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    della solidarietà

    Salvatore Natoli

     

    Che cosa succede nella pratica della carità? Che cosa si mette in moto di noi stessi? Esiste una carità innocente? Come si gioca quell'intreccio di carità ed egoismo che è in tutte le azioni umane? Sono tutti interrogativi di esperienza, su cui riflettere, fino a formulare una proposta di carità come condivisione della finitezza. Per iniziare cerchiamo innanzi tutto di risalire alla provenienza linguistica del termine. Quando nel Nuovo Testamento, soprattutto in Paolo, si parla di carità la parola usata è agape, che noi traduciamo amore. Tuttavia la radice della parola carità non è agape, bensì charis, che in greco vuol dire dono, grazia. Il verbo charizontai significa "fare un dono gratuito" e in generale la radice greca char accomuna tutta una famiglia di parole il cui significato profondo è quello di "produrre benessere". La caritas quindi è un produrre benessere.

    Già a livello preliminare si capisce come nell'esperienza del gesto caritativo vi sia una dimensione di amore e di dono che viene messa in opera. L'amore qui non è l'eros, che, com'è noto, si caratterizza come la pulsione o il movimento verso l'oggetto del desiderio. Nell'eros l'amore è orientato alla fruizione, nell'agape o nella charis l'amore è un gesto di svuotamento. Nelle due dimensioni è all'opera una dinamica diversa.1

     

    La solidarietà non è la carità

    Partiamo dall'idea che il gesto caritatevole sia un gesto di svuotamento, un darsi, perfino un dare a perdere, dove cioè il punto di vista non è quello della fruizione. Pensato in questi termini il gesto di carità ha una caratteristica forte di discontinuità, è come un salto che porta a dire che la carità non è la solidarietà, che appartengono a due orizzonti distinti.

    La solidarietà, nonostante una certa retorica di cui è fatta oggetto, si presenta tutto sommato come una categoria economica: ha una sua funzionalità e una sua razionalità.

    Nella solidarietà c'è al fondo una logica di scambio e quindi un'ipotesi razionale. Nella carità invece la logica sottesa è diversa: per quanto non sia irrazionale, tuttavia costituisce uno scarto (perché svuotarsi? perché dare a perdere?).

    Per chiarire questa differenza basta pensare a quanto Paolo dice ai Corinti nell'inno alla carità: "Se distribuissi anche tutti i miei beni ai poveri e dessi il mio corpo a essere bruciato, se non ho la carità tutto questo non giova a nulla". L'assoluta distanza che separa solidarietà e carità emerge qui con un'evidenza persino drammatica. La carità non sta né nella distribuzione dei beni e nemmeno nel sacrificio del proprio corpo. Che cos'è allora? Diventa forse enigmatica? Teniamo per il momento sospesa questa domanda per esplorare il campo della solidarietà, le cui caratteristiche - razionali ed economiche - consentono di pensarla, almeno in linea di principio, come un fattore di utilità.

    La solidarietà è utile. Molte volte noi abbiamo una comprensione sbagliata, preconcetta dell'utilitarismo, dovuta a un equivoco terminologico. Confondiamo utilitarismo con egoismo, quando invece l'utilitarismo, perlomeno nella sua versione più scaltrita e moderna, è altruista. Proprio così, altruista, perché introduce il miglioramento collettivo come fattore di utilità per i singoli. Non è difficile rendersi conto di questo (solo apparente) paradosso. In una società degradata si sta male, vivere a contatto col disagio, col rischio, con la miseria genera altro disagio, come per contagio. Chi sta bene è esposto a essere infetto dal male che c'è nella società, non è immune dagli effetti del malessere sociale. Da questo punto di vista essere altruisti, quanto meno nel senso di impegnarsi a rimuovere gli elementi principali di disagio, è funzionale al benessere dei più.

    Questo discorso è stato chiaramente teorizzato dall'utilitarismo classico nell'Ottocento. Jeremy Bentham e John Stuart Mill erano utilitaristi democratici, sostenevano che ognuno dovesse pervenire al suo utile, ma ritenevano che questo fosse tanto più p( hi le se tra i fattori di utilità si introduceva anche il benessere collettivo. Del resto la stessa borghesia ottocentesca si era posta il problema della povertà - non tanto della sua eliminazione tout court quanto dell'attenuazione dei suoi effetti più devastanti: infezioni, malattie, malavita. Ci si rendeva conto che la garanzia sociale non poteva essere prodotta in termini esclusivamente repressivi, quindi in una certa misura occorreva farsi carico della povertà.

    Come sia avvenuta quest'operazione è storia nota: si sono perlopiù tracciati perimetri dove la povertà potesse stare confinata. Dentro questi recinti la miseria riceveva un minimo di assistenza, anche per evitare che si rivoltasse e ne fuoriuscisse. Nasce qui l'hópital, l'istituzione, trovano qui origine i mille ghetti il cui scopo era quello non tanto di affrontare alla radice il problema della povertà quanto quello di evitarne la vista e gli effetti socialmente più devastanti.

    Questa è stata la forma che storicamente ha assunto la lotta alla povertà. A livello teorico, però, perlomeno nella dinamica più progressista interna all'utilitarismo, è sempre stato chiaro il principio che, se tutti gli uomini potessero soddisfare i bisogni fondamentali, la società nel suo complesso ne avrebbe beneficio.

    Si capisce così come il discorso della solidarietà si sia potuto trasformare storicamente, a partire dal problema della povertà, nella società dei diritti. Da questo punto di vista il nesso solidarietà-altruismo si formula come uno dei modi migliori di perseguire i propri interessi individuali. In questo senso la solidarietà è un fattore di utilità; soltanto un egoismo becero e arretrato non perviene al punto di vista della solidarietà.

    Perché è improbabile? Impostata in questi termini l'esigenza della solidarietà sembra ovvia, eppure per molti versi non lo è, tant'è che non molti la praticano. Anche una politica dei diritti, per quanto se ne riconosca la doverosità, suscita non poche resistenze. Perché?

    Le ragioni per cui la solidarietà è improbabile sono molte, tuttavia una è in questo contesto interessante e ha a che fare col differente modo di porsi degli uomini rispetto al futuro. Anche se in astratto può sembrare persuasivo) che dedicare una quota del proprio tempo a migliorare l'ambiente umano e sociale servirà a migliorare anche la propria vita, a ottenere più facilmente il proprio utile, ci sono coloro che altruisti non sono, perché non hanno l'idea del "bene futuro". La logica evoluta che dice "l'altruismo conviene" parte infatti dall'idea di una società futura in cui l'insieme sociale sarà equilibrato e i soggetti sociali, a partire dalla loro individuale incertezza, avranno ragioni di sicurezza.

    Questo discorso - divulgatissimo - ha trovato la sua formulazione più adeguata e piena nella teoria della giustizia di Rawls con il famoso argomento del velo di ignoranza: poiché gli uomini, nemmeno i più ricchi, sanno quale sarà la loro sorte futura, devono costruire una società di diritti in cui, qualunque sarà il loro destino, tutti si troveranno garantiti. In questo modello di giustizia la società assicura il minimo a tutti, dopo di che ognuno potrà pervenire al suo massimo. La più diretta applicazione di questa teoria politica sono i modelli di welfare.

    Ma questo è un argomento che noi diciamo razionale: partendo dall'idea che non sappiamo quel che ci aspetta è ovvio che una società altruista garantisce di più, è anticipatamente conveniente. Ma partiamo dall'idea di chi ha, di chi possiede. Costui dice: perché mai dovrei pensare a un altruismo generalizzato nella società e non invece a rafforzare la mia posizione? Perché dovrei puntare sul velo di ignoranza e non sulla certezza che solo accumulando mi garantisco di più? Da questo punto di vista chi ha non si spoglia, anzi tende a consolidare il proprio presente, anziché puntare su un futuro generale per costruire il quale, per giunta, non sa - né può sapere - se tutti poi si comporteranno in maniera solidale.

    Perché la solidarietà funzioni dentro lo schema utilitarista è infatti necessario che tutti la pensino come fattore di utilità, che tutti siano persuasi che perseguire il bene collettivo ridondi a beneficio del bene individuale. La posizione altruista, infatti, siccome è giocata su una deontologia (l'idea di un bene futuro), se non è simmetrica non funziona più. Può funzionare a patto che ciascuno, in base al valore del bene futuro, che è condizione generale della società dei diritti, unilateralmente anticipi l'offerta. Ma l'anticipazione unilaterale mette già nella posizione del dono.

    Lo spazio incerto della solidarietà. Da questo punto di vista la solidarietà si inscrive in uno spazio che oscilla tra la giustizia e la carità. È qualcosa di più della giustizia, ma qualcosa di meno della carità, pur rientrando, come abbiamo visto dalle ultime battute, nel suo orizzonte. Quando si inscrive nell'ordine della giustizia, la solidarietà è quell'anticipo che tende a pareggiare le sorti degli uomini. Non a caso, Tommaso d'Aquino collega la parola iustitia al termine iustari, nel senso di rendere conveniente, congruo. La giustizia aggiusta le disparità, rende pertinenti le situazioni, è un'operazione di armonizzazione da cui scaturisce un intero organico. Tutti sono tenuti a praticare la giustizia. E la solidarietà, in quanto situazione che include il fattore altruistico come condizione per la realizzazione del benessere individuale, è sostanzialmente un modo per esercitare la giustizia. È a questo titolo che noi la troviamo nell'articolo 2 della Costituzione dove, essendo una realtà giuridica, non è più un dono ma una strategia della società: "La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali [...] e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale". La solidarietà è alla base del patto sociale della cittadinanza: è un vincolo, non è un dono. Implica che i cittadini, in base al patto sociale, nella loro vita ordinaria, nel frutto del loro lavoro e così via, assumano esplicitamente la responsabilità della condizione altrui come elemento per realizzare una società giusta.2

     

    La difesa della gracilità individuale

    Il principio di giustizia è: a tutti il necessario, a ciascuno il suo (giustizia commutativa e giustizia distributiva). La giustizia assottiglia le disuguaglianze, riconosce i diritti delle differenze. Una cosa però non può fare: garantire gli uomini a fronte dell'imponderabile, sottrarli all'incertezza propria della finitezza, per la ragione che l'imponderabile sfugge alla garanzia sociale. L'imponderabile coglie gli individui anche in una società garantita, indipendentemente dal fatto che siano ricchi o poveri. La povertà diventa così un fatto complesso: un ricco preso da un tumore e un disadattato affetto dall'Aids, pur essendo su gradini diversi della scala sociale, non si ritrovano nella stessa condizione di deficit? E allora chi è caritatevole non lo è ugualmente nei confronti del ricco come del povero? (Cominciamo qui a intravedere la nozione di carità come condivisione della finitezza.)

    La carità non è una dimensione semplicemente sociale, la carità guarda alla gracilità individuale. Per questo essa è laddove è necessaria qualunque sia il luogo. La carità è disponibile agli individui, non ha come suo obiettivo l'organizzazione della società. Essendo puro anticipo è lì dove c'è l'urgenza del bisogno. Teresa di Calcutta non era una rivoluzionaria, non era una politica, non era un'organizzatrice sociale. Rispetto agli assetti economici del mondo questa donna non è stata influente, la sua opera non ha intaccato l'immane miseria; probabilmente ci sono uomini, meno noti, che hanno deciso molto di più nell'allocazione delle ricchezze. Come si vede, se consideriamo la carità dal punto di vista dei risultati non la capiamo più. Nella persona di Madre Teresa c'è stata una selezione: non voglio fare né rivoluzioni né attività politica, ma c'è un'urgenza rispetto a un'individualità che è qui e ora, per questi giorni, per questi anni. E questa individualità non è protetta dalla garanzia sociale, perché nel bene futuro l'indiano morente non c'è, così come non c'è il malato di Aids. Allora possiamo fare un grande discorso sui diritti, ma i diritti, l'operare per la giustizia garantiscono la fragilità dei singoli? Sono in grado di raccogliere su di sé il peso della finitezza dell'altro, di quell'individuo lì, di quel corpo malato, di quell'anima dolente?

    La carità non è la beneficenza. Il discorso sulla solidarietà oggi passa anche attraverso il mezzo televisivo. Si organizzano maratone benefiche, si fanno raccolte di soldi e la gente si mostra generosa, dà anche molti soldi. Anche per le strade delle nostre città siamo invitati quotidianamente a gesti di elemosina. E vediamo che non c'è avarizia, c'è però impersonalità. Fare l'offerta è un modo di essere presenti sottraendosi, non prendendo su di sé il peso dell'altro, ignorando persino chi egli sia. La monetizzazione della carità è un processo di impersonalizzazione del dono, ma il dono che è impersonale non è dono: è un gesto di beneficenza, non di carità.

    Adam Smith ha scritto cose interessantissime su questo punto. Polemizzando con gli hobbesiani, che sostenevano che il rapporto tra gli uomini fosse un rapporto di guerra (homo homini lupus), saggiamente rilevava: guardate che la situazione è doppia, perché per un verso gli uomini si combattono, ma per l'altro hanno bisogno gli uni degli altri. L'individuo da solo non può esistere (modello neoaristotclico). Allora nell'uomo coesistono dinamiche di aggressione e dinamiche di simpatia, è un po' lupo ma non lupo del tutto, è anzi capace di benevolenza verso gli altri, forse perché li sente simili. C'è all'opera come un legame di specie: io riesco a non essere indifferente alla sorte dell'altro, a essere generoso e compassionevole, perché mi immagino nella sua situazione. In una persona che sta male riconosco un uomo con gli stessi occhi, con le stesse braccia, con le stesse gambe, col mio stesso corpo. L'altro è come uno specchio in cui io mi vedo.

    Al fondo di questa benevolenza è all'opera un sofisticato, raffinato egoismo: nel compiangere l'altro io compiango me in quella situazione possibile, lo aiuto perché se mi trovassi in quella condizione anch'io vorrei essere aiutato. Volete la prova che funzionano così le cose, dice Smith? Immaginate un individuo in una situazione riuscita e di successo: in questo caso io mi metto in una situazione di competizione con lui e di potenziale invidia, sicché, conclude Smith, tanto più sgradevole è la situazione in cui l'altro si trova, tanto più io ho una disposizione alla compassione, ma tanto più è gradevole la situazione in cui l'altro si trova, tanto più io ho la disposizione all'invidia. Il protagonista insomma, nel bene o nel male, resto sempre io.

    I doppi fondi della coscienza. Come si vede, nel gesto caritatevole separare il fondo di egoismo dalla dimensione di dono diventa difficile. Quanto in quel donare rimango ancora protagonista io? Che poi il gesto sia socialmente utile e benefico non interessa, qui facciamo uno scavo nell'intenzione soggettiva. Ed è qui che si annida l'ambiguità profonda del dono, la carità pelosa.

    Marcel Mauss, nel famoso saggio sul dono, ha dimostrato che il dono è anch'esso uno scambio, ma non nella forma impersonale del prezzo, come accade nel mercato, bensì in quella dell'impegno a ricambiare. Da questo punto di vista il dono è tutt'altro che gratuito. Anzi spesse volte, in alcune culture, è una grande manifestazione della propria potenza. Nelle abitudini degli antichi (e nella cultura meridionale questo rimane) non c'era soltanto l'accoglienza del debole, c'era anche l'ospitalità nei confronti del pari, verso il quale il dono diventava manifestazione della propria potenza e quindi obbligo a restituire di più. Il dono non si situava nella dimensione della kenosis, del dare a perdere, ma era il sigillo della propria forza. Conteneva un messaggio del tipo: ti sfido a dimostrarmi che tu puoi darmi più di quanto io possa dare a te.

    Ora in una società come la nostra - domando - questa manifestazione di superiorità non può formularsi cripticamente nell'atteggiamento ulteriore del sentirsi buoni? Nel senso: io dono, mi sacrifico, quindi sono più buono degli altri, sono migliore? E in questo non c'è una dimensione moralistica del dono? O, peggio, l'atteggiamento di chi dice: "Non so fare altro quindi dono", "non mi so arricchire quindi mi viene più facile donare trovando qui un'identità di me con me"? Di qui l'acquisizione di una posizione di giustizia che diventa criterio di giudizio della condotta altrui: in base alla mia supposta bontà mi faccio critico dei comportamenti altrui dichiarandoli immorali. C'è carità qui?

     

    Il dolore di dover essere caritatevoli

    La condivisione della finitezza ha questa caratteristica: farsi carico della reciproca gracilità. Poco importa che ci sia un continuo transitare tra criptoegoismo e dono, perché in fondo noi non possiamo uscire da noi stessi nemmeno quando doniamo, e quindi non è un male che l'uomo si realizzi attraverso l'altro. Anzi direi che per molti versi è naturale: da soli in fondo sappiamo di non poter (r)esistere e che una comunità umana universale è meglio. Ma allora torna la domanda: perché gli uomini continuano a essere egoisti, visto che in proiezione la reciprocità suggerisce l'idea che in fondo, attraverso questa condivisione della gracilità, i risultati possono essere migliori per tutti?

    L'amore di sé. Per trovare una risposta bisogna entrare in un'altra ambiguità, che riguarda l'egoismo. Se essere finiti vuol dire essere esposti al rischio - questa è la gracilità - noi possiamo fare due scelte: assumere il peso degli altri per sviluppare una società della pace oppure garantirci utilizzando gli altri a nostro vantaggio. In ambedue i casi è all'opera una dinamica di salvezza: salvarsi con gli altri o salvarsi a spese degli altri. Sono due diverse risposte al sentirsi a rischio.

    Eegoismo non nasce soltanto da un'intenzione di male, può nascere anche dalla paura, la paura della propria esposizione all'incognito, all'imprevisto, la paura anche che l'altro possa usare me a suo vantaggio. Proprio perché siamo tutt'e due a rischio, infatti, non è detto che condividiamo la finitezza, può anche darsi che cerchiamo di succhiare l'uno la vita all'altro per salvarci. Ecco perché l'egoismo è caratterizzato dalla chiusura su di sé, dalla volontà della propria conservazione in base a se stesso, dove l'elemento di distruzione dell'altro non è la prima intenzione ma il risultato di una autogaranzia, in conseguenza della quale l'altro è visto come potenziale nemico. Non voglio distruggere l'altro, è che mi difendo; non sono razzista, è che l'immigrato mi toglie il posto di lavoro (è difficile nelle cosiddette società democratiche trovare dichiarazioni formali di razzismo, sono tutte in termini di compatibilità e di difesa delle proprie posizioni). Chiaramente laddove mi sento attaccato non posso donare.3

    L'amore dell'altro. La dimensione della condivisione diventa ideale, patetica e sentimentale se non attraversa il concreto della vita. La dichiarazione di intenti può infatti essere sempre condivisa, ma avere accanto a sé il diverso, lo sporco, il malato, a contatto con la propria pelle, rischia di innescare una dinamica di paura, pregiudizio ed egoismo. Dovremmo amarci un po' di meno, essere un po' meno vincolati a noi stessi, avere più respiro futuro.

    La carità nel senso cristiano indica una strada radicale: ama l'altro per se stesso. La radicalità sta precisamente nell'articolare il gesto caritatevole in una dimensione in cui non si guarda alla risposta. Il "prossimo" da amare non è la generalità degli altri (per i quali basta una teoria della giustizia e basta il welfa re), il prossimo è, in senso etimologico, proprio chi mi sta accanto. Da questo punto di vista la carità cristiana è sempre sulla frontiera e ama l'altro per se stesso. In questo risiede la paradossia cristiana. Anche nel mondo antico o orientale c'è pietas, il sentirsi parte della natura, ma sempre in una logica di realizzazione complessiva. A ogni modo l'altruismo non funziona se non è simmetrico, perché c'è sempre un'istanza in un certo senso egoista (se gli altri non lo fanno allora perché dovrei farlo io?); nella caritas come amore per l'altro in quanto tale c'è l'assoluto presente non egoista: qui e ora, laddove c'è bisogno.

    Allora qui è necessario fare una distinzione profonda tra il donarsi e il donare qualcosa. La carità cristiana non risiede nel donare qualcosa. Si dona qualcosa perché ci si dona, ma ci si può donare anche se non si dona qualcosa. Ecco perché la carità coincide con la distribuzione e con il sacrificio di sé e la pratica delle cosiddette buone opere è una ortoprassi conseguente al fatto che si ama l'altro come tale. Per questo si ama l'altro - o così si dovrebbe - anche quando non ha bisogno di niente. Ecco perché la carità non finisce, è l'ultima cosa che resta, perché nella gloria resterà il puro amore, in cui io amo l'altro e lo posso amare con purezza proprio perché quello non ha bisogno di me.

    Allora il massimo della carità non sta nel soffrire con chi soffre, non sta nella condivisione della sofferenza, il massimo della carità sta nel dolore per la sofferenza dell'altro: io non vorrei che tu soffrissi, io vorrei essere inutile per te. Il massimo della carità sta nel dolore di dover essere caritatevoli, nello strazio di dover donare qualcosa senza poter incontrare l'altro nella sua libertà. Il massimo della carità è dato nella possibilità di liberare l'altro a essere se stesso. Ma molte volte la carità altro non è che vincolare, attraverso la dipendenza, l'altro a sé e quindi nell'apparenza massima del dono anche la grande malafede della sudditanza: io mi sento buono e tu resti debole.

    Il culmine della carità quindi non sta nel soffrire con l'altro, ma nel gioire della gioia dell'altro. Il culmine della carità sta in un mondo in cui non ci sarà più ingiustizia, in cui nessuno avrà bisogno di un altro, ma ogni altro amerà l'altro per sempre. Come questo possa accadere è inscritto in un destino escatologico. Nella nostra andatura quotidiana purtroppo oscilliamo sempre tra sensato egoismo e speranza di pace.

    (Stare al mondo. Escursioni nel tempo presente, Feltrinelli 2002, pp. 51-59)

     

    1 Per esigenze di chiarezza ho radicalizzato una distinzione che nei fatti è più sfumata. Nelle relazioni umane, infatti, anche in quelle dell'eros, per fruire davvero dell'altro è necessario "metterlo in moto", nel senso che non ci può essere fruizione dell'altro se questi non si rende disponibile. Già nello stesso eros umano è quindi necessaria una certa reciprocità: non posso provare piacere se non riesco a far provare piacere anche all'altro, in un certo senso mi devo mettere nel suo punto di vista. Viceversa il dono, sebbene in esso sia presente un gesto di svuotamento, non sempre è kenosis, svuotamento. Nell'ultima parte della mia riflessione mostrerò come il dono abbia caratteristiche fortemente ambigue che si nascondono tra le pieghe della coscienza.

    2 A questo riguardo molti ritengono che la solidarieta non possa essere imposta; per questo la Costituzione nella sua prima parte sarebbe troppo vincolante rispetto agli individui. Nella nostra Costituzione la solidarietà gioca la stessa funzione di ponte (tra libertà e uguaglianza) che ha la fraternité nella Rivoluzione francese. Senza la fraternità, che è il sentirsi parte, l'uguaglianza rischia di essere pensata in modo burocratico e atomico e la libertà come semplice libertà individuale (non a caso la dimensione di fraternità nella Rivoluzione francese, ma possiamo dire tutta la grande filantropia illuministica, è una forma secolarizzata del cristianesimo).

    3 C'è un grande problema quando si parla di finitudine. I greci l'avevano pensato molto bene, e anche Leopardi si domanda: gli uomini sono cattivi perché soffrono o soffrono perché sono cattivi? È il dolore naturale della specie che mette gli uomini in allarme e li rende cattivi oppure è la cattiveria che produce dolore? Verosimilmente è vera l'una e l'altra cosa. Diventa pertanto difficile distinguere (Ricoeur ha scritto un bellissimo libro su questo tema, Finitudine e colpa) se la colpevolezza non coincida per molti versi con la stessa finitudine, se il fatto di sentirci a rischio non ci metta in una situazione di distacco e non di condivisione.

     


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