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    Un'azione pastorale
    a partire dai poveri

    Quale conversione è richiesta
    alle comunità parrocchiali?
    Lucio Soravito

    Perché queste disarmonie? Perché le comunità cristiane non sono cresciute in modo armonico nelle tre dimensioni essenziali: l'annuncio, la liturgia, l'esercizio della carità. Non hanno scoperto ancora che queste tre dimensioni devono compenetrarsi tra di loro e che trovano il loro punto di convergenza nella carità. Non hanno educato i diversi operatori pastorali a collaborare insieme, pur avendo compiti diversi. Questa osmosi non si è realizzata anche perché nelle comunità parrocchiali manca l'abitudine o la volontà di progettare l'azione pastorale e non è ancora maturata la consapevolezza che «l'evangelizzazione deve passare in modo privilegiato attraverso la via della carità reciproca, del dono e del servizio» (ETC 10). Soprattutto predomina ancora una concezione individualistica e privatistica dell'impegno caritativo. Si impone allora un doveroso «esame di coscienza».

    Sono tre le dimensioni essenziali della vita cristiana: l'annuncio, la celebrazione e la testimonianza della carità. Esse dovrebbero essere presenti in maniera equilibrata nella vita di una comunità parrocchiale e dovrebbero essere integrate tra loro in forma armonica. Anzi, la ricerca di «un'osmosi sempre più profonda tra queste tre essenziali dimensioni del mistero e della missione della chiesa» viene indicata dai vescovi italiani come uno degli obiettivi principali della pastorale per gli anni '90 (cf. Evangelizzazione e testimonianza della carità [= ETC], n. 28). Ma se osserviamo la vita e l'azione pastorale delle nostre comunità parrocchiali, dobbiamo rilevare che, di solito, c'è una grande sproporzione e una frequente scollatura tra il momento dell'annuncio, della celebrazione e dell'impegno caritativo; c'è una «distanza» notevole tra gli operatori impegnati nei diversi ambiti pastorali; c'è un distacco evidente tra i pochi cristiani attivi e la «massa» dei praticanti.
    Alcuni anni fa il cardinale Martini, in una relazione che tenne ad Assisi al convegno nazionale delle Caritas diocesane sul tema del volontariato, vi rilevò tre sproporzioni:
    – la sproporzione fra il numero dei cristiani che si dedicano al servizio di catechista e di animatore liturgico e il numero di quelli che si dedicano alla diaconia di carità;
    – la sproporzione fra chi rimane costante nel servizio e chi incomincia e dopo un tempo più o meno breve lo lascia;
    – la sproporzione fra chi si impegna nel servizio di carità e l'insieme della comunità cristiana che rimane inerte e passiva.

    Un doveroso esame di coscienza

    In passato (ma per molte parrocchie il fenomeno è del tutto attuale) la vita parrocchiale e l'azione pastorale erano sbilanciate decisamente sul versante liturgico-sacramentale, al punto che tutta la vita della comunità e dei cristiani sembrava ridursi ai riti liturgici, alla frequenza ai sacramenti, alle pratiche della religiosità popolare. Non a caso erano e sono ritenuti tuttora «buoni cristiani» i cosiddetti «praticanti», cioè quelli che vanno a messa ogni domenica e a confessarsi e comunicarsi a Pasqua. Anche oggi si continuano a contare i cristiani in base alla loro «pratica» religiosa. È questo il criterio evangelico per valutare la vita cristiana? I cristiani praticanti si preoccupano, se alla domenica in parrocchia non si celebra la messa. Sono altrettanto preoccupati, se la comunità parrocchiale non compie le «opere di misericordia», o non difende la dignità delle persone, o non interviene per garantire i diritti dei più poveri, dei diseredati, degli immigrati? Se la celebrazione dell'eucaristia non porta la comunità cristiana a crescere nell'amore fraterno, specialmente verso i fratelli che hanno più bisogno di amore perché sono gli ultimi, rischia di diventare un aborto, cioè una vita stroncata sul nascere.
    In questi ultimi trent'anni molte parrocchie hanno cercato di dare più attenzione al momento dell'evangelizzazione, anche se lo sforzo fatto sembra essere circoscritto ancora alla catechesi dei ragazzi e alla formazione cristiana dei «praticanti». Si è dato più spazio alla lettura e meditazione della parola di Dio. È cresciuto il numero dei catechisti impegnati con i fanciulli e i ragazzi: C'è stato uno sforzo notevole per rinnovare il modo di fare catechesi e si sono dedicate molte energie per elaborare catechismi aggiornati nei metodi e nei contenuti. Quando si parla delle comunità cristiane, si ama definirle «comunità di credenti» o «comunità di fede». Ma esse si riconoscono anche come «comunità di carità»? Se l'annuncio dell'amore di Dio non si innesta nei problemi vivi degli uomini di oggi, finisce per essere percepito come retorica o demagogia.

    I poveri nelle nostre parrocchie

    Il Signore Gesù ci ha dato un criterio preciso per valutare la nostra fede e riconoscere i «buoni cristiani»: l'amore reciproco e soprattutto l'amore rivolto ai più poveri. «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35). «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me» (Mt 25,40).
    Nelle comunità cristiane le espressioni di carità certamente non mancano: basta pensare ai gruppi di volontariato, alle Caritas parrocchiali (presenti in molte comunità), alle istituzioni assistenziali gestite da diocesi, parrocchie e istituti di vita consacrata, alle collette per le necessità locali e del Terzo mondo, ecc. Ma le nostre parrocchie risplendono per l'esercizio quotidiano delle opere di misericordia?
    Dove sono i vecchi: accolti in famiglia o dimenticati nelle case di riposo? E i malati cronici e gli handicappati: lasciati alle sole forze dei loro familiari o assistiti e seguiti dalle famiglie cristiane? Quando una ragazza sbaglia o un giovane finisce in carcere, come sono considerati nelle loro comunità cristiane? Amati, aiutati a ricostruire la loro vita, o emarginati con giudizio severo e farisaico?

    I poveri nell'azione pastorale

    Qual è il criterio di fondo che guida l'azione pastorale delle nostre parrocchie e che regola il rapporto con i poveri? L'azione pastorale delle nostre comunità dovrebbe ispirarsi sempre alla pedagogia di Dio, al suo modo di agire dentro la storia e di intervenire nei confronti degli ultimi. Ora Dio si è rivelato nell'esperienza del popolo di Israele prima e nel Figlio suo Gesù Cristo come Colui che «rende giustizia agli oppressi, dà il pane agli affamati, libera i prigionieri, ridona la vista ai ciechi, rialza chi è caduto, protegge lo straniero, sostiene l'orfano e la vedova» (Sal 146,7-9). Perciò anche la chiesa, seguendo la pedagogia di Dio, è chiamata a circondare di «affettuosa cura quanti sono afflitti dall'umana debolezza», a riconoscere nei poveri e nei sofferenti l'immagine del suo fondatore povero e sofferente, a sollevarli dall'indigenza e a servire in loro Cristo stesso (cf. LG 8).
    Nella tradizione e nel magistero della chiesa l'amore preferenziale per i poveri è stato riconosciuto come «una forma speciale di primato nell'esercizio della carità» (Sollicitudo rei socialis [= SRS], n. 42). Di fatto, quale posto occupano i poveri nella vita e nell'azione pastorale delle nostre comunità parrocchiali? I cristiani conoscono quantitativamente e qualitativamente i bisogni presenti nella loro comunità? In chiesa e nella casa parrocchiale i poveri si sentono a casa loro per la semplicità del tono di vita e per il rispetto e la cordialità con cui sono trattati? Quale spazio è dato agli «ultimi» nella progettazione pastorale? Quale posto hanno nel bilancio delle parrocchie le spese per i poveri?
    È probabile che questi interrogativi facciano venire alla luce l'enorme distanza che esiste tra la solidarietà che siamo chiamati ad avere verso i poveri e la scarsa solidarietà che di fatto testimoniamo. Si impone perciò a ciascun cristiano e alle comunità parrocchiali una conversione radicale. È la stessa conversione che san Giovanni Crisostomo richiedeva con forza alla sua chiesa di Costantinopoli già alla fine del III secolo, quando metteva a confronto il modo con cui veniva trattato Gesù Cristo nel tempio e nei poveri.
    Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non permettere che sia oggetto di disprezzo nelle sue membra, cioè nei poveri LI. Non onorarlo qui in chiesa con stoffe di seta, mentre fuori lo trascuri quando soffre per il freddo e la nudità 1...1. 11 corpo di Cristo che sta sull'altare non ha bisogno di mantelli, ma di anime pure; mentre quello che sta fuori non ha bisogno di «vasi di oro», ma di anime d'oro [...]. Che vantaggio può avere Cristo se la mensa del sacrificio è piena di vasi d'oro, mentre poi muore di fame nella persona del povero? Prima sazia l'affamato e solo in seguito orna l'altare con quello che rimane. Pensa la stessa cosa di Cristo, quando va errante e pellegrino, bisognoso di un tetto. Tu rifiuti di accoglierlo nel pellegrino e adorni invece il pavimento, le colonne e i muri dell'edificio sacro [...]. Dico questo non per vietarvi di procurare tali addobbi e arredi sacri, ma per esortarvi a offrire, insieme a questi, anche il necessario aiuto ai poveri o, meglio, perché questo sia fatto prima di quello (Om. 50, 3, 4: PG 58,508-509).

    Scelte pastorali di fondo

    Convertirci alla «logica» di Dio

    La conversione che viene richiesta alle nostre comunità e a ciascun cristiano è quella di accettare la «logica» di Dio, che salva tutti a partire dai poveri. Dio, fin dal primo esodo biblico, si fa solidale con gli oppressi, i deboli e i miseri della società (cf. Es 2,23-25; Dt 24,1718.22). Alla radice di questo modo di agire di Dio sta il suo amore preferenziale verso gli ultimi: Dio privilegia i poveri non perché sono più buoni e disponibili degli altri, ma perché hanno più bisogno.
    Questo «stile» di Dio trova la sua manifestazione più piena nella persona di Gesù di Nazaret. Egli inizia la sua missione pubblica proclamando il «lieto annuncio» che il regno di Dio si è fatto vicino come perdono, giustizia e liberazione in favore dei poveri (cf. Mc 1,15; Lc 4,18-21). Per questo, con una dichiarazione programmatica, li invita ad esultare e a rallegrarsi: «Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio» (Lc 6,20). Egli va a mangiare con i peccatori, perché fa come il medico che cerca quelli che stanno male (cf. Dt 7,7-8; Mc 2,17). Riconosce con gioia e gratitudine questo modo di agire libero e gratuito di Dio Padre, che rivela i suoi misteri ai piccoli (cf. Mt 11,25-26; 13,11). Dio infatti è comunque un padre che accoglie e reintegra nelle relazioni familiari il figlio scappato di casa, perché al solo vederlo ritornare è preso dalla commozione (cf. Lc 15,20; Os 11,8).
    Gesù porta alle estreme conseguenze questa rivelazione dello stile di Dio, accettando la morte violenta e infame della croce come massimo gesto di condivisione con i poveri e i peccatori (cf. Mc 10,45). Con questa scelta di estrema solidarietà Gesù apre la via della salvezza a tutti gli uomini. Dio per mezzo di Gesù si fa vicino ad ogni essere umano, gli offre gratuitamente la liberazione dal male e gli dona la «vita nuova», la sua stessa capacità di amare.
    Questa novità evangelica è accolta e vissuta con gioia e riconoscenza nella prima chiesa. Ai cristiani di Corinto, tentati di ricadere in una religiosità litigiosa e competitiva, Paolo richiama qual è il nucleo essenziale dell'evangelo: Gesù Cristo crocifisso e risorto, che rivela la nuova logica di Dio. Egli ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti (cf. I Cor 1,17-31). Alla stessa comunità di Corinto Paolo ricorda qual è il motivo profondo che deve stimolare la solidarietà attiva in favore delle chiese povere della Palestina: l'amore benigno di Gesù Cristo, che si è reso solidale con la condizione umana per arricchirla del suo amore (cf. 2Cor 8,9).
    A questo stesso principio della solidarietà cristiana si ispira anche il modello di chiesa proposto da Luca negli Atti degli apostoli. La comunione profonda dei credenti, che formano un cuor solo e un'anima sola, si traduce nella condivisione dei beni, in modo che non vi siano più miseri nella comunità (cf. At 4,32.34-35). Infatti la fede cristiana consiste nell'accogliere liberamente l'amore misericordioso di Dio e nell'amare altrettanto i fratelli, a partire dai più poveri.
    Chi per mezzo della fede entra in questo dinamismo di amore, segue l'azione interiore dello Spirito Santo che lo conduce a porre la sua vita con tutti i beni al servizio del prossimo (cf. Gai 5,1.6.13-14; Rm 8,14). Pertanto i credenti che hanno riconosciuto e accolto per mezzo della fede in Gesù Cristo questo dono dell'amore gratuito di Dio, si impegnano a fare dono della propria vita e dei beni ai fratelli bisognosi (cf. 1Gv 3,16-17; Gc 2,16).

    Mettere i poveri al centro della comunità

    In questa prospettiva l'amore preferenziale per i poveri costituisce un'opzione o una forma speciale di primato nell'esercizio della carità cristiana, testimoniata da tutta la tradizione della chiesa (cf. SRS 42). L'adesione a Cristo crocifisso chiede alle parrocchie di trasformarsi in comunità accoglienti e aperte, dove ognuno si trova a suo agio; dove l'ultimo, il disabile, il vecchio, il malato, l'ignorante, il disadattato, l'immigrato è tenuto in maggiore considerazione, perché ha più bisogno degli altri (cf. 1Cor 12,15-27).
    Deve avvenire in parrocchia ciò che avviene di solito in famiglia. In famiglia le attenzioni maggiori convergono sui membri più deboli: il bambino piccolo, il fratello in difficoltà, il padre ammalato: tutta la vita tende a organizzarsi intorno a loro, dalla priorità nelle spese, all'uso del tempo libero, alla disposizione delle ferie. Soltanto se educhiamo noi stessi, le nostre famiglie, le nostre parrocchie a questa scelta permanente in tutte le espressioni della vita, noi ci educhiamo a vivere secondo la logica dell'amore, che è la logica della vita e della civiltà vera. «Senza questa solidarietà concreta, senza attenzione perseverante ai bisogni spirituali e materiali dei fratelli, non c'è vera e piena fede in Cristo. Anzi, come ci ammonisce l'apostolo Giacomo, senza condivisione con i poveri la religione può trasformarsi in un alibi o ridursi a semplice apparenza (cf. Gc 1,27-2,13)» (ETC 39).
    Questa opzione pastorale in favore dei poveri, richiede alle nostre comunità una profonda conversione nell'esercizio della carità.
    1. Dall'impegno personale al coinvolgimento comunitario. La prima espressione della carità verso i «poveri» è l'esercizio delle opere di misericordia: questa espressione è alla portata di tutti e non è delega-bile. Ma non è sufficiente l'esercizio individuale della carità. Né può essere affidato ad alcuni organismi o associazioni che operano all'interno del territorio. Tutta la comunità dei credenti è chiamata a testimoniare davanti agli uomini l'amore attivo che rivela il volto del Padre. Essa per natura sua deve essere un riflesso dell'amore di Dio. La crescita del popolo di Dio non è concepibile senza una maggiore presa di coscienza da parte di tutta la comunità cristiana delle proprie responsabilità nei confronti dei bisogni dei suoi membri. Perciò tutta la comunità cristiana e, al suo interno, i singoli battezzati devono essere educati e formati secondo la nuova mentalità e coscienza evangelica di solidarietà attiva con i più poveri, superando il semplice pietismo e la filantropia.
    2. Dall'elemosina alla condivisione. Per promuovere l'impegno caritativo verso i poveri, le comunità cristiane sono chiamate a confrontarsi con Gesù, amico degli ultimi. Egli ci chiama a superare una carità ridotta a elemosina per giungere alla condivisione. Dal momento che la vocazione della chiesa e dei cristiani è vocazione alla «comunione nella carità», la chiesa e i cristiani non possono accontentarsi di dare ai poveri il superfluo, ma devono condividere con essi quello che hanno (cf. Lc 10,25-37: il buon samaritano). Condividere significa anche vedere la realtà come la vede l'altro, per comprendere le sue reazioni, le sue scelte, le sue decisioni o non-decisioni. Questa condivisione implica il nostro coinvolgimento. «La carità evangelica, poiché si apre alla persona e non soltanto ai suoi bisogni, coinvolge la nostra stessa persona ed esige la conversione del cuore. Può essere facile aiutare qualcuno senza accoglierlo pienamente. Accogliere il povero, il malato, lo straniero, il carcerato è infatti fargli spazio nel proprio tempo, nella propria casa, nelle proprie amicizie, nella propria città e nelle proprie leggi» (ETC 39).
    3. Dall'esercizio della carità alla solidarietà. L'esercizio della carità verso gli «ultimi» non può essere disgiunto dalla pratica della giustizia;anzi la esige come condizione indispensabile. A volte il nostro impegno di carità si limita a cercare di rendere più sopportabili le situazioni di ingiustizia, senza fare niente per cambiarle. In tal modo si corre il rischio di essere conniventi con tali ingiustizie. «La giustizia senza la carità è incompleta, ma la carità senza giustizia è falsa» (don Milani). «La carità autentica contiene in sé l'esigenza della giustizia: si traduce pertanto in un'appassionata difesa dei diritti di ciascuno. Ma non si limita a questo, perché è chiamata a vivificare la giustizia, immettendo un'impronta di gratuità e di rapporto interpersonale nelle varie relazioni tutelate dal diritto» (ETC 38). Mentre la carità porta a permeare di amore e di condivisione i rapporti umani, la giustizia porta a creare condizioni di vita che eliminino – per quanto è possibile – le cause della miseria, promuovano la liberazione dalle schiavitù e dai limiti, facilitino lo sviluppo della persona e la promozione di rapporti interpersonali umanizzanti. Stile e mezzo per eliminare le cause che generano la povertà, è la solidarietà; questa «non è un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane; al contrario, è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siano veramente responsabili di tutti» (cf. SRS 38).
    4. Dall'assistenza alla partecipazione. Se si amano i poveri, ci si batte per aiutarli a uscire dalla loro condizione di dipendenza. «L'aiuto sia regolato in tal modo che coloro che lo ricevono vengano, a poco a poco, liberati dalla dipendenza altrui e diventino sufficienti a se stessi» (AA 8). Perciò, non più azioni per il povero, ma con il povero. L più difficile, perché significa consultarlo, decidere con lui, rispettare i suoi ritmi, mentre è tanto più semplice sostituirsi a lui, decidere per lui, nella presunzione di sapere meglio di lui che cosa sia bene. Ma così non l'aiutiamo a crescere, a diventare protagonista nella sua vita. Se il povero partecipa alle iniziative in prima persona, acquisterà senso di responsabilità, spirito di solidarietà, e si sentirà utile agli altri. Si passa così dalla promozione (un'azione fatta da noi per un altro) all'auto-promozione (mettere l'altro in condizione di decidere che cosa fare per crescere). Dall'assistenza alla partecipazione, alla promozione, all'auto-promozione. È necessario prepararsi a questo nuovo stile di carità.

    Progettare la pastorale a partire dai poveri

    In questa prospettiva, le comunità cristiane non possono ridursi a fare qualcosa per i poveri, ma sono chiamate a ripartire dai poveri che stanno al centro degli interessi di Dio. Egli infatti raggiunge tutti gli esseri umani con sollecitudine di Padre, passando attraverso la porta dei piccoli e dei poveri. In armonia con questa immagine di Dio, rivelata da Gesù, le comunità cristiane sono chiamate non solo a farsi carico delle situazioni di miseria e di ignoranza, di ingiustizia ed emarginazione dei poveri, ma anche a guardare la storia umana con gli occhi dei poveri e a fare insieme con loro un cammino di liberazione, promozione e crescita umana integrale. I poveri, allora, cessano di essere destinatari di sola assistenza, per diventare soggetti e protagonisti di nuovi rapporti all'interno della comunità credente.
    Da questa nuova prospettiva devono essere desunti i criteri della progettazione pastorale nei tre ambiti dell'evangelizzazione, della liturgia e della testimonianza di carità.
    1. Nell'annuncio e nella catechesi non basta proclamare con tutta franchezza e verità che Gesù Cristo, il Signore risorto, è la «buona notizia» per i poveri; occorre lasciarsi coinvolgere dallo stile solidale di Dio. Perciò i piccoli, deboli e marginali nella comunità cristiana sono quelli che interpellano i credenti e gli operatori pastorali; sono essi che suggeriscono i criteri e i metodi dell'intera azione pastorale e dell'evangelizzazione, le mete della catechesi parrocchiale e della formazione cristiana permanente; sono essi che indicano il linguaggio da adottare e il ritmo da assumere nel cammino di formazione cristiana. Sono essi che provocano l'intera comunità ecclesiale a un uso più evangelico dei beni e a un modello di vita alternativo a quello che privilegia la produzione, il possesso, il consumo dei beni, piuttosto che le relazioni umane gratuite.
    2. Nella liturgia si celebrano le «grandi opere» di Dio. Il vertice e la fonte di ogni azione liturgica è l'offerta che Gesù ha fatto di se stesso sulla croce. I battezzati che accedono a Dio attraverso questa via, imparano ad offrire se stessi nella liturgia della vita, che ha il suo centro dinamico nell'amore per i poveri. Ma una pastorale liturgica che pone i poveri al centro, non si limita a ricordarli o a promuovere le opere di carità in loro favore. Il linguaggio e l'intera prassi liturgica, devono essere ripensati e riformulati in modo tale che poveri, vecchi e bambini, disabili e malati, peccatori e indifferenti, siano accolti e si trovino a loro agio nell'assemblea, nel pieno rispetto della loro dignità. Essi devono sentirsi soggetti e protagonisti della celebrazione.
    3. La testimonianza della carità non può essere ridotta a iniziative assistenziali o a gesti occasionali di aiuto, che finiscono per condannare i poveri, i diseredati, i malati e i vecchi a una ulteriore emarginazione. Essa deve offrire a coloro che sono nell'indigenza – perché malati, vecchi, handicappati, immigrati, alcolizzati, drogati, barboni – il segno dell'accoglienza e della solidarietà, quale deve essere riservata alle parti più deboli del corpo ecclesiale (cf. 1Cor 12,15-27). Questa accoglienza-solidarietà deve:
    – diventare azione con cui aiutare i poveri a liberarsi dalla condizione in cui si trovano;
    – provocare gli enti pubblici a farsi carico di queste situazioni di miseria;
    – tradursi in scelte concrete per eliminare le cause della miseria;
    – educare le persone a passare dalla generosità occasionale ed emotiva a un atteggiamento permanente di solidarietà e condivisione.

    Proposte operative

    L'amore preferenziale per i poveri non cresce da solo; esso chiede un'azione educativa che dia motivazioni e orientamenti evangelici per la «pastorale della carità» ai singoli cristiani, ai gruppi ecclesiali impegnati nel settore caritativo e all'intera comunità. Come l'evangelizzazione ha bisogno della testimonianza della carità per essere credibile, così l'impegno caritativo verso gli ultimi, per essere perseverante, gratuito, sovrabbondante, concreto e trasparente (cf. ETC 21-23), ha bisogno di essere sostenuto e guidato dalla parola di Dio. Si suggeriscono alcune proposte operative, con cui le comunità cristiane potrebbero educare tutti i loro membri alla testimonianza della carità.

    Assimilare il «vangelo della carità»

    Per testimoniare l'amore di Dio verso i poveri occorre lasciarsi guidare dal «vangelo della carità»: l'amore di Dio manifestato in Cristo Gesù, la sua parola, la sua croce e la sua risurrezione. I contenuti fondamentali del «vangelo della carità» da approfondire in parrocchia con adulti, giovani e ragazzi si possono così riassumere:
    – Dio è dentro la nostra storia, «appassionato» per l'uomo, impegnato per la sua liberazione e per la sua piena realizzazione;
    – in Cristo si è manifestato in modo definitivo e pieno l'amore di Dio; egli è in mezzo a noi «perché abbiamo vita e vita abbondante» (Gv 10,10);
    – Cristo ci chiama a collaborare con lui nell'opera di liberazione e di promozione umana e nella realizzazione di un mondo più giusto e fraterno (regno di Dio); ci chiama a farci carico soprattutto dei più poveri;
    – Cristo, donandoci il suo Spirito, ci ha riuniti in un solo Corpo, la chiesa, e ci ha resi capaci di amare come ama lui, capaci di promuovere la vita, di far germogliare la giustizia e la pace, di essere solidali con chi ha più bisogno;
    – la nostra vita dobbiamo metterla a disposizione delle situazioni di necessità, sostenuti dalla speranza che il regno di Dio è già all'opera in mezzo a noi.

    Maturare il senso della solidarietà e della condivisione

    Non basta annunciare il «vangelo della carità»; è necessario che esso cambi il cuore e lo renda capace di amare. Certamente il «cuore» del vangelo è l'amore di Dio per l'uomo; ma insieme, e in risposta ad esso, è anche l'amore dell'uomo per i fratelli (cf. I Gv 3,16; 4,19-21). Quali «risposte di amore», quali atteggiamenti far crescere nei singoli credenti?
    1. Una grande passione per la vita. Dio è dalla parte della vita. Egli ha detto un «sì» totale alla vita. La vita è qualcosa di troppo importante; non si può lasciare che essa sia banalizzata nel facile «consenso» (adattamento alle mode del momento) o nella disperazione del «non-senso».
    2. La decisione di spendere la vita nella logica dell'amore. Per questo è necessario uscire da una concezione individualistica e «proprietaria» della vita e maturare la convinzione che la vita con i suoi carismi ci è stata data in «dono», perché sappiamo valorizzarla «per l'utilità comune», per l'edificazione del corpo di Cristo e, soprattutto, in favore delle membra più deboli del corpo ecclesiale.
    3. Il senso della corresponsabilità sociale: ciò comporta la disponibilità a lasciarsi «provocare» dai bisogni concreti delle persone e dell'ambiente, l'educazione della capacità critica di fronte alle ingiustizie,la presa di posizione di fronte alle cause che generano le situazioni di miseria, l'acquisizione di competenze professionali corrispondenti al servizio che siamo chiamati a svolgere.
    4. La speranza cristiana e la perseveranza: una speranza fondata sulla fedeltà di Cristo; una speranza che si traduce in pazienza, fortezza e perseveranza; una speranza che ci aiuta a tendere verso il «di più» del regno di Dio.

    Testimoniare la carità mediante gesti concreti

    Se il senso della solidarietà e della condivisione cresce davvero nel cuore delle persone, non rimane chiuso nel cuore, ma si manifesta attraverso i gesti concreti della carità e attraverso l'acquisizione di precise competenze operative. D'altra parte le esperienze vissute di solidarietà con gli «ultimi» contribuiscono a maturare il senso della carità e della condivisione. Si impara ad amare, amando; si impara a perdonare, perdonando... Quali esperienze la comunità ecclesiale, a livello di parrocchia o di zona pastorale o di diocesi, può far vivere ai suoi membri? In quali impegni concreti può coinvolgerli? Proponiamo alcuni esempi.
    1. Individuare le persone bisognose di aiuto e le cause che hanno determinato questa situazione di povertà, mediante l'istituzione di un «osservatorio» parrocchiale o zonale; qualsiasi intervento sociale non può nascere che da una profonda attenzione alle reali esigenze del territorio.
    2. Progettare interventi concreti in favore di persone in stato di necessità e di fronte a situazioni in cui è violata la dignità della persona e i diritti dell'uomo, per soccorrere queste persone ed eliminare le cause che generano tali violazioni.
    3. Porre insieme gesti significativi di carità, che abbiano il carattere della profezia e della testimonianza, come l'attenzione ai tossicodipendenti, l'assistenza ai malati terminali, l'istituzione di piccole case di accoglienza per anziani non autosufficienti; le iniziative per combattere l'alcolismo, l'accoglienza di sfrattati e di immigrati.
    4. Collaborare nelle iniziative promosse dalle istituzioni pubbliche per fare uscire le persone dalle loro situazioni di miseria (droga, prostituzione, altre forme di devianza, emarginazione, solitudine di anziani e di malati, ecc.).
    5. Attivare gemellaggi con comunità dell'Europa dell'Est o del Terzo mondo, per realizzare «progetti speciali», per finanziare «micro-realizzazioni» richieste da missionari e da operatori sociali, assicurando una cooperazione che si prolunghi nel tempo.
    6. Dare vita ad istituzioni e ad iniziative permanenti: per rendere attente le persone alle povertà presenti nel territorio; per formare il volontariato; per coordinare le varie forme di intervento caritativo; per studiare le soluzioni da dare alle vecchie e alle nuove povertà.

    Valorizzare la collaborazione degli animatori della carità

    Per dare questa educazione la comunità ecclesiale deve avvalersi della collaborazione di coloro che per primi sono impegnati nella testimonianza della carità: la Caritas parrocchiale, gli operatori della carità, i volontari, i cristiani impegnati nelle strutture sociali, ecc. Costoro possono coinvolgere i loro fratelli nel dinamismo della carità attraverso varie iniziative; ad esempio:
    – far conoscere le situazioni e le forme di povertà esistenti sul territorio e accostarsi ad esse con l'atteggiamento di fede e di condivisione proposto dal vangelo (cf. parabola del buon samaritano);
    – far conoscere le iniziative di carità promosse dalla parrocchia e dalle pubbliche istituzioni in risposta a tali situazioni;
    – aiutare adulti, giovani, ragazzi a esprimere la propria risposta al messaggio evangelico, ricevuto negli incontri di catechesi, mediante gesti concreti di carità;
    – far individuare impegni concreti di solidarietà da realizzare in favore di qualche situazione di necessità;
    preparare le persone anche «professionalmente» a svolgere servizi di carità, offrendo loro la formazione necessaria per fronteggiare le situazioni di bisogno;
    – far partecipare attivamente la gente ai diversi livelli di azione politica e sociale.

    Conclusione

    Abbiamo prospettato alcuni orientamenti di fondo e alcune scelte operative per stimolare le nostre comunità ecclesiali a incarnare in forme più credibili il «vangelo della carità» e per essere oggi una «manifestazione» credibile, sia pure limitata e parziale, dell'amore di Dio verso i poveri.
    La scelta di impostare un'azione pastorale a «partire dagli ultimi» oggi è resa più urgente anche dalla situazione sociale, economica e politica del nostro paese; essa diventa più urgente che mai, in un contesto culturale che sembra assumere la logica dell'interesse privato, del profitto e del benessere economico come criterio di fondo in base al quale costruire la vita sociale e i rapporti interpersonali.
    I vescovi italiani, già nel 1981, avevano chiamato le comunità ecclesiali, con il documento La chiesa italiana e le prospettive del paese, a «ripartire dagli ultimi, che sono il segno drammatico della crisi attuale» (n. 4). In quel documento essi affermavano: «Con gli ultimi e con gli emarginati potremo tutti recuperare un genere diverso di vita. Demoliremo innanzitutto gli idoli che ci siamo costruiti: denaro, potere, consumo, spreco, tendenza a vivere al di sopra delle nostre possibilità» (n. 6). Di fronte a un handicappato, a un anziano non più autosufficiente scopriremo che l'uomo vale non perché è efficiente e produce, ma perché è uomo, è persona. Di fronte a chi soffre la fame o manca di casa o manca di affetto, riscopriremo il valore dei doni di Dio e la responsabilità di non sprecarli.
    «Riscopriremo poi i valori del bene comune, della tolleranza, della solidarietà, della giustizia sociale, della corresponsabilità. Ritroveremo fiducia nel progettare insieme il domani, sulla linea di una pacifica convivenza interna e di una aperta cooperazione in Europa e nel mondo» (ivi). Non sono soltanto i «poveri» che ricevono da noi, ma siamo anche noi che riceviamo da loro: attraverso di loro il Signore ci aiuta a ritrovare la strada per costruire una società più giusta, fraterna e solidale. Provocati da loro le nostre comunità possono crescere davvero come segno e strumento di una nuova umanità.


    T e r z a
    p a g i n A


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