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    Tempo e preghiera

    Armido Rizzi


    Il disagio del tempo

    Per intendere in che senso vogliamo qui parlare dei rapporti tra tempo e preghiera, dobbiamo anzitutto mettere a fuoco la nostra esperienza del tempo nelle sue possibilità fondamentali. Queste sono ultimamente riconducibili a due figure, che chiamerò del tempo vuoto e del tempo pieno.
    Pieno è il tempo in cui ho delle cose "da fare", vuoto è quello in cui, viceversa, "non ho nulla da fare". Non bisogna immediatamente trasformare questa descrizione elementare in un giudizio di valore; non aver nulla da fare può essere desiderabile quando uno sa come occupare questo tempo (che da vuoto diventa allora libero); e può essere invece angosciante quando uno non sa cosa farci e viene preso dal senso del vuoto. [1] E così pure il tempo pieno può significare ordine delle proprie azioni oppure ingorgo, disciplina di vita oppure febbrilità e stress.
    Ciò che vale dell'esperienza individuale può essere detto anche a proposito dell'esperienza collettiva, di quella che costituisce il "sentimento del tempo" di una determinata epoca o cultura. In questa prospettiva si può dire che con l'avvento della società moderna è spuntato un nuovo sentimento del tempo, che, inizialmente riservato ad alcune classi sociali, è diventato in pochi secoli il tempo egemone: sia perché comanda l'assetto complessivo della nostra convivenza sia perché è penetrato nelle pieghe stesse della nostra soggettività.
    Per capire la novità di questo nostro modo generalizzato di sentire e concepire il tempo bisogna metterlo a confronto con il precedente, che segnava con altrettanta intensità la vita collettiva e l'esistenza individuale. La differenza tra i due tempi è, trasferita su scala generale, la stessa già indicata tra tempo pieno e tempo vuoto. L'uomo della società premoderna vive in un tempo pieno perché sul quadrante del tempo naturale viene indicato per ogni parte di tempo (per ogni ora del giorno, ogni giorno della settimana o del mese, ogni stagione dell'anno) ciò che si deve intraprendere o evitare. C'è un tempo per lavorare e uno per riposare, uno per seminare e uno per raccogliere, c'è il tempo per partire e quello per sposarsi, per chiedere la pioggia e per sollecitare il bel tempo. [2] Il "tempo per" significa insieme i doni che esso porta e i compiti che affida, gli uni legati agli altri perché i compiti consistono nel mettere a frutto i doni. Si potrebbe definire l'inizio e lo svolgersi della società moderna come l'avvento del tempo vuoto. Qualcuno l'ha chiamato "tempo del mercante", interpretandolo secondo il motto di Franklin: "Il tempo è denaro". Altri l'hanno caratterizzato come il tempo misurabile, scomponibile in parti sempre più piccole per poter essere sempre più integralmente dominato dall'intervento umano. Le due concezioni non sono né identiche né incompatibili; a me sembra che la seconda sia il presupposto logico della prima (anche se la prima l'ha preceduta cronologicamente) e possa dunque sopravvivere anche aldilà di essa. Così, una società del mercato-denaro ha certamente bisogno di misurare e sfruttare il tempo nella forma più intensiva; ma lo stesso va detto di una società comandata dalla produzione collettivistica. Il tempo-guadagno è soltanto uno dei possibili investimenti del tempo-produzione; il quale, a sua volta, non va inteso esclusivamente a partire dalla produzione industriale ma nella più generale accezione del fare: individuale o collettivo, materiale o intellettuale e, perché no?, ludico. Il centometrista o lo stakanovista dello studio vivono individualmente il tempo nella stessa modalità esistenziale della società industriale avanzata: come materiale di cui fare qualcosa. Il tempo vuoto equivale al tempo informe, che attende l'intervento umano per acquistare una forma; è il tempo che non apporta doni e non assegna compiti ma si offre come realtà malleabile, come materia plastica, da cui l'inventiva e la prassi umana sapranno trarre ogni tipo di beni.
    Il tempo vuoto sembra dunque esprimere la vittoria della libertà sulla necessità: è il soggetto che domina le cose, che padroneggia gli eventi, fino a piegare al proprio dominio anche quel quadro generale di cose ed eventi che è appunto il tempo.
    Ma, per una specie di boomerang, il rapporto di dominio sembra rovesciarsi e affermare la vittoria del tempo sull'uomo e la schiavitù del soggetto nei confronti del tempo. E questo, in due figure (già accennate), che la società del tempo vuoto ha notevolmente intensificato: l'horror vacui e lo stress. Chi è abituato a scandire il proprio tempo sui ritmi veloci della produzione (di qualunque genere) non riesce a sopportare un periodo dove non ci sia nulla da fare, e può essere addirittura portato alla disperazione. [3] Più frequente è però il caso contrario: chi è costretto - o si costringe - a ritmi che la sua corporalità vissuta (organismo e psiche) non riesca a portare può essere colpito da disturbi psicofisici o, comunque, avvertire un disagio interiore ai limiti dell'insopportabile. Quanto meno, ne soffriranno le sue relazioni sostanziali, come i rapporti familiari e le amicizie, per le quali egli non riuscirà più a "trovare tempo". La mancata disciplina ha trasformato il tempo vuoto - e le sue possibilità di tempo libero - in tempo troppo pieno.
    Questa problematica, del "disagio del tempo", ha una faccia pubblica, che attiene a una politica dei tempi sociali; [4] ma ha pure un risvolto strettamente individuale, di autodisciplina, di armonizzazione della gestione del tempo con i ritmi della propria verità umana. È su questo punto preciso che si innesta la riflessione su tempo e preghiera. Essa non intende indicare in quali tempi (o quanto tempo) si debba o si possa pregare; perché sappiamo bene che sarebbe, questa, una ricerca superflua (ogni istante può diventare tempo di preghiera). Intende invece riscoprire attraverso la preghiera - un certo tipo di preghiera - l'armonia tra il tempo e l'esistenza umana, far riaffiorare quell'ordine che il tempo possiede e che l'esasperazione del tempo produttivistico ha rimosso ma non cancellato, quella forma che rende il tempo abitabile come una casa e ricco di doni e di compiti come una mano aperta. La preghiera dei tempi, potremmo dire, riattivata come ecologia esistenziale.
    Consideriamo tre tempi, a partire da quell'unità minima che è la giornata, attraverso la misura intermedia della settimana scandita dalla domenica, fino alla grande unità dell'anno, che la comunità cristiana celebra nella forma di anno liturgico.

    La giornata [5]

    La tradizione cristiana, dalla pratica monastica alla Vita comune di Bonhoeffer, ha attribuito grande importanza alla scansione quotidiana del tempo (basti pensare alla "liturgia delle ore"). In questo fenomeno giocava indubbiamente anche l'appartenenza quasi totale della vita umana ai ritmi e cicli della natura dentro la società contadina; ma non era tutto qui. C'era la percezione che quei ritmi, aldilà della loro funzione biologica ed economica, hanno una connaturata valenza simbolica, parlano da se stessi all'uomo in cerca del senso del suo esistere, e quindi sono in qualche modo il luogo originario in cui la parola di Dio risuona.
    Il rito fondamentale della giornata, quello che addirittura la costituisce, è l'alternanza giorno-notte. Essa presenta due significati antropologici di base, su ognuno dei quali si innesta un corrispettivo significato spirituale.

    Veglia-sonno

    Giorno e notte sono anzitutto il tempo della veglia e il tempo del sonno.
    Che cos'è la veglia? È l'attivazione della coscienza, cioè del rapporto recettivo nei confronti del mondo. La coscienza è il luogo in cui il mondo invade l'uomo, lo sollecita, lo invita al colloquio con le cose. Ora, questo incontro tra l'uomo e il mondo ha bisogno del giorno, perché è mediato soprattutto, da parte dell'uomo, dalla vista, da parte delle cose, dalla luce. È davanti allo sguardo e avvolte nella luce che le cose emergono dall'indistinzione, dal caos, e prendono figura, si dispiegano in paesaggio, diventano mondo. Al buio non ci sono, per l'uomo, le cose; ci sono eventualmente fonti ignote di rumori, di odori, di resistenza al movimento. Come canta un inno liturgico recente, "le cose riemergon dal buio - com'era al principio del mondo". Ogni mattino è questo ritrovare il mondo, questo ritrovarsi cittadini di un mondo che, nel bene e nel male, nella gioia e nell'angoscia, è il nostro unico habitat. Fin qui si tratta di una semplice constatazione, aiutata da una elementare fenomenologia: svegliarsi non è, prima di tutto, scegliere; è trovarsi immersi in qualcosa che circonda la nostra vita prima di ogni nostra possibile scelta: è ritrovare la realtà come dato, come insieme organizzato con cui fare i conti e dentro cui muovere i passi, come esistente di cui interrogare il senso e dentro cui cercare il nostro senso.
    Ora, la parola di Dio ci dice che il mondo è creazione: quest'insieme di cose in cui bello e brutto si avvicendano, che ci offrono momenti di incanto e periodi di tristezza, sono parole pronunciate da una libertà amorosa, sono doni scaturiti da una mano provvida e generosa. Se la creazione è il mattino del mondo, ogni mattino è la nuova creazione: conferimento di un senso radicale che sottende tutte le cose e le vicende, aldilà del loro monotono consistere e del loro tumultuoso accadere. Il mattino è allora il tempo della sempre rinnovata scoperta del senso, il tempo in cui sullo sguardo che si ridesta al mondo si innestano gli "occhi della fede", perché la luce che avvolge la figura delle cose è avvolta dalla luce di benevolenza che scende dal volto di Dio. Svegliarsi è sempre salutare il mondo; ma svegliarsi da credenti vuol dire salutare, dietro il mondo dei fenomeni - cose e avvenimenti -, l'essere di dono che li genera e li regge.
    Allora, il mattino è il tempo della lode, dell'azione di grazie. Quella dimensione di accoglienza del mondo come dono, che costituisce l'atteggiamento di base dell'esistenza credente, trova nella sveglia e nelle prime azioni mattutine il momeno privilegiato della sua attualizzazione ed esplicitazione. Questo non è sempre facile: il risveglio può essere duro: perché il riposo è stato insufficiente o perché la giornata si presenta carica di occupazioni e preoccupazioni; o, più generalmente, perché "è un giorno come un altro", immerso nella nebbia della monotonia e dell'insipidezza di possibilità povere di senso. Ma la fede nella creazione, e la lode che ne scaturisce, non sono formule di ottimismo ideologico o di effervescenza psicologica. Sono una sintonizzazione sul senso profondo della realtà; e si sa che nessuno strumento mantiene per sempre la sintonia, ed è necessario di tanto in tanto "accordarlo". Il primo mattino è allora il tempo in cui il cuore credente si accorda sul cuore nascosto del mondo: «Voglio cantare, a te voglio inneggiare: Svegliati mio cuore, svegliati arpa, cetra - voglio svegliare l'aurora» (Sal 57,9). [6]
    E la notte? La notte significa, come sfondo da cui le cose emergono, sia il nulla iniziale che, e più ancora, la potenza del male che ha rovinato la creazione e che viene vinta nella ricreazione, che ha dissolto il dono e che viene debellata nel perdono. Questo rapporto notte-male è presente sia nella bibbia che nella tradizione spirituale: la notte è tempo di paura, di tentazione: il sonno toglie all'uomo l'autopadronanza, lo mette in balia di poteri estranei. Scrive Bonhoeffer:

    In tutte le antiche preghiere serali notiamo la ripetuta richiesta di essere preservati, durante la notte, dalle insidie del diavolo, dal terrore, da improvvisa e brutta morte. I nostri padri sentivano ancora l'importanza dell'uomo durante il sonno, sapevano della parentela tra sonno e morte, della astuzia del diavolo, che fa cadere l'uomo quando è indifeso. Perciò invocavano l'aiuto degli angeli e delle loro armi auree, e la presenza degli eserciti celesti, lì dove Satana vuole sopraffarci. [7]

    Lavoro-riposo

    Il primo incontro col mondo è, per l'uomo, di tipo recettivo: l'uomo non ha la possibilità di produrre le cose dal nulla ma le trova già fatte e schierate attorno a sé. Tuttavia questa iniziale passività non è destinata a chiudersi su se stessa, in una forma di inerte godimento; essa costituisce la base per l'attività, per l'intervento dell'uomo sul mondo. Svegliarsi non è solo trovare le cose; è trovare il lavoro che ci attende a riguardo delle cose. Perché, se esse sono già fatte, sono non ancora finite; il mondo rivela come l'attesa di qualcuno che lo aiuti a crescere, a diventare interamente se stesso. E evidente che il lavoro "dà senso" alle cose; che la trasformazione del mondo imprime in esso quel segno dell'umano che è la ricerca del senso. Ma quale senso? Quello di un immediato soddisfacimento dei propri bisogni? O il grande programma di dominio dell'uomo sulla natura? Un'attività che collabori con la forza vitale presente nel cosmo, che ne prolunghi la finalità, o un intervento senz'altro criterio e limite che la volontà di potenza del soggetto umano? Per rispondere a queste domande bisogna passare, ancora una volta, dal livello puramente antropologico a quello teologico e spirituale. Alla luce della parola di Dio, il lavoro umano non è pura e arbitraria iniziativa ma "responsabilità", cioè corrispondenza a un incarico di fiducia, esecuzione di un compito. L'uomo non fonda il senso delle cose ma le interpreta per cogliere quel senso radicale che esse portano in sé come possibilità e che attende di essere portato alla luce, messo in opera, realizzato. La libertà umana è obbedienza creatrice.
    Ma l'intenzionalità portante cui essa deve obbedire è il dono, il senso radicale del mondo che essa deve cogliere e sviluppare è quella gratuità con cui il mondo è stato fatto e in forza della quale soltanto può sussistere e riuscire. La libertà umana è così chiamata ad essere l'operosa concretezza della logica del dono.
    Ed ecco la seconda dimensione simbolico-reale del mattino: all'inizio della giornata di lavoro, attualizzare quella logica di responsabilità che fa del lavoro stesso un compito di fronte a Dio, e quella logica di dono che ne fa un servizio agli uomini. Anche qui, non si tratta di cullarsi in infantili illusioni che pensano di poter trasformare interamente il mondo in gioco o di poterlo sublimare integralmente in una specie di celebrazione cosmica. Il lavoro, come tutto l'umano, è sotto il duplice segno della grazia e del peccato, della creazione e della caduta, della gioiosa produttività e della pesante alienazione. La spiritualità del mattino è disporsi al lavoro come dono attivo, dopo aver lodato Dio per il dono ricevuto; è chiedere forza per portarne l'alienazione e luce per disalienarlo, energia per la fatica e luce per la creatività: che l'una non accasci e l'altra non esalti, ma ambedue siano comandate dall'obbedienza al progetto creatore e dall'amore ai fratelli.
    E quale sarà allora la spiritualità della sera e della notte?
    Al lavoro succede il riposo: è, questa, una legge fisiologica e psicologica fondamentale. Ma dietro di essa si profila (e su di essa si innesta) un significato spirituale di prima importanza: noi non siamo padroni del nostro lavoro, non siamo gli architetti nella costruzione del mondo; noi operiamo dentro un progetto che non ci appartiene, al servizio di un disegno di cui non possediamo i termini estremi. Responsabile non è sinonimo di signore ma di servo: vuol dire essere chiamati a rispondere di ciò che si fa, renderne conto a un altro. Il nostro lavoro è un compito che ci viene assegnato: la dimensione progettuale, che pure gli è necessaria, non è la prima né l'ultima; essa è retta da una dimensione di ascolto e di accoglienza, di esecuzione e di corrispondenza. Chi progetta, si ritaglia la misura del proprio lavoro; chi esegue un compito, se la vede ritagliata da chi glielo affida: la misura del lavoro del credente è la volontà del suo Signore.
    Ora, l'alternanza quotidiana lavoro-riposo è come la trascrizione di questa legge spirituale nei ritmi biologici. Se fossimo padroni dei nostri progetti, riposeremmo soltanto dopo averli condotti a termine. Ma la necessità di interromperli, di spezzarli ogni sera secondo una modalità che non è loro intrinseca ma che dipende da una necessità naturale, è il segno della creaturalità dell'uomo; la sua dipendenza da questa elementare necessità è il simbolo vivo della sua dipendenza da un progetto superiore.
    Perciò, da una parte il riposo vuol dire rinuncia a quella volontà di onnipotenza con cui il soggetto umano vorrebbe dominare integralmente il mondo e gestire senza residui la propria vita; dall'altra vuol dire la liberazione da quell'affanno che è l'altra faccia della volontà di potenza (come la paura è l'altra faccia della presunzione). La spiritualità della sera si esprime nel gesto della "riconsegna": ecco, Signore, ho svolto il compito che oggi mi hai affidato.
    La giornata acquista così una sua compiutezza, una sua unità più profonda di quella che può essere l'unità del progetto: di qui il nome di "compieta" per la preghiera della sera. La soluzione di continuità tra lavoro e riposo viene saldata dalla più radicale continuità dell'accettazione dell'uno e dell'altro dalla mano di Dio, di colui che è signore del vegliare e del dormire, del lavorare e del riposare. Anche il riposo diventa un atto responsabile: non declino delle proprie responsabilità ma abbandono del "troppo" che facilmente le accompagna: il protagonismo o l'ansia, la fretta o la paura. «A ogni giorno basta il suo affanno» (Mt 6); «Invano andate tardi a riposare: il Signore darà pane ai suoi amici nel sonno» (Sal 127). L'attività insonne di Dio culla il sonno dell'uomo; perché «non s'addormenta, non prende sonno il custode d'Israele» (Sal 121). Perciò «sono tranquillo e sereno, come bimbo svezzato in braccio a sua madre» (Sal 131); perciò ancora «in pace mí corico e subito mi addormento» (Sal 4).

    Il sabato ebraico e la domenica cristiana

    Il sabato

    A differenza della giornata, che è una figura naturale del tempo, la settimana ne è una divisione convenzionale, non comune a tutte le culture. [8] Nel cristianesimo (e nella tradizione occidentale, che anche su questo punto ne dipende) la scansione settenaria è comandata dalla domenica, che però a sua volta è legata al sabato ebraico. Dobbiamo allora partire dal significato di quest'ultimo per introdurci a quello della domenica cristiana.
    Il sabato nasce come istituzione con funzione sociale, allo scopo di concedere un giorno di riposo ai viventi impegnati nel lavoro. [9] Ma su questo significato sociale se ne innesta uno più strettamente religioso: la celebrazione del riposo di Dio dopo i sei giorni di lavoro della creazione.[10] L'elemento comune ai due livelli di funzione è dunque il riposo, che nel primo caso significa possibilità di sospendere la fatica fisica per ritemprare le forze, nel secondo assurge a memoriale e imitazione del gesto divino. Una bella metafora, che descrive il sabato come "la decima del tempo" [11], collega le due dimensioni: il sabato è, come la decima offerta dei prodotti della terra, una parte di tempo donata al povero (funzione sociale) e a Dio (funzione religiosa).
    Ma che significa donare a Dio una parte del tempo? Indubbiamente, significa anzitutto dedicarla alla preghiera, alla celebrazione della sua gloria e delle gesta del suo amore. Ma a questa finalità Israele dedica altre e più specifiche festività: la pasqua, la festa delle settimane, la festa delle tende...) [12]. Il sabato non è soltanto un tempo di celebrazione: è la celebrazione del tempo. Qui è il suo significato più proprio. Il sabato è quella parte di tempo che dice che tutto il tempo appartiene a Dio; è quindi la consacrazione del tempo come tale, il suo essere fondato nella creazione divina, che gli conferisce senso e fecondità. Ma, insieme, il sabato è la corona del tempo, la sua parte più nobile. Infatti, anche consacrato, il tempo quotidiano in quanto tempo della fati
    ca è come un incompiuto, che tende verso il riposo attivo, verso l'azione piena e gioiosa, liberata dalla fatica e interamente assorbita nella lode. Il sabato è questo tempo della gratuità, della creazione compiuta e contemplata, fruita e cantata. Perciò è il giorno a cui gli altri giorni, anzi tutte le creature, tendono come a loro fine:

    Simile a un re che aveva preparato il baldacchino nuziale e lo aveva adornato, e di che cosa mancava? Della sposa da introdurvi. Così di che cosa mancava il mondo? Del sabato. I nostri maestri dissero: È simile a un re che si è fatto un anello. Di che cosa mancava? Del sigillo. Così di che cosa mancava il mondo? Del sabato [13].

    Ecco, possiamo dire che nei confronti del tempo nel suo insieme il sabato è fondamento e fine: lo radica nella potenza creatrice in quanto tempo di lavoro, e lo fa fiorire nella bellezza in quanto tempo del riposo festoso. Secondo l'eloquente immagine di Heschel, il sabato è "un palazzo nel tempo" [14], gli dà forma e vocazione: mentre lo strappa alla minaccia del vuoto, del nonsenso, in quanto fondamento, lo riscatta dal sovrappeso della fatica in quanto fine e corona.

    La domenica

    La domenica cristiana si innesta sul sabato ebraico perché è la celebrazione della risurrezione di Gesù [15]. Quel "perché" dice una duplice connessione: storica e sostanziale.
    Sul piano storico, secondo le narrazioni evangeliche Gesù è risorto "il primo giorno dopo il sabato" (Mc 16,1, e paralleli), ed è perciò in questo giorno che la comunità cristiana, fin dai primissimi tempi, celebra con l'eucaristia quest'evento fondamentale della sua fede. A differenza del sabato ebraico, dove l'elemento fondamentale è il riposo, la domenica cristiana è centrata sul momento liturgico. Il riposo domenicale è anzi impossibile fino al sec. III, perché non coincide con il giorno di sospensione del lavoro nei territori sottoposti alla dominazione di Roma. Bisognerà aspettare Costantino perché il giorno della celebrazione possa diventare anche il giorno del riposo; finché, nel medio evo, l'una e l'altro diventeranno le due componenti del "precetto festivo": l'obbligo dell'assistenza alla messa e la proibizione dei lavori servili [16].
    Ma, aldilà di questa vicenda che segna l'intreccio storico tra il sabato e la domenica, c'è tra i due un più profondo nesso, che riguarda la stessa loro sostanza teologica, ciò che l'uno e l'altro celebrano e rappresentano: la creazione, rispettivamente, e la risurrezione di Cristo. Ora, tra questi due eventi il rapporto non può essere quello privilegiato da una certa linea patristica che vede nel sabato la "figura" della domenica e in questa la "realtà" prefigurata nel sabato [17]. Non avrebbe molto senso dire che la creazione prefigura la risurrezione di Gesù. Piuttosto, la risurrezione - secondo la lettura teologica principale del nuovo testamento - ricostruisce la creazione compromessa dal peccato: nel Signore risorto vengono ridonati all'uomo la sua umanità e il suo mondo perché possa riprendere a lavorarli e a fruirli. La risurrezione è la creazione non soppiantata ma ritrovata [18].
    Dall'altra parte, a differenza della creazione, la risurrezione di Gesù è un avvenimento che, per quanto in maniera paradossale, si inscrive dentro la storia umana; è l'atto fondante del tempo redento, ma è un momento di questo stesso tempo. In tal senso, essa si collega all'atto fondante storico di Israele, l'esodo, celebrato nella pasqua ebraica. Perciò nella teologia della domenica vengono ripresi e fatti convergere i temi legati alla creazione e al sabato (consacrazione del tempo, festa, riposo, bellezza) e quelli connessi alla salvezza e alla pasqua (redenzione, liberazione).
    Il significato della domenica viene così ad articolarsi lungo l'asse delle tre dimensioni temporali: il passato, il presente, il futuro.
    Il passato: nell'eucaristia (che è essenzialmente culto domenicale) si raccoglie e si celebra la memoria della morte e risurrezione di Gesù. Non c'è dubbio che la morte di Gesù appartenga alla storia umana: in quanto fatto realmente accaduto dentro lo spazio e il tempo, e in quanto episodio registrato e consegnato agli annali della storiografia. Più difficile è determinare lo statuto della risurrezione; ma una cosa è certa: c'è un punctum temporis (non possiamo che pensarlo così) in cui Gesù "passa" dall'esistenza del nostro mondo alla vita nella sfera di Dio, e in cui Dio, accogliendo lui accanto a sé, in lui riconcilia a sé l'umanità. Questo fatto carico di un significato unico - questo evento per eccellenza - è ciò che ogni domenica affida alla nostra celebrazione.
    Parlare di evento equivale a dire che morte e risurrezione di Gesù non sono (soltanto) un grande dramma pedagogico, in cui ci viene comunicato che Dio è amore, non apportano (soltanto) una mutazione nella nostra concezione di Dio, ma costituiscono un cambiamento reale del nostro rapporto con Dio, la ricostituzione dell'alleanza. Celebrare quest'evento è celebrare la pasqua del Signore e, in lui, la pasqua (il passaggio) definitivo dell'umanità nell'abbraccio della divina riconciliazione. Perciò la domenica è la "pasqua settimanale".
    Il presente. Dire Signore è connotare la presenza del Risorto nel cuore del mondo. Il suo "passaggio" al Padre non è stato un sottrarsi alla storia ma un liberarsi dal vincolo della puntualità spazio-temporale (la Palestina - duemila anni fa) per farsi presente a tutti e contemporaneo di tutti, per riempire di presenza cristologica ogni tempo e ogni spazio. Se è vero che Cristo è presente nell'atto liturgico, è ancor più vero che l'atto liturgico esprime la presenza di Cristo al mondo come suo Signore.
    Il futuro. La tradizione patristica ha sviluppato il raccordo tra domenica e creazione attraverso la simbologia dell'ottavo giorno.

    Il settimo giorno sarà il nostro sabato, la cui fine non sarà più una sera ma una domenica come ottavo giorno, che è consacrato dalla risurrezione di Cristo; che prefigura il riposo non solo dello spirito ma anche del corpo. Là noi saremo liberi e vedremo; vedremo e ameremo; ameremo e loderemo. Ecco cosa ci sarà alla fine senza fine (s. Agostino) [19].


    Mentre il settimo giorno, il sabato del riposo di Dio, chiude e sigilla la prima creazione, l'ottavo giorno è la creazione giunta non soltanto al suo compimento ma quell'excessus dove la luce della Genesi (fiat lux) viene avvolta nella gloria del Risorto. L'ottavo giorno è, insieme, la perfetta redenzione del tempo nella cancellazione di ogni sofferenza e la trasfigurazione del tempo nella cancellazione della morte e nella compresenza di tutta la storia umana. Rappresentare questa speranza costituisce il massimo della potenza simbolica della domenica.

    L'anno liturgico

    Cenni storici

    L'anno liturgico è una creazione della coscienza cristiana dei primi secoli. Inizialmente l'anno cristiano è costituito soltanto dalla successione delle domeniche, senza altri rilievi né differenziazioni che quella tra il giorno del Signore e i giorni "feriali". A partire dal II secolo una delle domeniche, in corrispondenza con la celebrazione ebraica della pasqua, viene consacrata in maniera più specifica al ricordo glorioso della risurrezione di Gesù. Il nucleo originario di questa celebrazione con il prolungamento del tempo pasquale fino alla pentecoste (secondo la periodizzazione fissata da Luca alla fine del suo vangelo e all'inizio degli Atti degli apostoli), all'indietro, con il triduo pasquale che ripercorre la strada della passione del Signore, e con la quaresima, in cui la comunità accompagna i catecumeni nella preparazione al battesimo (che viene conferito proprio la notte di pasqua).
    Accanto a questo "ciclo pasquale", che resterà il segmento centrale dell'anno cristiano, si viene configurando, nel IV secolo, un secondo ciclo, che trova due fuochi diversi: l'epifania nella chiesa orientale e il natale in quella occidentale (più prettamente teologico il primo: la manifestazione di Gesù ai pagani; di taglio più apologetico il secondo: la conversione della festa romana del sol invictus). Anche il ciclo natalizio si allarga all'indietro, con la preparazione dell'avvento, che ricupera alla liturgia cristiana l'antico testamento come tempo di promessa e di attesa. Il periodo dopo pentecoste viene vissuto come raffigurazione del cammino della chiesa lungo il tempo della storia, sino alla conflagrazione finale (e, da qualche anno, al compimento nel regno: la festa di Cristo re).

    Interpretazione teologica

    L'anno liturgico è dunque la storia di salvezza narrata e celebrata dentro l'anno naturale.
    L'anno è l'unità massima del tempo naturale, come il giorno ne è l'unità minima; ma il senso teologico dell'anno liturgico non è la ripetizione su scala maggiore del senso teologico del giorno. Infatti, mentre la preghiera della giornata esplicita quel messaggio spirituale che la scansione del quotidiano (notte-giorno) precontiene e suggerisce, l'anno liturgico inserisce nell'anno naturale un ordine di significato che questo non contiene né conosce, ed è il nuovo tempo: la storia di salvezza.
    È diventato ormai un luogo comune affermare che l'ebraismo e poi il cristianesimo hanno sostituito al tempo ciclico degli antichi, legato alla natura, il tempo lineare tracciato dalla storia. Ma che cosa significa questa differenza od opposizione?
    È certo che anche ebrei e cristiani continuano a vivere dentro le cadenze naturali: anche per essi le stagioni si avvicendano e ritornano secondo la ricorrenza annuale; dall'altra parte, anche per i popoli estranei alla tradizione biblica il ritorno sempre uguale dell'anno naturale non impedisce che un anno si aggiunga all'altro nello scorrere della vita individuale e delle generazioni, disegnando un tempo che ha inevitabilmente la figura di una linea. La differenza sta propriamente nel diverso modo in cui il tempo naturale si rapporta al sacro, cioè a quella realtà prima e ultima che dà senso all'esistenza umana. Potremmo dire: da una parte il circulus anni è esso stesso il contenuto del sacro, dall'altra ne è soltanto il contenitore.
    Proviamo a esaminare due espressioni semplici come "la primavera inizia il 21 marzo" e "quest'anno la primavera è in ritardo"; oppure "l'estate va da giugno a settembre" e "abbiamo finora una pessima estate". Se tra la prima e la seconda espressione di ogni coppia non c'è contraddizione, è soltanto perché nei due casi il nome della stagione viene assunto in accezioni diverse: da un lato in senso quantitativo, come pura misura temporale, come una scatola aprendo la quale ci si aspetta di trovare un regalo (anche se non si può escludere la brutta sorpresa); dall'altro in senso qualitativo, come il regalo stesso (la fioritura, la messe, il caldo...) oppure la sorpresa che lo sostituisce: in ogni caso, come il contenuto del periodo stagionale. Ora, per l'uomo delle religioni cosmiche il contenuto dell'anno naturale è anche il dono radicale di senso della propria vita: una primavera ritardata o un'estate capricciosa sono come un'eclissi dell'essere, una minaccia non soltanto alle condizioni di sopravvivenza ma anche all'identità, l'espressione del corruccio di un dio (o degli dei). Per noi si tratta invece soltanto di contenuti "deboli" del nostro esistere, in cui non leggiamo più la presenza o l'assenza del divino. E non mi riferisco tanto al "noi" dell'uomo secolarizzato, che non cerca più nel divino il significato dell'esistere ma se lo progetta e se lo forgia: mi riferisco al "noi" del cristiano, che crede nella presenza del Dio di Gesù Cristo aldilà delle (più o meno felici) alternanze stagionali (come, del resto, anche aldilà delle alterne vicende storiche). Il cristiano crede nella "storia di salvezza", che da Abramo e da Israele muove in direzione di Cristo e dell'umanità redenta, guidando tutti e tutto verso il grande Giorno di Dio. Il tempo, nella sua figura totale, viene così riempito dell'amore vittorioso di Dio e dell'amore militante degli uomini che, in ogni epoca e sotto ogni cielo, credono in lui e vivono della sua volontà.
    Ma la comunità dei discepoli di Gesù, che è parte di questa umanità credente e amante, ha anche il compito specifico di rappresentare (ancora una volta, di celebrare) quel tempo assoluto; e così, lo distende ogni anno nella narrazione del ciclo liturgico complessivo: ogni anno la comunità cristiana, facendosi espressione della condizione umana, ripercorre l'attesa del Messia, ne accoglie la venuta, ne contempla la passione e ne esalta la risurrezione; e dal Messia risorto riceve lo Spirito che l'accompagna verso la parusia.
    Si tratta indubbiamente di una grande invenzione dell'immaginazione simbolica. La chiesa avrebbe potuto ritmare diversamente il memoriale dei momenti forti della salvezza; avrebbe potuto, per esempio, dedicare un anno all'incarnazione, un altro al mistero pasquale, e così via. Dal punto di vista strettamente catechistico tale divisione sarebbe stata forse più efficace, permettendo tempi di più paziente assimilazione dell'insegnamento così impartito. Ma la celebrazione non vuol essere prima di tutto insegnamento; vuol essere ripetizione affettiva di quanto già è conosciuto, coinvolgimento delle potenze antropologiche extradiscorsive, i cui tempi di respirazione sono diversi da quelli dell'apprendimento. L'anno liturgico asseconda con stupenda tempestività il nostro bisogno di modellare il tempo storico secondo il tempo divino, di sapere con la scientia cordis che l'avventura della storia non è un erramento ma un cammino orientato.
    Non sono tanto le parziali analogie e sincronie tra contenuto naturale e contenuto salvifico (per esempio tra rinascita della vegetazione e risurrezione di Cristo) ad alimentare questa conoscenza sapienzale [20]; è la ripartizione come tale, che permette di rifigurare l'incontenibile grandezza del tempo unico - la oeconomia salutis - nella dimensione familiare del tempo cosmico-esistenziale. L'anno liturgico risolve quello che è forse il più spinoso problema della filosofia (e delle sue proiezioni nella prassi): come pensare il Tutto, come chiudere la Totalità dentro il perimetro del logos. Ma lo risolve dislocandolo: non nel logos il Tutto può dirsi ma nel kuklon, non nel pensiero ma nella figurazione dinamica del circolo; che, non avendo la pretesa di definire, può svolgere il compito di rispecchiare: come una corolla o come una danza. L'anno liturgico è il girotondo in cui i figli di Dio danzano la vita.

    Simbolo e realtà - simbolo come realtà

    Attenzione: danzare la vita non è pretendere che la vita sia danza; è dare figura a ciò che essa vorrebbe diventare, al suo voto più segreto e ancora inadempiuto.
    La sostanza della vita è fede e amore, e il suo luogo è la durezza e la fecondità del quotidiano, è la necessità da portare e la libertà da donare, sono le vicende che subiamo e i prossimi che incontriamo. Di tutto questo la preghiera liturgica è simbolo: nella lode del mattino e nell'invocazione della sera, nell'eucaristia della domenica e nelle modulazioni celebrative di ogni festa. La preghiera liturgica non è la vita ma il segno di ciò che fa vivere la vita: dell'amore trinitario che si è spogliato della sua gloria per abitare la nostra fatica di amare.
    Ma poiché l'uomo è animale semantico e simbolico, anche segni e simboli sono parte della sua realtà; se essi non possono produrre l'amore né sostituirlo, possono e devono esprimerlo per speculum et in aenigmate. E dentro quel gioco di specchi che è il nostro esistere (perché non altro vuol dire che l'uomo è animale semantico), non è piccola differenza rispecchiare altri specchi o riflettere la Realtà, essere testo autoreferenziale o commento al testo vivo dell'amore, essere attimo che continuamente brucia se stesso o involucro e breccia dell'eterno nel tempo. In questo senso parlavo della preghiera liturgica come di un'ecologia esistenziale: non salvezza dell'uomo, ma certamente sua traccia sulla pagina prensile dei corpi e delle menti.


    NOTE

    1 È significativa la reminiscenza leopardiana: la domenica "tristezza e noia - recheran l'ore" (Il sabato del villaggio).
    2 Questo vale ancora per l'Europa moderna del '600 e '700, dove i due tipi di tempo coesistono (vedi Y. Durand, L'Europa dal 1661 al 1789, in: G. Livet-R. Mousnier, Storia dell'Europa: Dallo Stato assoluto all'illuminismo, Laterza, Bari 1982, p. 143ss.
    3 È l'esperienza di più di un pensionato e di molti operai in cassa integrazione (a Torino è stato registrato, alcuni anni fa, un aumento rilevante dell'indice di suicidi tra i cassintegrati della FIAT).
    4 Ricordo due documenti: la proposta di legge delle donne del PCI dal titolo Le donne cambiano i tempi, e il testo di Justitia et Pax svizzera: Gestione e politica del tempo.
    5 Riprendo qui alcune paginette già pubblicate in altra sede.
    6 Per uno sviluppo di questo tema vedi: Il mattino, tempo di benedizione, nel numero di Servitium dedicato a: La vita come benedizione (nn. 35/36, 1984).
    7 La vita comune, Queriniana, Brescia 1969, p. 114s
    8 Alcune culture raggruppano i giorni in decadi, altre in gruppi di sei o di quindici, tenendo per lo più come elemento divisorio il giorno di riposo.
    9 Dt 5,14-15; Es 23,12.
    10 Es 20,11 (cf. Gen 2,2-3).
    11 R. De Vaux, Le istituzioni dell'Antico Testamento, Marietti, Torino 1977 (3a ed.), p.463.
    12 De Vaux, op. cit., capp. XV-XVIII; C. Di Sante, La preghiera di Israele, Marietti, Casale Monf. 1985, p. 160-169 e 191-225.
    13 Midrash citato in C. Di Sante, op. cit., p. 152.
    14 A. J. Heschel, Il sabato. Il suo significato per l'uomo moderno, Rusconi, Milano 1972 (soprattutto Prologo e Parte I).
    15 Kuriaké = dies dominica = giorno del Signore (che è Gesù in quanto risorto).
    16 Prendo le informazione dalla voce "Domenica" di L. Brandolini in Nuovo dizionario di liturgia (a cura di Sartore e A.M. Triacca), ed. Paoline, Roma 1984, p. 378-395 (qui 383s.).
    17 Mi riferisco al noto "senso tipologico" in base al quale i Padri leggevano l'antico testamento; per le mie riserve su questa lettura cfr. Esodo. Un paradigma teologico-politico, ed. Cultura della pace, S. Domenico di Fiesole (FI) 1990, p. 116-118.
    18 In un inno delle lodi della domenica s. Ambrogio canta:
    Primo die quo Trinitas
    Beata mundum condidit
    Vel quo resurgens Redemptor
    Nos morte victa liberat.
    (Nel primo giorno, in cui la beata Trinità ha creato il mondo, e in cui il Redentore con la sua risurrezione, vinta la morte, ci libera). Cit. in. J. Danielou, Bibbia e liturgia, Vita e Pensiero, Milano 1958, p. 335.

    19 Cit. in Nuovo dizionario di liturgia (vedi nota 16), p. 388.
    20 Tale sincronia, valida nel mondo mediterraneo, lo è meno o non lo è affatto in altri continenti.

    (Servitium 74/1991, pp. 34-51) 


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