Senza appropriarsi
di nulla
Carmine Di Sante
Qualificata come «santa» e come «altissima», enfatizzata con il riferimento alla «profondità» o «altezza» (celsitudo) e chiamata «ora sposa, ora sorella, ora madre, ora signora, ora regina» (Fonti francescane, 2073), la povertà si riveste di una pluralità di significati a seconda dei testi e dei contesti. Francesco, però, ricorre a questo termine per dire soprattutto come i frati devono comportarsi imitando Gesù: «senza appropriarsi di nulla».
Povertà, per Francesco, è l’impossibilità dell’appropriazione, l’impossibilità, per l’io, di dire «mio» su ciò che esiste.
C’è un episodio divertente ma illuminante, riportato nella Compilazione di Assisi (o Leggenda perugina), che mostra l’avversione di Francesco alla «miità», a dire «mio» e a tollerare che qualcuno dicesse «mio». Un giorno chiese a un suo compagno: «Donde vieni, fratello?». Alla risposta del frate: «Vengo dalla tua cella», Francesco reagii con durezza: «Poiché hai detto che è mia, d’ora innanzi ci abiterà un altro, e non io». Al che gli autori anonimi della Leggenda commentano: «Noi che siamo stati con lui, lo abbiamo udito dire a più riprese quella parola del Vangelo: “Le volpi hanno la tana e gli uccelli del cielo il nido, ma il figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”. E seguitava: “Il Signore, quando stava in disparte a pregare e digiunò quaranta giorni e quaranta notti, non si fece apprestare una cella o una casa, ma si riparò sotto le rocce della montagna”. Così, sull’esempio del Signore, non volle avere in questo mondo né casa né cella, e neanche voleva gli fossero edificate. Anzi, se gli sfuggiva la raccomandazione: “Preparatemi questa cella così”, dopo non ci voleva dimorare, in ossequio alla parola del Vangelo: “Non vi preoccupate”» (Fonti francescane, 1581).
L’essenza della povertà francescana è in questa radicale e intransigente volontà di disappropriazione, intesa come sottrazione delle cose al potere dell’io per riconsegnarle al loro luogo originario da cui provengono: l’amore creatore. Due sono le modalità linguistiche alle quali Francesco ricorre per esprimere la sua concezione della povertà come disappropriazione.
La prima è il sintagma sine proprio tradotto in italiano con «senza nulla di proprio». Questa formula si trova sia nella Regola non bollata (Fonti francescane, 4) che nella Regola bollata (Fonti francescane, 75) e nelle Ammonizioni ritorna in un contesto del tutto particolare che riguarda l’atteggiamento da assumere nei confronti di chi fa il male: «Al servo di Dio nessuna cosa deve dispiacere eccetto il peccato. E in qualunque modo una persona pecchi, il servo di Dio che si lasciasse prendere dall’ira o dallo sdegno per questo, a meno che non lo faccia per carità, “accumula per sé come un tesoro” (cf Rom 2, 5) la colpa degli altri. Quel servo di Dio che non si adira né si turba per alcunché, vive giustamente e senza nulla di proprio (recte vivit sine proprio, nell’originale latino). Ed è beato colui che non si trattiene nulla per sé, “rendendo a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” (Matteo, 22, 21)» (Fonti francescane, 160). Beato, per Francesco, è chi non si adira di fronte al fratello che pecca (a meno che la sua «ira» non nasca dalla carità ma in questo caso allora non si tratterebbe più di ira ma di compassione!) perché adirarsi di fronte al peccatore sarebbe farsene proprietario, come se appartenesse a me piuttosto che a Dio.
Di qui la duplice conclusione paradossale che chi «non si adira né si turba per alcunché, recte vivit sine proprio » e che «beato [è] colui che non si trattiene nulla per sé», lasciando che sia Dio e non l’io a giudicare.
La seconda modalità alla quale Francesco ricorre è l’uso del verbo “appropriarsi” o del sostantivo “appropriazione” preceduti dalla negazione: «Si guardino i frati, ovunque saranno, negli eremi o in altri luoghi, di non appropriarsi di alcun luogo (nullum locum sibi approprient, nell’originale latino) né lo contendano ad alcuno» (Fonti francescane, 26).
Però è soprattutto nella Regola bollata che al verbo è dato un rilievo particolare: «I frati non si approprino di nulla (nihil sibi approprient), né casa, né luogo, né alcuna altra cosa. E come “pellegrini e forestieri” (1 Pt 2, 11) in questo mondo, servendo al Signore in povertà ed umiltà, vadano per l’elemosina con fiducia. Né devono vergognarsi, perché il Signore si è fatto povero per noi in questo mondo. Questa è, fratelli miei carissimi, l’eccellenza dell’altissima povertà (cf 2 Cor 8, 9), che vi costituisce eredi e re del regno dei cieli (cf Giac 2, 5) facendovi poveri di cose e ricchi di virtù. Questa sia la vostra “porzione” che vi conduce “alla terra dei viventi” (cf Sal 141, 6). E a questa povertà, fratelli carissimi, totalmente uniti, non vogliate aver altro sotto il cielo, per sempre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo» (Fonti francescane, 90).
A fondamento della sua fraternità Francesco pone il sine proprio e il nihil sibi appropriare: «Ammetteva all’Ordine solo chi aveva rinunciato alla proprietà e non aveva tenuto assolutamente nulla per sé. Così faceva, in omaggio alla parola del Vangelo» (Fonti francescane, 1121).
In questo radicalismo egli fu duramente contestato da molti dei seguaci ancora in vita, come narra la Leggenda perugina o Compilazione di Assisi: «I frati ministri cercavano di convincere Francesco a permettere che si possedesse qualcosa, almeno comunitariamente, in maniera che un numero così grande di religiosi avesse una riserva cui attingere. Raccoltosi in preghiera, il santo chiamò Cristo e lo consultò su questo punto. E immediatamente il Signore gli diede la sua risposta: “non ci doveva essere proprietà alcuna né personale né comunitaria”. Questa era la sua famiglia, disse, alla quale lui avrebbe immancabilmente provveduto per quanto numerosa fosse, e sempre avrebbe avuto cura di essa finché la fraternità avesse nutrito fiducia in Lui» (Fonti francescane, 1671). L’episodio viene ripreso una seconda volta dalla stessa Leggenda perugina con particolari più circostanziati e drammatici: «Dimorava Francesco sopra un monte assieme a frate Leone d’Assisi e Bonizo da Bologna per comporre la Regola, giacché era andato smarrito il testo della prima, dettatogli da Cristo. Numerosi ministri si recarono da frate Elia, vicario di Francesco, e gli dissero: “Abbiamo sentito che questo fratello Francesco sta facendo una nuova Regola, e temiamo la renda così dura da riuscire inosservabile. Noi vogliamo che tu vada da lui e gli riferisca che ci rifiutiamo di assoggettarci a tale Regola. Se la scriva per sé, e non per noi”. Frate Elia osservò che non aveva coraggio di andarci, per paura dei rimproveri di Francesco. Ma siccome quelli insistevano, ribatté che non intendeva recarsi là senza di loro. Così partirono tutti insieme. Quando frate Elia, accompagnato dai ministri fu giunto a Fonte Colombo, chiamò il santo. Francesco uscì e vedendo i ministri chiese: “Cosa vogliono questi fratelli?" Rispose Elia: “Sono dei ministri. Venuti a sapere che stai facendo una nuova Regola e temendo sia troppo aspra, dicono e protestano che non intendono esservi obbligati. Scrivila per te, e non per loro”. Francesco levò la faccia al cielo e parlò a Cristo: “Signore, non lo dicevo che non ti avrebbero creduto?”. E subito si udì nell’aria la voce di Cristo: “Francesco, nulla di tuo è nella Regola, ma ogni prescrizione che vi si contiene è mia. E voglio sia osservata alla lettera, alla lettera, alla lettera! Senza commenti, senza commenti, senza commenti”. Aggiunse: “So ben io quanto può la debolezza umana, e quanto può la mia grazia. Quelli dunque che non vogliono osservare la Regola, escano dall’Ordine!”. Si volse allora Francesco a quei frati e disse: “Avete sentito? avete sentito? Volete che ve lo faccia ripetere?”. E così i ministri se ne tornarono scornati e riconoscendosi in colpa» (Fonti francescane, 1672).
Osservatore Romano, 2-3 novembre 2013