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    Timore

    e amore di Dio

    Ricordando padre David Maria Turoldo

    Gianfranco Ravasi 

    Sono passati vent'anni da quell'alba nebbiosa e fredda del 6 febbraio 1992, allorché mi raggiunse una telefonata dalla clinica "Pio X" dei Camilliani di Milano con la quale mi annunciavano la morte di padre David Maria Turoldo, religioso dei Servi di Maria, poeta, grande e incisivo testimone della fede in un lungo arco di anni. Egli era nato in Friuli nel 1916 e aveva vissuto quasi tutto il Novecento spirituale, culturale, politico e sociale coi suoi terribili tormenti e tragedie (basti solo pensare alle due guerre mondiali), ma anche coi suoi momenti gloriosi ed esaltanti (per tutti, citiamo il Concilio Ecumenico Vaticano Il di cui quest'anno ricorre il cinquantesimo dell'apertura solenne col beato Giovanni XXIII).
    Il legame di amicizia profonda che mi unì a lui negli ultimi anni della sua vita (dal 1984 alla morte), fino al punto di firmare insieme alcuni libri, mi permetterebbe una testimonianza molto personale che pure in qualche occasione ho voluto offrire, senza però superare la soglia delle confidenze spirituali. Per il ventennio della sua scomparsa, sono stato invitato a proporre su vari quotidiani e riviste un suo profilo da angolature differenti. Persino una rivista svedese ha ospitato la ripresa di una mia memoria, con la traduzione di una celebre poesia dedicata al "fratello ateo"(versione ad opera di un suo ideale discepolo di Stoccolma).
    Ecco il testo di quei versi che io ho quasi simbolicamente adottato come emblema del Cortile dei Gentili, ossia di quel programma di incontri tra credenti e atei o agnostici seri e "nobilmente pensosi", come diceva padre David. Fratello ateo, nobilmente pensoso, / alla ricerca di un Dio / che io non so darti, / attraversiamo insieme il deserto. / Di deserto in deserto andiamo oltre/ la foresta delle fedi, / liberi e nudi verso / il Nudo Essere / e là / dove la parola muore / abbia fine il nostro cammino.
    Ora, invece, in occasione del ventennale della morte di padre Turoldo, vorrei offrire qualcosa di diverso, partendo proprio da una virtù molto significativa e spesso fraintesa, cara alla Bibbia, che la usa come sinonimo della fede, e cara anche alla fibra spirituale veemente di padre Turoldo, cioè il timore («principio di sapienza è il timore di Dio», si legge in apertura al libro biblico dei Proverbi 1,7).
    Come la collera rabbiosa non è la stessa cosa dello sdegno, così il timore non può essere ricondotto nell'alveo molle della paura, anche se spesso i due vocaboli vengono usati come sinonimi. Non è, perciò, contraddittorio che nella Bibbia si definisca Dio nora' o mora', cioè "il terribile, colui che incute terrore", ma che lo si rappresenti anche come "amore", né che i fedeli siano chiamati "coloro che temono il Signore". Tentiamo, perciò, di illuminare il volto di padre David Maria Turoldo proprio come uomo del timore di Dio, testimone di questo ultimo dono dello Spirito Santo, ignorato o emarginato nei nostri giorni un po' fatui e superficiali. È curioso notare che nei doni dello Spirito effusi sul re-Messia, l'Emmanuele, nel capitolo 11 del profeta Isaia, per due volte si ribadisca: «Su di lui si poserà lo Spirito... di timore del Signore; si compiacerà del timore del Signore». Nel linguaggio biblico il timore non è antitetico all'amore, anzi lo coinvolge: si tratta di una forma linguistica ben nota nell'antico Vicino Oriente per la quale, se io evoco un estremo, posso implicitamente comprendere anche il suo antipodo in una specie di "parte per il tutto".
    Non per nulla molto spesso nell'Antico Testamento al temere il Signore si associa l'amore per la sua parola e i suoi comandamenti. Diceva un mistico della Chiesa di Oriente, Massimo il Confessore (580 ca. - 662): »Esiste un timore di Dio che è compagno inseparabile dell'amore e conserva nel cuore rispetto e affetto». Il timore per Dio è, perciò, prima di tutto rispetto, riconoscimento della sua grandezza, certezza della sua giustizia. Ebbene, padre David è stato un cantore del Dio che non ammette compromessi, che è totalmente "Altro" rispetto alle nostre falseimmagini di comodo. Non a caso il profilo che più spesso si è ritagliato sulla figura di questo frate Servo di Maria è stato quello del profeta.
    E il profeta è per eccellenza la voce che grida nel deserto della storia le inesorabili esigenze del Dio giusto contro le quali non si possono accampare scusanti né adottare elusioni o evasioni. »Che sarà per voi il giorno del Signore? – gridava Amos, il profeta contadino amato da padre Turoldo –. Sarà tenebre e non luce. Come quando uno fugge davanti al leone e s'imbatte in un orso; entra in casa, appoggia la mano sul muro e un serpente lo morde» (5,1819). Quante volte, a partire dagli stessi anni oscuri del regime fascista, passando attraverso la tormentata stagione della rinascita nazionale fino ai giorni del benessere egoista, l'indimenticabile voce di padre David ha squarciato l'aria inquietando le coscienze, provocando i benpensanti, sfiorando il paradosso, lacerando i luoghi comuni per richiamare il monito profetico: »Temete il Signore!». O anche quello dell'apostolo Paolo secondo cui con Dio non si scherza, la sua giustizia non può essere impunemente irrisa: «Non fatevi illusioni: Dio non si lascia ingannare!» (Galati 6,7).
    È facile per tutti coloro che hanno conosciuto Turoldo predicatore e forse conservano ancora l'eco della sua parola nella loro anima, un po' come la conchiglia conserva l'eco del mare anche quando è posata su uno scrittoio, vederlo come pervaso da questo dono dello Spirito. Un dono che gli veniva dal suo diuturno e instancabile ascolto e studio della Parola di Dio. A più riprese, infatti, si definiva "servo e ministro della Parola": »Sono un pugno di terra viva, ogni parola mi traversa come una spada». Tutta la sua poesia, tutti i suoi scritti, tutta la sua predicazione sono un intarsio di citazioni o di allusioni bibliche, in particolare di quei testi sacri che più rivelano il Dio esigente, che conosce la misericordia ma non ignora la giustizia: »Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira e ricco di grazia e di fedeltà, che conserva il suo favore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione, che castiga la colpa... fino alla terza e alla quarta generazione» (Esodo 34,6-7).
    C'è, però, un altro aspetto ancor più alto del timore di Dio esaltato da padre Turoldo soprattutto negli anni del tramonto, quando ormai il "mostro" del cancro si era insediato nel suo ventre ed egli sentiva sempre più la necessità di testimoniare Dio in tutta la sua verità. Emblematici, al riguardo, sono i Canti ultimi (Garzanti), forse il capolavoro poetico di padre David, lancinante meditazione sul Dio misterioso e persino "scandaloso". In realtà, la lacerazione del credere aveva striato già tante altre pagine dei suoi scritti. Vorrei citare solo qualche brandello di versi così come mi vengono in mente: »Notte fonda, notte oscura ci fascia – nera sindone –se tu non accendi il tuo lume, o Signore!... E Tu, Tu, o Assente, o mia lontanissima sponda... Mio Dio assente lontano... Ma Lui, Lui sempre lontano, invisibile... La tua assenza ci desola... Ma tu, Signore, sei bianca statua di marmo nella notte... All'incontro cercato nessuno giunge...».
    Ecco, il timore di Dio è riconoscere, come diceva Isaia, che «i suoi pensieri non sono i nostri pensieri, le nostre vie non sono le sue vie» (55,8). Egli è sempre Oltre e Altro rispetto a quelle che Lutero giustamente chiamava le simiae Dei, cioè le "scimmiottature di Dio", gli idoli opera delle nostre mani. Per questo Turoldo ha amato immensamente Giobbe al punto da dedicargli un libro intero, Job, da una casa di fango (Morcelliana): il grande sofferente è colui che «teme Dio per nulla» (1,9), cioè senza avere nulla in cambio, anzi, ricevendo amarezze infinite; eppure non si stanca di cercarlo, persino di sfidarlo e stanarlo per comprendere alla fine che il Signore ha un "progetto" superiore che travalica lo spazio ristretto della nostra scatola cranica. È così che egli si abbandona a lui nella contemplazione: «lo ti conoscevo per sentito dire, ora i miei occhi ti vedono» (42,5). Ma per raggiungere questa meta, quanto soffrire e lottare nella notte, come Giacobbe lungo il fiume Jabbok (si legga Genesi 32,25-33)!
    Testimonianza di questo timore-venerazione del mistero di Dio sono soprattutto, come si diceva, gli ultimi scritti e gli ultimi atti di padre David. In quel lungo inverno il suo canto si era fatto più puro ed essenziale. Aveva scritto un suo amico e grande poeta, Mario Luzi, esaltando il «progressivo ritrarsi dell'eloquenza di Turoldo addosso al nocciolo delle cose»: «La cosa estrema era ormai per lui la conoscenza di Dio e il suo impenetrabile silenzio». Diceva in quei giorni in cui la paura umana era vinta solo attraverso il "timore" della grandezza divina che non è mai fonte di sopraffazione: «Nel fittissimo buio sento il suo sguardo sul cuore, come di falco appollaiato sul nido...». Un Dio che non ti lascia mai, anche se ti sembra che egli sia un falco pronto a ghermirti (Giobbe parlerà di un Dio "leopardo che affila gli occhi" sull'uomo).
    L'icona più alta dei momenti sui quali incombe il mistero terribile e sacro di Dio e del suo silenzio, e il timore diventa espressione di una fede pura, è quella del venerdì santo col Cristo in croce: »No, credere a Pasqua non è / giusta fede: / troppo bello sei a Pasqua! / Fede vera / è al venerdì santo / quando Tu non c'eri / lassù! / Quando non una eco / risponde al suo alto grido / e a stento il Nulla / dà forma / alla tua assenza». Il timore di Dio nella forma più pura è «affidare alle sue mani lo spirito», come fa Gesù sulla croce, proprio nel momento in cui Dio non risponde all'"alto grido" del Figlio. È questa la venerazione più alta del suo mistero, è la frontiera ultima della fede e, per usare un'immagine di padre David, è l'estremo "fiordo della speranza". Questa venerazione è paradossalmente sorgente di pace, è un timore che cancella la paura. Diceva un grande vescovoe predicatore del Seicento francese, Fénelon: «Coloro che temono Dio non hanno nulla da temere dagli uomini».
    A questo punto il timore di Dio, giunto alla sua soglia estrema, sconfina nell'amore più limpido, non sostenuto da nessuna ragione o interesse. Si attua, così, quell'intreccio tra timore e fedeltà, tra rispetto e intimità a cui sopra avevamo accennato. Come tutti i poeti, Turoldo è stato un cantore dell'amore divino. Quel silenzio terribile di Dio, che generava non solo il timore santo ma anche la paura, si squarcia; il "Dio amato e crudele" della prova di Abramo col sacrificio del figlio Isacco si rivela ora nel bacio del Cantico dei cantici. In quel momento il dono del timore conduce alla speranza e alla gioia: «Insieme, insieme – dice padre David in un suo verso – mio Dio, saremo felici!».
    E tutta la sua vita, in modo particolare nell'ultima fase, quella della malattia e della morte, diventa non solo la testimonianza di una grande lotta col Dio del timore ma anche il naturale approdo al porto del Dio dell'incontro d'amore. Emblematiche di questo nesso inscindibile tra timore e amore sono le ultime due opere postume. Da un lato, ecco Mie notti con Qohelet (Garzanti), dedicate al cardinale Carlo M. Martini, che uniscono la tenebra di quel sapiente biblico, Qohelet, che ripete il monito di «temere Dio osservando i suoi comandamenti, perché per l'uomo è tutto» (12,13), alla solarità del Cantico dei cantici, ove trionfa l'amore, un testo biblico a cui Turoldo ha dedicato in quelle pagine un intenso e appassionato poemetto. D'altro lato, ecco, invece, Il dramma è Dio (Rizzoli) che padre David ha voluto dedicare a me come ultimo saluto a un amico. Il titolo è stato scelto dall'editore e ben esprime il timore con cui dobbiamo accostarci al mistero di Dio. Ma Turoldo aveva scelto un altro titolo, Il dramma è di Dio, ed era la rappresentazione della passione, della sofferenza paterna e materna, dell'amore con cui il Signore ci cerca, ci attende e ci abbraccia.


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