Tutti abbiamo torto!
Thomas Merton
Umiltà e compassione sono le disposizioni buone con cui occorre accettare i propri fallimenti. Questi non sono sempre la conseguenza di comportamenti cattivi. Sono piuttosto il segno di ciò che è umano e, dunque, limitato. Povertà, indigenza e fragilità, groviglio inestricabile di bene e di male: tutto questo è il «torto» che ogni umana creatura dovrebbe saper riconoscere in se stessa.
Forse abbiamo ancora la tendenza fondamentalmente superstiziosa ad associare il fallimento alla disonestà e alla colpa, fallimento che viene interpretato come «castigo». Anche se un uomo parte animato da buone intenzioni, se poi fallisce, siamo portati a ritenerlo in qualche modo «colpevole». E se non è proprio colpevole, per lo meno deve avere «torto». E l'«aver torto» è cosa che ancora non ci siamo abituati a considerare con equanimità e comprensione. O lo condanniamo con divino disprezzo o lo perdoniamo con divina condiscendenza! Non riusciamo ad accettarlo con compassione ed umiltà, riconoscendogli qualcosa di umano, di nostro. Così ci sfugge l'unica verità che potrebbe aiutarci per incominciare a risolvere i nostri problemi morali e politici; cioè che siamo tutti più o meno nel torto, che tutti abbiamo sbagliato, che tutti siamo limitati ed impediti dai nostri moventi spesso contrastanti, dai nostri errori, dalla nostra avidità, dalla nostra tendenza all'autogiustificazione, all'aggressività, all'ipocrisia.
Rifiutandoci di riconoscere le intenzioni parzialmente buone degli altri e di collaborare con loro (con la dovuta prudenza e rassegnandoci alla inevitabile imperfezione del risultato), noi inconsciamente proclamiamo la nostra malizia, la nostra intolleranza, la nostra mancanza di realismo e la nostra petulanza morale e politica.
Forse il primo vero passo verso la pace sarebbe quello di riconoscere realisticamente che i nostri ideali politici sono in buona misura illusioni e fantasie, alle quali ci aggrappiamo per motivi non sempre del tutto onesti; e questo ci impedisce di scoprire quanto di buono o di utile contengono gli ideali politici dei nostri avversari: ideali che naturalmente possono essere anche più illusori e disonesti dei nostri. Non risolveremo mai nulla, se non vorremo riconoscere che la politica è un inestricabile groviglio di motivi buoni e cattivi, forse più cattivi che buoni; dove però bisogna continuare a sperare tenacemente nel bene, anche limitato, che vi si può trovare.
Qualcuno potrà osservare: «Se per una volta riconosciamo di avere tutti ugualmente torto, ogni attività politica sarà immediatamente paralizzata. Possiamo agire solo partendo dal presupposto che abbiamo ragione». Al contrario, io sono convinto che alla base di un'azione politica valida debba esserci solo il convincimento che la vera soluzione dei nostri problemi non è prerogativa di nessun singolo partito o singola nazione, ma che tutti devono giungere alla soluzione collaborando insieme.
Non intendo certo incoraggiare quel complesso di colpa per cui si è sempre pronti ad «avere torto» in qualsiasi occasione. Anche questo è un sottrarsi alle proprie responsabilità; perché qualsiasi forma di eccessiva semplificazione finisce per rendere insignificante ogni decisione. Dobbiamo cercare di accettarci sia individualmente che collettivamente, non soltanto come del tutto buoni o del tutto cattivi, ma così come siamo, con il nostro misterioso, inspiegabile miscuglio di bene e di male. Dobbiamo attenerci a quel po' di bene che è in noi, senza esagerarlo. Dobbiamo difendere i nostri veri diritti, perché se non rispettiamo i nostri diritti, non rispetteremo certo quelli degli altri. Allo stesso tempo però dobbiamo riconoscere che abbiamo, volontariamente o no, calpestato i diritti degli altri. E dobbiamo riconoscerlo non soltanto in seguito ad un esame di coscienza, ma anche quando ci viene imputato improvvisamente e forse senza troppe cerimonie da altri.
(Semi di contemplazione, 92-94)