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    Verità e carità

    Armido Rizzi


    La semantica

    Se avete in mano lo schema del mio intervento, vedete che la prima parte ha come titolo La semantica, e dà alcune indicazioni sui due sostantivi: verità e carità. Ho però dimenticato di mettere il terzo elemento: la «e». «E» è una parola importante, ma apertissima; la più aperta di tutte. Perché può voler dire una connessione, una relazione così stretta tra i due termini da arrivare a un'identità, oppure un'opposizione secca, un'incompatibilità. E in effetti mi pare che questi due termini, verità e carità, siano entrati spesso in conflitto come se fossero termini non compatibili. Oggi magari c'è il rischio di confonderli; ma del resto anch'io correrò questo rischio.
    Allora, verità e carità: quale sarà il significato o la portata di questo «e»? Questo è appunto il compito che ci attende. E così sono già entrato nella prima parte: la semantica. L'ho imparata la prima volta nella mia formazione scolastica, tomista, che poi ho abbandonato, ma a cui sono molto debitore soprattutto per l'esigenza di cominciare ogni discorso discutendo sul significato dei termini in questione; altrimenti non si discute né si dialoga, ma o ci si accapiglia o ci si riduce, più ancora che a un embrassons-nous, a un ammiccamento reciproco.
    Che cosa dunque vuol dire carità? Non so perché nell'enunciazione del tema non sia stato messo addirittura il termine «agape»: probabilmente solo per evitarne la ripetizione, essendo già presente nel titolo di altre relazioni. Io comunque tengo a dire subito che intenderò sempre carità come sinonimo di agape. E con questo alludo, volendone prendere le distanze, a una lunga tradizione – iniziata nella Chiesa patristica, sviluppata nella scolastica e continuata poi nella teologia cattolica – che interpreta la caritas in una chiave che sembra flettere, più che verso l'agape del Nuovo Testamento, verso l'eros platonico. Non voglio addentrarmi nel dibattito; diciamo insomma che mi riferisco a quel concetto secondo cui la carità è la forma più elevata del nostro bisogno di Dio, del nostro desiderio di Dio. Il desiderio sublimato, trasfigurato, celeste; quello che si innalza da desiderio delle creature a desiderio del Creatore, da passione per la realtà finita a passione per l'infinito. Non entrerò in discussione con questa posizione perché non c'è tempo; dico soltanto che la mia scelta è quella di identificare la caritas con l'agape; di non farne né la forma alta e ultima del desiderio, né un intreccio tra agape e desiderio, tra agape ed eros.
    La verità: anche qui non intendo ancora entrare nell'interpretazione del rapporto fra verità e carità, che sarà oggetto della seconda parte, ma solo dare una chiarificazione terminologica. Ora, il termine «verità» è stato identificato, nella filosofia scolastica, come suscettibile di almeno due accezioni, due significati: il più comune è quello che si esprime nella frase: «dimmi la verità», cioè dimmi come stanno le cose, o almeno come tu hai recepito che le cose stiano. È la verità logica: la adaequatio mentis et rei, la corrispondenza tra quello che noi pensiamo (e diciamo: qui però s'inserisce un terzo fattore, la sincerità) e la realtà delle cose; quindi la verità delle nostre affermazioni, delle nostre asserzioni. A partire dal punto di vista più banale, più fattuale («questo tavolo è coperto da un tappeto verde»), fino ai più alti livelli concettuali («Dio è l'essere perfettissimo, Creatore e Signore del cielo e della terra»). C'è un bel salto dal colore del tappeto alla realtà di Dio; in tutti e due i casi, però, noi usiamo quel verbo «essere» con la chiara pretesa di stabilire la corrispondenza tra quello che noi pensiamo e come stanno le cose: sia quella cosa banale che è il colore del tappeto, sia quell'impensabile che tuttavia cerchiamo di pensare e che è appunto la realtà di Dio.
    Questa è dunque la prima accezione della parola verità, l'accezione più comune, che non scomparirà mai dal nostro linguaggio: vediamo come stanno le cose, e vediamo se ciò che quella persona ha detto risponde a verità, o corrisponde alla realtà di cui parla.
    C'è però anche un'altra verità, nella classificazione della filosofia classica e poi medievale: la verità ontologica. La corrispondenza tra quello che penso e il come stanno le cose presuppone che le cose stiano in modo tale da poter essere pensate, da poter essere còlte; in modo che si possa dire: «questo è vero, questo non è vero». E dunque presuppone che la verità sia già nelle cose. La verità è il loro essere configurate in un certo modo; e con ciò si intenda non tanto la loro configurazione come sagomatura esterna, quanto quella configurazione interna, intrinseca, che è stata variamente chiamata: essenza, identità, essere, forma (non nel senso di silhouette né di forma estetica, ma in quello di conformazione interna della realtà; quella realtà che sono le cose e l'insieme delle cose, il mondo). Qui possiamo prescindere dal problema se le cose abbiano già una loro conformazione fin dall'inizio, prima di ogni contatto con il conoscente, o siano invece dei puri dati, di cui possiamo parlare quando già li abbiamo investiti, e siamo dunque noi a dar loro una configurazione. Resta il fatto che quando ne parliamo, quando le chiamiamo col nome, dicendo «questa è una pera, quest'altro è un cane, quest'altro ancora un computer», e dicendo questo ci intendiamo, noi presupponiamo una loro verità ontologica, almeno in senso debole, cioè determinata dall'intersoggettività umana.
    Poi c'è un'altra verità – un altro essere, un'altra essenza, un'altra identità – che è quella del soggetto umano. Nel mio schema ho scritto: «la paradossale identità umana»; perché? Perché è evidente che, a differenza delle cose, il soggetto umano non ha un'identità compiuta che si sviluppi per una necessità interna, come il seme che matura nella pianta, nel fiore e nel frutto: l'uomo si fa con le proprie scelte. Qualcuno allora dice che l'uomo non ha verità; altri invece che sì, l'ha, perché dentro quelle scelte c'è già un criterio di orientamento e di validazione: le scelte possono essere autentiche o inautentiche. C'è dunque una verità ideale, e di conseguenza normativa, che chiede di essere corrisposta ma può essere rifiutata. L'uomo realizza la propria verità, ma può anche mancarla. C'è qualcuno, come chi vi parla, che ritiene che l'inferno sia questo: mancare la propria verità definitivamente.
    Finalmente, anche su Dio si può fare la stessa considerazione, e al grado sommo; cioè di Dio si dice che è quella realtà, quell'ente, la cui identità è la pienezza dell'essere. Si può anche dire: «Dio non esiste»; riconoscendo però che, se esistesse, non potrebbe essere altro che questo. A livello semantico si lavora sul significato dei termini: se dunque parliamo di Dio possiamo convenire che, nell'ipotesi che egli esista, non possa essere se non la pienezza dell'essere: questa è la sua verità.
    Se teniamo presenti queste chiarificazioni preliminari possiamo cercare di inoltrarci nella seconda parte del discorso, che ho intitolato Il messaggio.

    Il messaggio

    Uso questo termine perché di fatto a chi chiederemo il rapporto tra verità e carità, tra verità e agape, sia che riguardi Dio, sia che riguardi l'essere umano, sia che riguardi le cose? Io credo che lo si possa chiedere soltanto, nel caso nostro, alle Scritture; alla Scrittura ebraica e alla Scrittura cristiana. La mia rottura con la tradizione classica e scolastica è stata su questo punto: che la filosofia non può dire nulla che riguardi la verità ultima delle cose. La filosofia può parlare della verità ultima soltanto se si fa interprete di una percezione anteriore alla filosofia, che è l'esperienza religiosa. Nel caso nostro, quell'esperienza religiosa – quell'esperienza di Dio, dell'uomo e del mondo – che si è sedimentata nelle Scritture.
    Dunque, il messaggio delle Scritture. La tesi da me formulata è che la verità ontologica – quella su cui principalmente io lavorerò – secondo le Scritture ebraiche e cristiane è l'agape, è la carità. La verità logica, poi, è la testimonianza della carità offerta nelle Scritture. Ma io non mi fermerò su questo secondo punto, qui appena accennato, perché sarà ampiamente trattato sia nell'incontro di questo pomeriggio con Fulvio Ferrario, sia in quelli di domani mattina con Amos Luzzatto e Piero Stefani.
    La verità ontologica, dunque, è la carità. E poiché l'esperienza religiosa è fondamentalmente esperienza del divino, nel caso nostro è l'esperienza della manifestazione di quel divino che è il Dio personale delle Scritture ebraiche e cristiane.
    Prima affermazione: c'è un arco che va da Es 3, 14 – la prima, per così dire, autodenominazione di Dio – a quella che viene considerata la più alta e sintetica definizione di Dio del Nuovo Testamento, nella Prima lettera di Giovanni. Non dico questo per compiacenza verso gli amici ebrei; ma perché davvero sono sempre più convinto che c'è una corrente profonda che, pur apparendo in superficie con manifestazioni molto diverse – a volte ribollente e tumultuosa, a volte placida – va da quella prima manifestazione, quella prima autodenominazione, all'affermazione giovannea del Dio che è agape.
    Su quella prima automanifestazione – «Io sono colui che è» – sono stati versati fiumi di inchiostro, soprattutto perché, partendo dalla traduzione greca, si è sviluppata quella che un grande storico contemporaneo della filosofia medievale ha chiamato la «metafisica dell'Esodo»: vale a dire che in quel «Egó eimi o ón», «Io sono l'essente, io sono l'essere», si troverebbe la ratifica biblica di tutta quella concezione di Dio come l'essere sussistente, l'essere perfetto eccetera, che ha rappresentato la grandezza, la gloria della filosofia medievale. Questa lettura non è più condivisa; tra le altre letture oggi proposte io ne scelgo una che, al di là dell'interpretazione della formula ebraica – sulla cui proprietà non sono in grado di dare un giudizio filologicamente sicuro, e sfido chiunque a darlo – ritengo sia certamente quella che più corrisponde a tutto ciò che nella Bibbia è scritto di questo Dio. Mi pare sia anche la più comune tra gli studiosi. Tradurrei allora così, rimanendo il più vicino possibile all'altra traduzione, ma di una vicinanza che è nella forma, non nel significato: non «Io sono colui che è», ma «Io sono colui che c'è». E non «c'è» in quanto «esiste» (sarebbe una caduta, un salto in basso rispetto a «è»), ma «colui che c'è» nell'accezione a noi più abituale, dove «esserci» vuol dire «essere presente». Quando chiediamo al telefono: «C'è il papà, c'è la mamma?», il senso della domanda non è se sono vivi o morti, ma se sono in casa, se ci sono. Ecco, Dio è colui che c'è, Dio è colui che ha detto di se stesso: «Io ci sarò; ci sono, qui con te, Mosè, e ci sarò, lungo tutto il cammino di cui ti sto indicando l'inizio». È come quando, a chi ci invita a un incontro, a un convegno come questo, noi rispondiamo: «Va bene, vengo; ci sarò»: un atto di presenza e una promessa di presenza per il futuro. Questo è quanto Dio dice a Mosè, quando Mosè gli chiede che cosa potrà rispondere, nell'adempimento della sua missione, a quelli che gli chiederanno: «Chi te l'ha detto? Chi te lo fa fare?». Dio non pronuncia un proprio ipotetico arcano nome – in un certo senso si potrebbe dire che Dio non ha nome – ma dà come proprio nome questa promessa di presenza. Del resto, quando, secondo più di un salmo, «lo stolto dice: Dio non c'è», l'espressione ha questo stesso significato, solo che è rovesciata: è la negazione che Dio sia presente dentro la storia di Israele, e più in generale dentro la storia umana. Non è una negazione astratta dell'esistenza di Dio, ma una negazione della presenza di Dio come colui che si interessa, si prende a cuore gli affari umani. Allora, se Dio non c'è, se non è qui, se si fa gli affari suoi, diventa anche del tutto insignificante che poi per conto suo esista o non esista. Non interessa a noi, comunque; e se non interessa a noi vuol dire che da un lato siamo senza speranza, non c'è nessuna promessa di senso nella realtà, e dall'altro però, proprio per questo, siamo anche liberi di gestirla come vogliamo, abbiamo le mani sciolte. Questa è una forma di sapienza; di sapienza a rovescio, che il salmista chiama stoltezza. Stoltezza proprio perché è la negazione di quella presenza che dà senso alla realtà in ordine al senso dell'esistenza umana, e al tempo stesso, diciamo così, scrive lo statuto per la custodia e la promozione del senso.
    La presenza di Dio viene poi detta in mille altri modi: Dio è la sollecitudine, Dio è la tenerezza, Dio è la compassione, Dio è lento all'ira... E qui occorre aprire una parentesi, per una piccola ma importante annotazione. Perché questo Dio sembra così facile ad arrabbiarsi? Proprio perché è presente nelle cose della storia, se le prende così a cuore che non può starsene tranquillo: si arrabbia facilmente. Forse le dichiarazioni sulla collera di Dio sono altrettanto numerose quanto quelle sul suo amore, nelle Scritture ebraiche. Ma c'è una differenza: sono tutte dichiarazioni di un fatto, di un accadimento, di un Dio che, per così dire, ha perso la pazienza. Si tratta però di un istante, di un episodio, che non definisce la realtà di Dio. Che io sappia, non ricorrono mai termini che, nel presentarlo come il Dio dell'ira, della punizione, definiscano la realtà del suo essere. L'affermazione del Dio dell'amore, della tenerezza, della pazienza, e quella del Dio della collera hanno due statuti diversi. La collera di Dio è un insieme di interventi, oserei dire di esplosioni puntuali: è come forzato a mettere in opera, obtorto collo, quella manifestazione della sua presenza che è l'intervenire col braccio disteso per punire coloro che non sono stati alle regole. Ma Dio torna ad essere ciò che vuole essere, ciò che veramente è, quando perdona.
    Che cosa aggiunge a tutto questo Giovanni, o un suo discepolo (1 Gv 4, 8.16), quando dice che «o Theòs agàpe estìn», «Dio è agape»? Anzitutto, forse, in Giovanni è ancora più esplicita la dimensione definitoria. Qui apro una piccola polemica con quegli esegeti che, partendo dall'abbandono della filosofia, della metafisica, giungono a dire che ogni affermazione biblica su Dio non si riferisce alla sua natura, ma semplicemente alla sua manifestazione. Ci ho creduto anch'io; per poco tempo, a dire la verità, perché mi sono accorto abbastanza in fretta come fosse un po' miope, quest'affermazione. Come se Dio si manifestasse in modo diverso da quello che è. Come se Dio un giorno, alzatosi di buon umore, avesse detto: «Facciamo il mondo»; e poi, dato che c'era: «Interessiamoci di questa gente». Tanto non gli costa nulla, nella sua munificenza, nella sua gratuità (quasi nel doppio senso del termine: di cosa data gratis e di cosa che non costa nulla a chi la fa). E lo stesso per Gesù. No, la manifestazione di Dio non sta a Dio come il fenomeno sta al noumeno (chiedo scusa di questo piccolo accenno tecnico; ma ormai è di cultura quasi comune), cioè come l'apparenza sta alla realtà. No, essa non è l'apparenza della realtà di Dio, ne è l'apparizione. Dio è in se stesso veramente agape; l'agape è la sua verità ontologica, e per questo può manifestarsi. Quegli esegeti hanno ragione nel dire che Dio non ha propriamente una natura, dove natura significhi un modo di essere da cui scaturisce necessariamente un certo modo di agire, da cui scaturiscono necessariamente certi effetti: la natura di Dio è la libertà, certo. Ma dentro quella libertà c'è davvero lui (o se preferite, come oggi alcuni/e amano dire, lei).
    Questa è dunque la prima affermazione: la carità è la verità ontologica di Dio. Se volete, c'è una differenza di accento tra l'inizio dell'autodenominazione e quella che possiamo considerare in qualche modo la conclusione. In entrambi i casi nella carità, nell'agape, è incluso il gesto originario del dono – la creazione, l'alleanza universale, che poi si esplicita, si fa voce e parola nell'alleanza con Israele – e quello del perdono, che si manifesta compiutamente nella redenzione: quante pagine del perdono di Dio sono presenti già nelle Scritture ebraiche, e viceversa quante pagine sulla munificenza del Dio creatore sono presenti anche nel Nuovo Testamento; tuttavia mi sembra che ci sia una diversa accentuazione.
    Da un lato prevale la dichiarazione dell'alleanza originaria: quella fatta con Adamo, che è come la planetarizzazione, diciamo così, di quella stabilita con Mosè. Infatti l'alleanza con tutta l'umanità viene scoperta dilatando per cerchi concentrici, progressivi, l'alleanza fatta con Mosè, con Israele: la costituzione di un popolo la cui elezione non è esclusione, ma rappresentanza dell'alleanza universale. Da un lato, dunque, il centro è questo; ed ecco perché per conoscere le strutture fondamentali del rapporto tra Dio, l'essere umano e il mondo bisogna leggere l'Antico Testamento. Non si trovano nel Nuovo, perché il Nuovo già le presuppone. Perciò chi vuole studiare il Nuovo deve tornare all'Antico, ma non a causa dell'amicizia ebraico-cristiana né per atto di pentimento verso gli ebrei cui tanto male abbiamo fatto: queste sono ragioni di altro ordine, ragioni che attengono certamente all'ordine della carità, ma non riguardano lo studio del rapporto tra i due Testamenti.
    La ragione intrinseca è che le strutture fondamentali e mai tolte – anzi, reintegrate nella croce di Gesù – sono quelle che noi troviamo disegnate semanticamente in diverse forme – narrate, simboleggiate, dette in forma di profezia, di preghiera, di legislazione e via dicendo – nell'Antico Testamento (mi piace continuare ad usare questa forma, Antico; non Vecchio, ma Antico: antico come le montagne, quello che Gandhi diceva della Verità; antico, incrollabile).
    Il Nuovo Testamento è la reintegrazione dell'alleanza, del rapporto tra Dio e l'uomo nel sangue di Gesù, nella sua morte e risurrezione.
    Possiamo dire allora: da un lato l'agape prevalentemente come dono, detta, dichiarata, gridata, cantata nell'Antico Testamento; dall'altro, nel Nuovo, l'agape come perdono, come riconciliazione.
    Seconda affermazione: questa verità ontologica di Dio, questa identità di Dio, diventa identità umana, si fa verità dell'uomo, e dunque fa dell'uomo l'immagine di Dio, attraverso il comandamento. Chiedo scusa ai cattolici, per i quali contrapporre legge e amore, o comunque sottolinearne la tensione, è d'obbligo; chiedo scusa agli evangelici, per i quali sottolineare la tensione, se non la contrapposizione, tra legge ed Evangelo è ancor più d'obbligo; ma io credo che non ci sia altro modo per cui Dio possa farci partecipare al suo essere che è carità se non attraverso il comandamento.
    In tutto il Primo Testamento è il comandamento quello che ultimamente lega Dio all'uomo. Se vogliamo, la fede e il comandamento; ma se guardiamo bene, anche la fede è nell'ordine del comandamento. «Io sono il Signore Dio tuo, non avrai altri dei di fronte a me» (Es 20, 2-3); «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima» (Es 6, 5): ecco, la fede è il primo comandamento, e gli altri sono come il contenuto in cui si configura quel primo.
    La forma, cioè l'intenzionalità costitutiva del comandamento come tale, è quella che chiede al soggetto umano di essere come Dio; ma lo chiede in modo da aprirgli la possibilità di esserlo. Qui bisognerebbe introdurre una fenomenologia della libertà, una fenomenologia dell'esperienza etico-religiosa, che non c'è tempo di fare. Mi servirò, invece, solo di una suggestiva – e per questo, ne sono consapevole, anche rischiosa – analogia. Noi diciamo, con Agostino: «O Signore, ci hai fatti per te, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te»; come se noi già avessimo un cuore. Ma il cuore di cui parla la Bibbia noi non l'abbiamo prima, in attesa di Dio. Il cuore di cui parla la Bibbia viene svegliato, suscitato, creato dalla parola di Dio che ci viene rivolta. Ecco dunque l'analogia: immaginate uno che non abbia alcuna sensibilità musicale, alcun «orecchio», e a cui venga detto: «Ascolta questa musica». Risponderà: «Ma non capisco nulla, mi lascia del tutto indifferente». E un giorno, invece, è colpito da una musica così suggestiva che in quel momento gli si dischiude l'orecchio musicale. Forse è possibile, chissà: non un orecchio musicale già posseduto che permette di capir la musica, ma una musica che suscita l'orecchio musicale. Ecco, io credo che, come quella musica produce l'organo capace di comprenderla, la parola di Dio data in forma di comandamento produca la capacità di ascolto e di accoglienza, quello che la Bibbia chiama il cuore. È sì la parola scritta sulle due tavole di pietra, perché doveva servire anche come legge politico-giuridica; ma se fosse scritta soltanto là sarebbe del tutto inutile, servirebbe solo come principio di sanzione. Ma è scritta qui, nel cuore, ed è un qui che la parola stessa si forgia: questo è il significato del comandamento.
    Questo non decade nel Nuovo Testamento, nonostante tutta la polemica di Paolo contro la legge. È un tema che oggi so di nuovo in discussione, nel quale non voglio entrare perché non lo conosco a sufficienza; ma basta leggere con un minimo di attenzione la Lettera ai Ga-lati, per comprendere che l'economia della legge sembra sì provvisoria e superata in nome della libertà portata da Gesù Cristo, ma questa è la libertà per l'amore, per l'agape, e l'agape è il compimento della legge. Il compimento, non il superamento: quest'agape è ciò che la legge esigeva e di cui, esigendolo, creava le condizioni di possibilità. Perché un'esigenza che non presupponga una capacità o non la crei è un'esigenza inutile: ad impossibilia nemo tenetur.
    Questo è chiarissimo anche in Giovanni, cioè nel Vangelo più «mistico», più spirituale, più teologico. Quando Giovanni parla dell'agape ne parla proprio in termini di comandamento; l'abbiamo sentito anche questa mattina: è il «comandamento nuovo», che però da un'altra parte è detto «nuovo e antico». Solo il comandamento, infatti, può suscitare quella forma di amore che non è più desiderio ma che dice: «Prendimi, Signore. Tu sei il Signore, tu sei il re della mia vita. Ti consegno la mia libertà». Questo vale anche per la cristologia giovannea: l'incarnazione è solo la premessa del cammino per cui Gesù consegna al Padre la sua libertà: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 4, 34); «Non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» (5, 30). E ancora: «lo faccio sempre quello che piace a lui» (8, 29); «Come il Padre mi ha comandato, così faccio» (14, 31). E ancora: «Io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore» (15, 10); «Ho compiuto l'opera che tu mi hai dato da compiere» (17, 4). 11 Vangelo di Giovanni non è solo il Vangelo dell'incarnazione; certo, è anche questo, ma come movimento discendente, presupposto di quel movimento ascendente che è il vero costitutivo della sua dinamica interna: il movimento ascendente di Gesù verso il Padre nel dono di sé, nell'obbedienza fino alla morte. E proprio perché quella morte è il momento in cui Gesù, consegnandosi al Padre, porta a compimento la propria verità, il proprio essere, nella forma di obbedienza al comandamento, proprio perciò Giovanni vede in quel momento, nella croce, la glorificazione di Gesù. Così come vede nella croce il «tetélestai» (consummatum est: Gv 19, 30), l'«esserci tutto» di Gesù; ecco perché allora Gesù può consegnare lo Spirito; già dalla croce, prima ancora di risorgere.
    Perfino Giovanni, dunque – si potrebbe anzi dire più di tutti Giovanni, anche se questa lettura non è così comune – si colloca nella prospettiva che abbiamo delineato; è qui il cuore del suo Vangelo.
    Ecco allora: la verità ontologica di Dio, che è la carità, viene partecipata al soggetto umano attraverso il comandamento. L'indicativo di Dio può diventare indicativo umano solo attraverso l'imperativo. Ciò che Dio è in forza di se stesso può far sì che io diventi quella stessa cosa, cioè carità, solo se io consento alla sua libertà che è libertà d'amore.
    Terza affermazione: anche la verità del mondo è la carità, l'agape. Che cosa vuol dire la verità del mondo? Ciò che il mondo è. Certo, il mondo è anche ciò che ci dicono i fisici, o i biologi; se non fosse così, non sarebbero riusciti, nel passaggio operativo alla tecnologia, a ottenere gli effetti strabilianti che conosciamo. Certo, anche quella è una dimensione della realtà del mondo, ma non è la verità del mondo. Ci spiega come funzionano le cose, ma non ci spiega il perché. Non quel perché che riguarda la causa, ma il perché che riguarda il senso, il fine di tutto ciò, il perché che in qualche modo giustifica che tutto questo si dia; perché se tutto questo non ha alcun senso non c'è più nulla da dire; si può cercare, indagare, ma la domanda di fondo rimane inevasa.
    Allora, se vogliamo cercare una ontologia, come credenti dobbiamo interrogare le Scritture, ebraiche e poi cristiane. Ma per quanto riguarda il mondo, le cose, di nuovo mi sembra che vadano privilegiate le Scritture ebraiche, perché il Nuovo Testamento ha come l'ossessione di dire Gesù Cristo, come quello in cui tutto viene reintegrato; sì, perché tutto il resto c'era già. Dobbiamo dunque andare alle Scritture ebraiche; e lì di nuovo ci vien detto che le cose trovano il loro essere più profondo, la loro verità, nel collegamento alla duplice carità: quella di Dio che le pone e quella del soggetto umano che le accoglie e le fa circolare secondo l'intenzione originaria di Dio.
    Quella di Dio che le pone: «Dio vide che erano buone» (cf Gn 1), dove buone vuol dire, da un lato, funzionanti e utili, dall'altro armoniche e belle. Ma c'è una bellezza delle cose che consiste, per così dire, nella loro fattura, e c'è quell'altra bellezza che si rivela perché dietro, o dentro, si vede la mano di Dio che le tesse. Quando Gesù dice: «Guardate gli uccelli del cielo: non seminano né mietono né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre... Guardate i gigli del campo: non lavorano e non filano; eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro» (Mt 6, 2629); qui c'è un'estetica, direi proprio che c'è un'espressione esemplare dell'estetica biblica. Ma è un'estetica che va al di là della capacità di contemplazione delle cose belle, che Gesù condivideva con ogni persona di buon gusto; qui c'è di più, c'è la contemplazione di quell'altra bellezza che è la bellezza della bontà, la bellezza della sollecitudine, la bellezza della tenerezza materna e della cura paterna da parte di Dio. L'essere delle cose, la verità ultima delle cose è dunque la presenza di questa carità di Dio che le imbastisce. Ed è quello a cui Israele risponde con i salmi di rendimento di grazie e di lode.
    Tutto questo però non basta. Possiamo accogliere le cose e ringraziarne Dio, ma poi prendercele e tenercele strette; allora neutralizziamo, blocchiamo quella loro bellezza, quel loro secondo livello di bellezza –o se vogliamo di verità – che è il loro senso. Quello che ci permette di essere l'immagine di Dio nella concretezza dell'uso delle cose è il comandamento. Dico «cose» nell'accezione più ampia del termine: gli oggetti naturali, gli oggetti artificiali, le stesse relazioni in quanto implicano un minimo di «cosalità», come più o meno tutte, in quanto passano attraverso il corpo. Ecco, se noi chiudiamo tutto questo dentro il piccolo cerchio del connaturale narcisismo costitutivo del soggetto umano prima dell'irruzione della Parola che produce il cuore, possiamo anche essere dei grandissimi operatori sul piano della trasformazione tecnologica e della circolazione economica delle cose, possiamo anche essere dotati di gusto raffinato, ma svuotiamo le cose della loro verità. Le cose raggiungono questa verità quando giungono là dove sono destinate; e vi giungono attraverso la mediazione del comandamento che in noi si fa mani e piedi, che in noi si fa dono. Vi giungono se l'intenzionalità di dono che Dio vi ha immesso non viene bloccata, non viene portata via, ma viene accolta e favorita: nella condivisione, nella convivialità, e via dicendo. Sto dicendo cose che oggi circolano molto e, credo, sono sottese a tutto quello che c'era di buono nel movimento di Genova: io sto cercando di dare loro non dico una dignità, perché la vera dignità è quella che hanno già in se stesse, lì dove si manifestano con sincerità di cuore e con onestà di comportamento, ma quella dignità seconda che è anche una certa coerenza e organizzazione sul piano del pensiero.
    Quanto alla verità logica, io non mi fermo su questo punto; è che in realtà, nel momento in cui cerco di parlarvi della verità ontologica di Dio, produco una verità logica, se quello che dico rispecchia, traduce veramente le cose come stanno: le cose di Dio, le cose dell'uomo, le cose del mondo, in questa loro circolarità, in questo loro profluire, passare attraverso il cuore e le mani dell'uomo, perché tutte poi diano lode a Dio assieme allo stesso soggetto che ne ha favorito la circolazione. Dire tutto questo è verità logica; ma, prima che ci metta mano il teologo, questo è detto – in forma di simbolo, di narrazione, di profezia, di preghiera – nelle Scritture. Allora il luogo della verità logica della carità sono le Scritture, di cui io non parlo più estesamente perché se ne tratterà in forma più dispiegata negli interventi prossimi.

    L'oggi

    La chance dell'oggi è quella che, nel programma pastorale della CEI per gli anni '90, si presenta come traduzione della «nuova evangelizzazione», dove il «nuovo» va inteso qualitativamente: si tratta, cioè, non solo di rilanciare l'evangelizzazione dopo un certo periodo di ristagno, ma di rilanciarla con un elemento di novità. Non con una novità assoluta, perché se fosse tale vorrebbe dire che tutta l'evangelizzazione del passato andrebbe cassata; ma con un diverso accento, una diversa articolazione, direi, tra la verità ontologica e la verità logica.
    La formula della CEI era «il Vangelo della carità», che preferirei trasformare in «Evangelo della carità»; non solo per amore dei fratelli evangelici, ma perché ci sono i quattro Vangeli e c'è l'Evangelo, che li attraversa tutti. L'Evangelo della carità, prima ancora di essere l'insieme di quelle parole, di quei racconti, di quei simboli che parlano della carità, che la pronunciano, è la stessa carità nella sua capacità di diventare Evangelo, nella sua capacità di parlare. Perché tutto ciò che noi siamo, tutto ciò che noi facciamo non è soltanto atto che mira a un effetto, ma anche gesto che esprime il senso di quell'atto, dice dove stiamo tendendo. Perciò l'agape vissuta ha già in se stessa una forza espressiva; quella forza espressiva originaria il cui soggetto vero non è l'individuo che in quel momento sta dando da mangiare a chi ha fame, sta visitando un carcerato, sta dicendo una buona parola; il soggetto ultimo di questo è il Dio la cui verità è carità, e al quale io ho consentito di farsi presente nella mia azione. Qui è la prima teologia, in questa manifestazione di Dio che si fa visibile nella nostra vita di carità, in questo testo vivo di cui il racconto biblico è come il commento.
    Si tratta dunque di riarticolare il rapporto tra carità e parola di Dio: se da un lato il primato spetta alla Parola e alla sua celebrazione, dall'altro si può e si deve riconoscere che le opere della carità possono diventare, per chi ne è destinatario, la prima parola di Dio, il primo Evangelo.
    Tutto questo oggi però è anche accompagnato da un rischio (e qui sono contento di non aver più tempo, perché è il tema su cui attualmente sto più lavorando e sarei io a correre il rischio di insistervi troppo). Mi limito ad accennare a due punti.
    Il primo: la soggettivizzazione della carità. Oggi c'è una forma di soggettivizzazione dell'esperienza di Dio, che non solo è ricondotta al desiderio sul piano teologico, ma ridotta a quelle figure immediate del desiderio che sono le nostre emozioni, magari il nostro bisogno di benessere psicologico. Dio diventa allora come il «supplemento d'anima» del nostro benessere complessivo, in un senso ben diverso da come lo intendeva, se ben ricordo, Paolo VI. Questa forma di cosiddetta esperienza di Dio di per sé ha poco o nulla a che vedere con l'agape, con la carità; e credo che sia un pericolo a cui oggi si deve prestare molta attenzione.
    Secondo: la relativizzazione della verità. Anche qui bisogna stare attenti: nel dialogo, nel confronto tra posizioni, nessuno ha tutta la verità, però ognuno ha quella verità che è un elemento costitutivo della propria identità. Anche, e soprattutto nella dimensione comunitaria, quella verità che è la verità logica, cioè la professione di fede, e quel minimo di organizzazione della professione di fede che sono i punti fondamentali di ogni teologia. L'incontro, il dialogo, non deve mai andare a scapito della fedeltà a quello che noi siamo. La circolazione tra la verità ontologica che ci apre all'altro, a tutti gli altri, e l'esigenza della verità logica definisce la nostra identità.
    Finisco con un richiamo alla tradizione liturgica. Domenica scorsa, alla celebrazione eucaristica, nella preghiera di colletta erano presenti i tre elementi di cui ho cercato di parlarvi: la grazia di Dio, cioè la sua carità, la vita teologale – fede, speranza e carità – nostra, e la sua esecuzione nei comandamenti. La disposizione dei tre elementi era quella classica della tradizione cristiana, ma penso possa anche essere variata senza comprometterne la verità: Signore, donaci i tesori della tua grazia, perché ardenti di speranza, fede e carità restiamo sempre fedeli ai tuoi comandamenti.

    (testo registrato e non rivisto dall'Autore)

    (da: AAVV, Da questo vi riconosceranno, Ancora 2002)


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