Scrivere o pregare?
Un dissidio permanente
Thomas Merton
Il fatto che Thomas Merton fosse dotato di particolare abilità nello scrivere fu per lui, certo, causa di successo, ma anche di profondo dissidio interiore. Come cercare maggior silenzio, più profonda solitudine, totale e gratuita donazione al Signore? Scrivere, pubblicare: tutto questo non ostacolava forse il suo cammino di fede?
A quell'epoca avrei già dovuto risolvere tutti i problemi della mia vera identità. Avevo già fatto la professione semplice. E i voti avrebbero dovuto spogliarmi degli ultimi brandelli di una identità particolare. Ma c'era quest'ombra, questo doppione, questo scrittore che mi aveva seguito nel monastero. Egli mi segue ancora. A volte mi sta a cavalcioni sulle spalle, come il vecchio del mare.
Non posso liberarmi di lui. Porta ancora il nome di Thomas Merton. È forse il nome di un nemico? Si crede che sia morto. Ma egli c'è ancora e mi segue, mi viene incontro sulla soglia di tutte le mie preghiere, mi accompagna in chiesa.
Si inginocchia con me dietro alla colonna, quel Giuda, e continua a parlarmi all'orecchio. E un uomo d'affari. È pieno di idee. Respira nuovi schemi e nuovi progetti. Genera libri in quel silenzio che dovrebbe avere la dolcezza delle tenebre infinitamente fertili della contemplazione. E cosa peggiore di tutti, i miei superiori tengono dalla sua parte. Non lo scacciano. Non posso liberarmi di lui. Forse finirà per uccidermi, per bere il mio sangue. E nessuno sembra comprendere che uno di noi due deve morire.
Qualche volta ho una terribile paura. Vi sono giorni in cui mi pare che della mia vocazione, la vocazione contemplativa, rimanga soltanto un mucchietto di cenere. E allora tutti mi dicono tranquillamente: «La tua vocazione è quella di scrivere». Ed egli è lì a sbarrarmi la strada della libertà. Sono legato alla terra da una schiavitù egiziana di contratti, recensioni, bozze di stampa e abbozzi di libri e articoli che mi opprimono.
Quando mi venne per la prima volta l'idea di scrivere, ne parlai al Reverendo Padre e al Padre Maestro con quella che pensavo fosse «semplicità». Credevo di essere soltanto «sincero con i miei superiori». E in un certo senso credo di esserlo stato davvero. Ma non passò molto tempo ed essi pensarono fosse bene farmi tradurre, scrivere.
(La montagna dalle sette balze, 488-489)