riferito precedentemente, il 95% di essi mette fra gli elementi che lo hanno causato l'abbandono della preghiera.
    Non potrebbe essere altrimenti.
    Se è vero che la preghiera è contatto con Dio, è fonte e canale della grazia, assolutamente necessaria per una vita consacrata, dobbiamo riconoscere tutta la drammatica verità dell'affermazione: «Chi sa pregare persevera».
    Ma la preghiera non è tanto il pregare comunque, ma il saper pregare, ed è forse questo, non poche volte, un punto manchevole nella nostra vita personale, e non meno nelle nostre comunità.
    Non a caso il Perfectae Caritatis definisce chiaramente come la preghiera debba essere la preoccupazione primaria di ogni consacrato; e si può dire che riprende e ribadisce questo concetto ad ogni pagina.
    Sentiamone un passaggio fondamentale: «Coloro che fanno professione dei consigli evangelici, prima di ogni altra cosa cerchino ed amino Iddio che per primo ci ha amati e in tutte le circostanze si sforzino di alimentare la vita nascosta con Cristo in Dio... Perciò... coltivino con assiduità lo spirito di preghiera e la preghiera stessi., attingendoli alle fonti genuine della spiritualità cristiana» (PC 6).
    In pochi periodi abbiamo gli elementi essenziali della vera, e quindi efficace, preghiera. La ricerca costante e l'amore concreto e fattivo di Dio, la vita nascosta in Cristo con Dio, ecco le sorgenti profonde che rendono vivi e operanti la preghiera e lo spirito di preghiera, alimentati dalle fonti genuine della spiritualità cristiana, le quali fonti genuine sono anzitutto la Parola di Dio e il Corpo di Cristo, come fa osservare uno scrittore (P. Anastasio, in La Preghiera).
    «Cristo Pane e Cristo Parola» sono gli alimentatori insurrogabili della vita e quindi della vocazione religiosa.
    C'è da chiedersi allora come nelle nostre comunità si coltivi questa preghiera che per sua natura deve portare a fare «comunione», senza che peraltro si escluda quella preghiera personale, soprattutto nella forma dell'orazione mentale, tanto necessaria alla «più intima ed efficace partecipazione al sacrosanto mistero dell'Eucaristia e della preghiera pubblica» (ES 21).
    Se la preghiera ha tale primaria importanza, bisogna che di fatto, nelle comunità, le sia riconosciuta, «difendendo a prezzo di qualunque fatica, la dimensione arante della vita consacrata». Questo vale per i singoli salesiani, e più ancora per coloro che hanno il mandato di essere gli «animatori» delle comunità: non si può dimenticare infatti il pericolo della secolarizzazione che sovrasta oggi continuamente la vita consacrata e apostolica; appunto per questo dobbiamo accostarci maggiormente a Cristo: riusciremo così anche a dare Cristo al mondo.

    b) La carità Dalla preghiera, contatto filiale, personale e comunitario con Dio, nasce la carità fraterna, anche essa componente essenziale del clima che dà vita alla nostra vocazione.
    Quest'anno, e non a caso, ho voluto richiamare la nostra Famiglia alla pratica cosciente e concreta di questa virtù teologale, dico teologale perché l'amore verso i fratelli per chi ha fede - e noi vogliamo averla - è virtù teologale come l'amore di Dio.
    Si sono versati fiumi di inchiostro su questa virtù. Ma è anche vero che oggi, forse, proprio negli ambienti ecclesiastici e religiosi si deve costatare una penosa carenza di questa virtù.
    Non è il caso di fare una diagnosi: il fatto, purtroppo, esiste.
    Una comunità fredda, meschina, astiosa, una comunità i cui membri non abbiano tempo o modo o voglia di incontrarsi in serenità, che non si sentano parte viva di una famiglia di adulti, che non si aiutino, che non si compatiscano nei difetti, non si sopportino nelle diversità di idee e di mentalità, non si suppliscano all'occorrenza nel lavoro, non fa meraviglia se si trasforma in tomba per non poche anime. È penosamente vera la parola del Curato di Bernanos: «L'inferno è non amare più».
    Quanto importa accogliere la parola che il Signore dice ad ogni membro delle nostre comunità, e più ancora ai Superiori: «Amatevi come io vi ho amato, e per questo date!».
    Impegnatevi ad essere i primi a donare ai vostri fratelli! Impegnatevi ogni giorno a creare col vostro personale apporto un clima di vera carità: non sbaglierete mai. I frutti di questa donazione, in un modo o nell'altro, non potranno mancare, per i singoli e per le comunità: ce lo assicura la parola del Signore, lo conferma l'esperienza quotidiana.

    c) La povertà
    E come potrebbe mancare la povertà in una comunità che vuole veramente testimoniare la sua consacrazione e dinanzi agli esterni, e - prima ancora dinanzi ai propri membri? Lo sappiamo. Dopo il Concilio, in una misura mai avuta nel passato, si sente il bisogno di una coerenza portata sino alle ultime conseguenze nella sequela di Cristo povero.
    Ma dobbiamo anche riconoscere che alle molte parole dette e scritte non rispondono, almeno in proporzione, i fatti. Per esempio: dopo la mia lettera sulla povertà, accanto a molti lodevoli e coraggiosi sforzi, si constata pure qua e là una certa insensibilità e talvolta una penosa resistenza, un atteggiamento di difesa e di giustificazione di situazioni che si sono col tempo come stratificate, ma che non possono perdurare senza compromettere la vita, la vera vita nostra e che è anzitutto religiosa, di consacrati, di poveri volontari quindi.
    Se vogliamo dare alla Congregazione un volto giovane, se vogliamo fare accettare dalle nuove generazioni la Congregazione, quella della povertà vissuta, praticata, sofferta anche, è la via obbligata: la povertà soda, non quella della facile retorica e dell'esibizionismo, ma quella che si cala nella vita e nello stile delle singole persone, dal vestito ai viaggi, dalle macchine al vitto, alle vacanze; quella povertà che si respira nella comunità i cui membri, in ambienti semplici, ma lindi, vivono del proprio lavoro che offrono generosamente secondo le proprie forze e possibilità alla comunità, senza egoismi e scelte individuali, senza sperequazioni in funzione dei propri comodi, nemici mortali della unione fraterna e della pace; povertà che si costata nelle opere a cui si attende secondo il carisma salesiano, e nello stile che in esse si porta.
    Eludendo il richiamo di questa povertà, noi daremo alimento a quel clima di borghesismo che è il malefico anestetico di quello slancio e di quell'amore al sacrificio e alla rinunzia che sono le premesse inderogabili per una vita religiosa ed apostolica impegnata e feconda, e per attrarre in Congregazione valide vocazioni.

    d) La gioia
    Vorrei infine ricordare che senza gioia la nostra vita religiosa sarebbe come quella di una famiglia condannata a vivere in una stamberga senza sole. Mi pare di poter dire che certe vocazioni finiscono col fallire perché trovano nella comunità un clima di freddezza, talvolta di sfiducia, di amarezza e di pessimismo: con una parola ricorrente, di frustrazione.
    Nell'ambito di una lettera come l'attuale non è possibile analizzare a fondo questi stati d'animo. È vero, le cause possono essere < tante, oggettive e soggettive, con spiegazioni in certo senso giustificanti ovvero anche del tutto ingiustificate.
    Ma senza scendere ad analisi, io vorrei dire: - Se i membri della comunità vivono in una vita di fede, espressa ed alimentata dalla preghiera e dalla carità fraterna (è qui il punto), da una povertà generosa che parte dalla volontà di seguire da vicino Cristo, non è difficile, malgrado tutte le inevitabili occasioni di ostacoli, di contraddizioni, di miserie, vivere almeno in serenità.
    Ma vorrei dire qualcosa di più. Se io credo veramente alla mia vocazione, se la vivo pienamente con spirito di fede, le inefficiente, le stesse infedeltà di ogni specie da parte di chi mi circonda non mi toccano. So che io mi sono consacrato al Signore, non agli uomini: da Lui aspetto la parola che coroni la mia consacrazione. I grandi e veri santi, anche nei momenti più oscuri della vita della Chiesa, non si sono arresi, non hanno disertato, non hanno disperato anche dinanzi ad evidenti deviazioni di chi era loro accanto, financo in posti di alta responsabilità. Sapevano e sentivano che la loro fedeltà era ancorata non agli uomini, ma al Signore. Scio cui credidi. E quindi il «nulla ti turbi» di Don Bosco. Ma evidentemente questo non vuoi dire insensibilità e indifferenza.
    Dinanzi agli interessi, gli autentici interessi della Congregazione, che sono sempre anche miei, senza perdere la pace, posso e debbo fare la mia parte, e questo oggi specialmente in cui la Congregazione invita tutti i suoi figli a dare il proprio contributo al processo di rinnovamento voluto anche dalla Chiesa. I modi e gli strumenti di tale partecipazione sono a tutti noti.
    Atteggiamenti sbagliati e dannosi Ci sono purtroppo altri atteggiamenti provenienti da motivi assai diversi e per nulla «edificanti».
    Si trovano talvolta nella casa religiosa e, perché no?, forse anche in quella salesiana, persone Ie cui parole, lo stesso tono e abituale atteggiamento, denotano un cuore esacerbato, amaro, direi un'anima che continua a vivere fisicamente tra le mura della casa religiosa, si asside alla mensa comune, ne gode i vantaggi, ma vi è estranea, anzi ostile.
    Quali possono essere le cause di un tale stato d'animo? A parte i casi che interessano la sfera psichica, ne cito qualcuno a titolo d'esempio. Una vocazione sbagliata, a cui non si è posto riparo, non rettificata: è l'ago magnetico della bussola che non stando sul suo nord si agita convulsamente. «Certe anime sono tristi e amare perché non sono quello che dovrebbero essere».
    Vicino a questi casi c'è quello di chi persiste a vivere una vita di compromesso, specialmente affettivo: si direbbe una doppia vita, assolutamente incompatibile con i sacri impegni assunti. Uno scrittore, P. Fabi (Due mani piene di Dio), al riguardo dice: «La radice profonda di certi scontenti, di certi ipercritici, di eccessive velleità di evasioni, di uscite, di insoddisfazioni profonde, inspiegabili, di richieste evanescenti, di stanchezza apostolica, la radice profonda è qui, il male di cuore: la non retta soluzione del problema affettivo, la non adeguata sublimazione, la non sufficiente integrazione affettiva tramite un sincero affetto dei confratelli, dei Superiori».
    Guardando alla esperienza di ogni giorno, si deve riconoscere che l'autore coglie nel segno. A chi si trovasse in queste condizioni, riperiamo la parola del Signore: «Nessuno può servire a due padroni» e ne tiri, anche per la serenità della sua vita, le conclusioni.
    Ma c'è pure forse chi parla con amaro pessimismo delle cose della Congregazione, affermando di rimanere dentro per «far saltare tutto», e questo «per amore alla Congregazione». A parte le buone intenzioni, è chiaro che un atteggiamento del genere lascia perlomeno molto perplessi.
    Anzitutto non si comprende come - per amore - si possa tanto maltrattare la propria mamma, anche se difettosa. Ma poi i riformatori della Chiesa, e l'argomento è validissimo anche per la Congregazione, quelli che l'hanno veramente purificata e migliorata, non quelli che l'hanno dilacerata e coperta di fango, hanno sempre tenuto diverso atteggiamento: non hanno mai depositato la bomba in casa della Madre per farla saltare, senza preoccuparsi delle conseguenze, ma hanno cominciato a presentare nella propria persona, come dice uno scrittore, «il campione della stoffa che volevano vendere»; fuori di metafora, si sono presentati con tutte le carte pulite e in regola, con una vita religiosamente e sacerdotalmente esemplare, che è l'unica tessera di riconoscimento dei veri «profeti»; e poi, anziché ricorrere ad atteggiamenti demagogici ed eversori, che non costruiscono nulla, hanno agito nella carità e nel rispetto, specialmente nella preghiera, ed 'hanno finito con l'avere ragione. Ed è questa la via per dimostrare, con i fatti, che si cerca veramente la gloria del Signore, si ama la Congregazione e se ne desidera efficacemente il rinnovamento.
    Penso che sia utile, in questi momenti in cui siamo per così dire un po' tutti bombardati con un tiro incrociato di sollecitazioni e di suggestioni di ogni genere, portare l'attenzione su queste semplici e chiare osservazioni che hanno l'unico pregio di provenire dalla esperienza di uomini e cose e dal grande amore per la nostra Madre, la Congregazione.
    Un motivo di fiducia Tornando sull'argomento della gioia, pur fra tante inefficiente e incertezze, tra tanti problemi e delusioni, abbiamo motivi di coltivarle, la gioia e la fiducia: anzitutto perché siamo cristiani. Bemanos ci rimprovera in quanto, come cristiani, non è concepibile che abbiamo un volto (e un'anima) triste. Che dire del consacrato che crede e vive le parole di Gesù: «Beati i poveri... beati i casti...»? Come può essere triste il religioso che crede a Gesù-Verità? Ma poi, quando dal mio studiolo passo come in una carrellata i salesiani sparsi per i continenti, trovo tanti motivi, direi palpabili, di fiducia, di speranza e di gioia: e sono i motivi della gioia di ogni salesiano. Sì, abbiamo miserie (forse che non siamo uomini?), abbiamo tanti problemi da affrontare e risolvere (non siamo forse uomini vivi?) che urgono e che non ci danno tregua, ma abbiamo anche tanti magnifici salesiani, che non organizzano tanti dibattiti o tavole rotonde, ma vivono le Beatitudini, servono veramente il Signore, lavorano in silenzio, ma con intelligenza e dedizione, per la gloria di Dio, amano filialmente la Congregazione, ne vivono intensamente gli interessi e lo dimostrano pagando di persona senza indugiare a mettere sale sulle sue ferite, solo preoccupati di lenirle.
    Vedo queste migliaia di confratelli, e fra essi anche molti giovani, altri già maturi di anni e carichi di fatica, che, sparsi per i continenti, si sacrificano lietamente nelle missioni e nelle popolose e spesso poverissime parrocchie, nei lebbrosari e nelle misere periferie delle metropoli, li vedo impegnati negli oratori, nei confessionali, nella catechesi, tra migliaia e migliaia di orfani, di ragazzi, di giovani - operai, contadini o studenti, non importa - ai quali prodigano tutto se stessi con autentico eroismo fasciato però di incantevole semplicità; vedo molti altri ancora che nelle mansioni più svariate, dalle più umili alle più qualificate, amano il Signore in simplicitate cordis anche se ricchi di vasta e profonda cultura, e lo servono gioiosamente nella persona dei prossimi senza impastoiarsi in corrosive problematiche.
    Questa visione - che non è fantasia - come è motivo di fiducia, di ottimismo e di gioia per me, lo deve essere per voi tutti, carissimi. La Congregazione ha un potenziale magnifico di uomini che credono alla loro vocazione e rendono un grande servizio alla Chiesa, mentre vivono nel modo migliore la propria consacrazione. Come potremmo allora cadere in un atteggiamento di sfiducia e di abbandono? In ogni casa, in ogni comunità, allarghiamo la visione oltre la ristretta cerchia delle miseriole locali. Riconoscendo il tanto bene che esiste e circola nella Congregazione, pur senza ignorare limiti e carenze, sentiamoci tutti impegnati ad essere non dico alimentatori di un vacuo ottimismo, ma realizzatori di tutte le premesse che ci danno diritto a guardare al domani della Congregazione con sano e costruttivo ottimismo. Cari confratelli, non saprei suggerire mezzi e modi diversi da quelli sopra descritti, perché le nostre comunità alimentino un clima che dia forza e fiducia a vivere la nostra vocazione.
    Mi sembra, d'altra parte, che senza queste componenti - Preghiera, Carità, Povertà, lavoro e sano ottimismo - sarà difficile evitare quelle crisi che recano tanto danno a tutti.

    Le nuove vocazioni

    Ma se la prima cura e la prima responsabilità si devono rivolgere alla nostra personale vocazione e a quella dei nostri fratelli, non possiamo disinteressarci delle vocazioni future. Se ci sentiamo parte viva della famiglia, se amiamo la Congregazione e vogliamo che essa, rinnovata e ringiovanita, prosegua nel tempo la missione a cui la Provvidenza l'ha chiamata, non possiamo disinteressarci di quella che è la condizione inderogabile per la sopravvivenza feconda della Congregazione: il problema delle nuove vocazioni.
    Già in alcune Ispettorie, fortunatamente ancora poche, si constata una età media dei confratelli molto alta, il che è una chiara dimostrazione del calo delle nuove vocazioni, e non da oggi.
    Ho presente il complesso e difficile problema, ma più che ripetere lamentele e mettere in fila difficoltà e ostacoli, Don Bosco ci insegna a superarli con fiducia e insieme con quel coraggio che, guardando alla realtà, mette in opera i mezzi appropriati. E questo lavoro è urgente e assai più importante che costruire nuovi padiglioni o campi da gioco.
    Una premessa. Le vocazioni ci sono; almeno in germe, esistono. L'affermazione non è mia, ma di uno psicologo orientatore presso scuole statali. Egli, dopo aver esaminato migliaia di ragazzi dai 12 ai 15 anni, constatava che una certa percentuale dimostrava una vocazione sacerdotale o religiosa.
    Pur tenendo presente il valore che si può dare ad una «vocazione» a quella età, rimane il fatto che in ambienti non certamente curati religiosamente si esprimono di questi germi vocazionali. Ma allora viene spontanea una domanda: «Possibile che non vi siano anche tra le migliaia di nostri alunni e oratoriani ragazzi con germi di vocazione?».
    Questo è un punto fondamentale.
    Si dice spesso - e ce lo ripetono anche dall'esterno - che le vocazioni devono venire dal nostro mondo giovanile. È vero: da varie parti ci si ricorda che nei primi tempi della Congregazione, con Don Bosco e dopo, le vocazioni venivano appunto dagli ambienti nostri.
    C'è da dire, anzi, che la nostra Congregazione ha tra i suoi fini quello di favorire le vocazioni.
    Ma allora c'è da chiedersi: «Che cosa si fa per favorirle (e la parola ha un insieme di implicane), e che cosa non si fa, mentre si potrebbe e si dovrebbe fare?». Certo, se ogni comunità crea il clima favorevole al germinare di vocazioni, queste si manifestano: ma il clima è frutto dell'azione di tutti, un clima di gioia serena, di carità tra confratelli, e tra questi e i giovani, un clima di lavoro e di generoso sacrificio (non di vita più o meno gaudente e mondana), un clima missionario, salesiano, in cui non si ha paura di far conoscere la vita e lo stile della Congregazione con quello di Don Bosco, un clima di ariosa pietà liturgica e mariana, e infine un clima di cristiana amicizia che si esprime anche nei contatti personali con i giovani.
    In un ambiente così animato, l'azione discreta, ma intelligente e più ancora piena di fede, di un Direttore, di un Catechista, di un buon Confessore, di semplici sacerdoti e coadiutori è assai difficile che riesca del tutto infeconda.
    Del resto è provato che, malgrado tutta la valanga di letteratura che ci presenta la gioventù di oggi come impazzita e vittima del sesso, della droga, della rivoluzione, la realtà quotidiana ci mette dinanzi a tanti giovani non solo disponibili ma dichiaratamente decisi contro ogni mediocrità e abdicazione: i giovani ci danno spesso lezioni di generosità e di donazione che suonano un rimprovero per le nostre paure di impegnarli. È vero che dobbiamo essere e mostrarci noi per primi seriamente impegnati e coerenti.

    Una istituzione sempre attuale

    A questo punto viene opportuna una parola a proposito di polemiche sulle case che ormai per tradizione si chiamano «aspirantati» oppure anche «seminari minori»...
    So che ci sono forti correnti contro tali Istituti; so le critiche che si fanno da varie parti ad essi; so pure come alle critiche demolitrici di qualche anno fa han fatto seguito giudizi assai ridimensionati, prudenti e costruttivi. Voglio dire che dopo l'esperienza del tutto negativa fatta con l'abolizione di tali Istituti e dopo più approfonditi studi da parte di specialisti, in molte Diocesi e Istituti religiosi si sono rivedute le posizioni, riconoscendo come valida l'idea del «piccolo seminario», ma rivedendone anche profondamente l'impostazione e la struttura.
    Debbo aggiungere che uno studio condotto dall'Unione Superiori Generali ha portato a questa conclusione che sintetizzo: un candidato può benissimo maturarsi in un seminario minore, ma a condizione che gli si dia una formazione adatta alle necessità di quella età, e con una maggiore apertura che per il passato.
    Il Card. Pellegrino, dopo aver detto che «i seminari minori (i nostri cosiddetti aspirantati) costituiscono ancora uno strumento necessario e irrinunciabile per la ricerca in genere e la cultura delle vocazioni», aggiunge: «Mi pare che siamo ingenuamente presuntuosi quando pretendiamo indicare a Dio l'età e il momento in cui deve far sentire la sua voce!».
    Lo studio dei Superiori Generali così conclude: «Il seminario miliare, in una forma o nell'altra (internato, semiconvitto, scuola presso altri Istituti religiosi che danno serio affidamento...), in quanto è possibile, deve essere mantenuto: le spese sono alte, ma non si deve misurare il rendimento unicamente dalla percentuale di quanti arrivano alla mèta».
    E noi che cosa faremo? Vorrei anzitutto chiedere: abbiamo noi vocazioni dalle nostre opere? La risposta purtroppo è poco incoraggiante. Pochissime, anche se è vero che ci sono belle e confortanti eccezioni.
    Come allora si può tranquillamente eliminare qualsiasi Istituto che con i dovuti necessari e sani aggiornamenti, in ambiente di ben intesa apertura e libertà, impostato e condotto alla luce dei documenti conciIiari e postconciliari e della Congregazione, sia adatto a sviluppare quei germi di vocazione che ci possono essere in determinati soggetti che presentano elementi di vocabilità? A me pare che sarebbe un tradire la Congregazione, un inferirle un colpo mortale eliminando tali Istituti. Ma, detto questo, debbo subito aggiungere: riconosco che le vocazioni migliori debbono esprimersi dalle nostre opere, dagli oratori e centri giovanili (i campi più fecondi di magnifiche vocazioni salesiane) alle scuole, ai pensionati, alle parrocchie: oltretutto il sorgere di tali vocazioni sarà la «prova del nove» che la nostra comunità ha saputo creare quel clima nel quale i germi misteriosi della vocazione trovano modo di esprimersi e svilupparsi.
    Ma finché questo non si avvera, possiamo in coscienza chiudere le case adatte per vocazioni? Penso che nessuno che abbia un consapevole senso di responsabilità osi rispondere con un sì?

    Rinnovare senza estremismi

    È chiaro che gli aspirantati si debbono mettere su un piano per tanti aspetti diverso dal passato. Con ciò non intendo affatto incoraggiare certi estremismi i cui effetti assolutamente negativi sono sotto gli occhi non solo degli Ispettori. Sarò più esplicito. In certi luoghi, a un chiuso regime di serra si è di colpo sostituito un regime di incontrollata libertà sino a permettere cose che nessun collegio discretamente serio, e tanto meno genitori consapevoli dei loro doveri dí educatori, avrebbero permesso. È mancato il senso della misura e della gradualità, confondendo malauguratamente l'educazione alla libertà - che è un esercizio graduale di cosa intelligentemente graduata - con la concessione di una indiscriminata e irrazionale libertà, al punto che gli stessi giovani più maturi se ne sono lamentati protestando per questi gravi errori dei loro educatori. Non vorrei essere frainteso. A costo di ripetermi dico: - Negli aspirantati (come analogamente nelle case di formazione) ci si aggiorni. È quindi necessario che si studino seriamente i documenti delle autorità competenti (non il primo articolo di chi ha solo una certa infarinatura di questi problemi), si facciano dei piani e dei programmi non campati in aria, teorici ed astratti, ma rendendosi conto del tipo di ragazzi, di giovani, dell'età, dell'ambiente familiare e sociale in cui sono vissuti, del corso di studio (altro è il ragazzo dei primi anni, altro è... quello degli anni che precedono il noviziato).

    [Mentre la presente lettera è in corso di stampa la Sacra Congregazione per l'educazione cattolica pubblica la «Ratio Fundamentalis» della formazione sacerdotale. Vi si trovano orientamenti e norme assai utili anche per i «Seminari Minori». à un documento fondamentale che deve essere conosciuto e studiato specialmente dagli Ispettori e nelle Case di Formazione].

    Un punto importantissimo: la selezione delle vocazioni

    Su un punto specialmente desidero richiamare l'attenzione anzitutto dei confratelli direttamente interessati al problema delle vocazioni; ed è quello della selezione. Dobbiamo parlare schiettamente. Anche se con buona intenzione, non poche volte si è puntato sul numero delle vocazioni, la selezione è stata deficiente e per vari motivi; purtroppo a distanza di anni si constatano spesso gli effetti negativi di questa mancata selezione.
    Ho nell'orecchio una parola detta da un sacerdote assai ricco di esperienza nella formazione di religiosi: cinque soggetti men che mediocri non fanno un buon religioso. Se poi si mandassero avanti anche soggetti che hanno vere controindicazioni, che cosa dovremmo dire? Tutti i documenti pontifici, conciliari, salesiani sono concordi nell'esigere una severa selezione, e questo non solo all'inizio del curriculum, ma durante tutto il tempo del periodo di prova. E in ogni documento si dice ben chiaramente che non basta l'assenza di gravi fatti, ma occorre la presenza di doti umane e spirituali per dare un giudizio positivo.
    Molte amarissime lacrime la Congregazione non le avrebbe piante e non le piangerebbe, se al momento opportuno si fosse operata la doverosa e necessaria selezione, secondo i criteri indicati; e sarebbe stato anche un atto di grande carità verso il soggetto, perché quando ci si trova dinanzi a carenze e turbe caratteriali o a certe manifestazioni temperamentali è per lo meno ingenuo pensare di «salvare vocazioni»: al contrario «si salvano» indirizzandole per la via più consentanea indicata dalla Provvidenza, perché non vi è vera vocazione religiosa quando mancano certe doti sostanziali, che non possono mai essere supplite e compensate da altre capacità.
    Oggi poi, specie nel periodo dai 16 ai 25 anni, bisogna che si presti particolare attenzione alle idee. Non può essere religioso e sale siano chi già negli anni della prova è intellettualmente un ribelle dinanzi a precisi e gravi insegnamenti della Chiesa e del Papa; chi non accetta, anzi disprezza, le norme anche sostanziali che regolano la vita religiosa e salesiana. Giova ricordare che tali idee sono elementi ancor più negativi che certi fatti sporadici, frutto talvolta di leggerezza. Attenti quindi a certe forme che si direbbero demagogiche, spesso esplosioni all'esterno di gravi problemi personali non risolti, ma che mettono in subbuglio le comunità, specie nelle case di formazione. Si agisca con coraggio, pur fasciato di carità e pazienza, da non confondere però con la debolezza bonacciona e con la paura camuffata di prudenza. Il Superiore deve difendere i diritti della comunità; non può lasciarla alla mercé di chi con i fatti, o ancor più con le idee, si mette contro la comunità e fuori della Congregazione.
    Infine vorrei pregare quanti si devono occupare di questi problemi: resistiamo alla preoccupazione del numero ad ogni costo e dei posti di lavoro da coprire. Non è questa, oggi specialmente, la via giusta per avere le vocazioni che occorrono alla Congregazione. I nostri sono tempi di autenticità.

    Carissimi Confratelli, è tempo di concludere questa mia lunga lettera. Ho cercato di parlarvi a cuore aperto, senza comodi eufemismi, ma anche senza oscuri pessimismi, sull'argomento vitale della vocazione salesiana dinanzi alle crisi che la minacciano.
    Prendo a prestito due pensieri che si integrano a vicenda e presentano come in sintesi quelli che devono essere i nostri sentimenti e atteggiamenti dinanzi al problema della vocazione.
    Il primo pensiero è di P. Anastasio, un profondo studioso di spiritualità della vita religiosa e già Superiore Generale dei Carmelitani Scalzi: «..,facciamo il nostro esame di coscienza, e invece di metterci davanti al Signore dicendo: "Signore, Signore, perché non ci mandi vocazioni?", diciamogli con tanta umiltà: "Signore, abbi pietà di noi che rendiamo la vita religiosa così poco splendente e così poco contagiosa.
    Perdonaci di averla resa piuttosto una realtà archeologica che una avventura profetica, proprio per la mancanza di comunione e di comprensione di ciò che essa è nel mistero della Chiesa e nel mistero del tuo Cristo"» (In ascolto di Dio).
    L'altro pensiero è di Paolo VI: «...Noi vorremmo infondere in voi quel conforto che viene dalla sicurezza dì sapere che si cammina per la buona strada... Lo diciamo a voi, Religiosi, aggrediti dalle critiche alla scelta magnanima che qualifica la vostra vita: avete scelto l'ottima parte", e se voi siete fedeli e forti nella vostra singolare vocazione, "nessuno ve la toglierà". Sappiate aderire con fermezza alla santa Chiesa, di cui voi siete membra vive e sante; e non temete; ascoltate, sopra il frastuono oggi circostante, la voce sicura e ineffabile, perché divina, di Cristo: "Abbiate fiducia, Io ho vinto il mondo"» (Gv 16,33) (Osservatore Romano, 141-1970).
    Carissimi, non rimane che rivolgere la nostra preghiera alla Vergine Ausiliatrice, Madre della Chiesa e della Congregazione; ci aiuti Essa a trasformare in coraggiosa e feconda azione i tanti richiami che ci S0110 venuti da questa lettera.
    E il nostro Padre ci benedica tutti. Preghiamo sempre ad invicem.

    Aff.mo Don Luigi Ricceri

    IMPORTANTE
    Credo conveniente che di questa lettera si faccia non solo lettura comunitaria nel momento e luogo più opportuni, ma sia oggetto di commenti e discussioni perché in ogni Comunità se ne traggano le conclusioni pratiche più appropriate.

    Torino, 1 marzo 1970

    * Rettor Maggiore, Sesto Successore di don Bosco
    ACS n. 260


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