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    Santità e pastorale

    Roberto Carelli


    Santità e secolarizzazione

    La strategia della santità è scelta ecclesiale obiettivamente intesa ad arginare “il tentativo di far prevalere un’antropologia senza Dio e senza Cristo” (Ecclesia in Europa, 9).
    Tutto quanto diremo va compreso nel senso di contrastare la seduzione e l’inganno di un “umanesimo ateo” (De Lubac), la retorica delle risorse dell’uomo e la dimenticanza delle sue radici religiose e della sua forma cristiana.
    Il fatto è che un uomo che non sia creato da Dio Padre, in Cristo suo Figlio, e nella forza del loro Spirito d’amore, non esiste. Un’antropologia decapitata del suo spessore religioso e della sua concretezza cristiana è presuntuosa e astratta. Ed è tragica nei suoi effetti.

    Cos'è la santità

    Il paradosso della santità

    La santità non è qualcosa, ma il tutto della vita cristiana, la parola sintetica che raccoglie il senso dell'esperienza credente. La parola che più le si avvicina è ‘grazia’.
    La santità è il carattere proprio di Dio, e per grazia diventa carattere dell’uomo. La santità – qui sta la radice di tutte le sue caratteristiche sorprendenti, del suo fascino vertiginoso e delle sue altissime esigenze – è indivisibile e partecipabile ad un tempo: “nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Mt 11,27).
    Quando la vita di Dio viene comunicata, si realizza la forma più alta del felice paradosso di ogni dono: qualcosa che diventa veramente mio perché e in quanto mi è donato, qualcosa che cresce in me se non perde il suo carattere di dono, se rimane cioè viva la relazione con il donatore; più ancora, qualcosa che mi diventa propria solo se mi lascio espropriare. Nella santità si diventa amici di Dio solo se ci si fa suoi servi. Santità è diventare straricchi di una cosa di cui si è assolutamente poveri, è essere signori e rimanere mendicanti ad un tempo.
    Il contrassegno particolare della santità, quello che permette in maniera relativamente semplice il suo riconoscimento, il suo corretto annuncio, l’accompagnamento e la crescita, è in termini generali una specialissima compresenza di ricchezza e povertà, di gloria e umiltà, di piccolezza e grandezza, qualcosa che per le vedute umane è semplicemente e felicemente smisurato!
    Andiamo con ordine: precisiamo meglio cos’è la santità, e poi illustriamo brevemente i suoi caratteri distintivi.

    Santità come partecipazione alla vita di Dio

    Santità è in generale – già qui bisogna soffermarsi, senza bypassare la cosa, senza darla per scontata – partecipazione alla vita di Dio.
    È la cosa meno scontata, l'impensato delle religioni, lo scandalo dei monoteismi e delle spiritualità raffinate nei confronti del cristianesimo. Che Dio sia la Causa, il Creatore, tutti lo pensano, ma che Egli si partecipi in termini di amore, che si coinvolga nella nostra vita e che coinvolga la nostra vita nella sua, questo lo ha pensato solo Dio!
    È perciò la cosa a cui fare caso, la cosa di cui stupirsi, l'unica esperienza che, vissuta e proposta, può veramente intercettare l'interesse della gente e dei giovani, più affamati di verità e di ordine di quanto si creda.
    Tanto più che a differenza di altre epoche, su altri obiettivi ci pensa già il mondo, e ci vengono sottratte quelle forme di sussidiarietà che preparavano o dilatavano l’opera di evangelizzazione (non senza il rischio, peraltro non evitato, di mettere la santità in secondo piano, di farla arrivare in seconda battuta).
    Va subito chiarito che il primato contenutistico e strategico della santità non deve richiamare neanche per un attimo il logoro dibattito fra spiritualità che partono da Dio o dall’uomo, dall’evangelizzazione o dalle opere di carità: l’alternativa è semplicemente da rifiutare. Sono consentite e promosse solo modalità d’approccio diverse: ogni legittima spiritualità ha un suo timbro inconfondibile.
    In concreto, nell’annuncio, la santità non deve arrivare né prima né dopo, ma sempre durante ogni atto di promozione umana: dice la liturgia che Dio va “amato in ogni cosa e sopra ogni cosa nel vincolo del suo amore”.
    Con tutto ciò, tematizzare la santità come partecipazione alla vita divina significa dire che la fede non è tanto credere che Dio esiste, ma che opera nella mia vita e mi trasforma, mi coinvolge realmente nella sua vita e si coinvolge nella mia: “non sono più io che vivo, ma Cristo che vive in me”!

    Santità come partecipazione al mistero pasquale

    Santità, in particolare, è partecipazione al mistero pasquale. La pasqua è il modo concreto con cui Dio ha reso disponibile la sua vita per noi uomini peccatori.
    La NMI lo dice in formula: la santità è “inserimento in Cristo e inabitazione del suo Spirito”. Ciò significa che la santità non è qualcosa di semplicemente puntualistico, ma un itinerario. È un punto e una linea, un già e un non ancora, un’effettiva adozione e un cammino di educazione.
    Il cammino di santità non è generico, ma si precisa come itinerario che va dalla giustificazione alla santificazione, dal fonte battesimale al banchetto eucaristico alle nozze dell’Agnello, dalla gratuità di un dono ad una sempre più profonda gratitudine alla gioia perfetta del paradiso. Santità è inseparabilità di celebrazione sacramentale e itinerario spirituale.
    La santità va pensata pertanto come ‘cammino di santificazione’, assunzione dei tratti della carità di Cristo. Avrà per esempio una dimensione crocifissa ed una pasquale. Consisterà da una parte nel perdere la vita, nel non trattenerla, nel rinunciare alla vita vecchia, nel lottare contro il peccato e contro le seduzioni di satana e del mondo, e come minimo nell'accettare la visione dell'uomo come chi è da salvare, come chi, senza Gesù non può fare che ‘opere morte’ (Eb 9,14).
    D'altra parte consisterà nel rivestire i sentimenti di Cristo e nel progredire nell'esperienza trinitaria di Dio con tutto ciò che può e deve comportare: esperienza della paternità di Dio e della fraternità fra gli uomini, esperienza effettiva della liberazione dal male ad opera dei sacramenti, esperienza della vita morale come interlocuzione dello Spirito. Tutte cose concrete, da annunciare, da catechizzare e da accompagnare. E questo non è ovvio: in genere si tende a non parlare di queste cose, ma a mettere l’accento sulle immagini che dovrebbero spiegarle. Gli esempi prendono il posto della realtà.
    Un esempio per tutti: la vita spirituale non può essere semplicemente accostata alla vita morale: poiché la moralità umana è resa possibile esattamente dal dono dello Spirito, la vita morale cristiana si identifica con la vita nello Spirito. Ciò significa che educare la fede è aiutare a comprendere che quello che ci capita, che pensiamo e che sentiamo, è un dramma in atto, è un intreccio di affetti e di effetti dovuta ai sì e ai no detti alle ispirazioni dello Spirito e alle tentazioni di Satana, alla libertà e alle catene che dipendono da ciò che ho fatto, dagli ‘amici’ che ho frequentato, dalla risolutezza con cui ho lottato contro i ‘nemici’, soprattutto dalla reale confidenza in Dio e dalla relativa rinuncia ad appoggiarsi su se stessi.

    Santità come esperienza ecclesiale

    Poiché tutte queste cose sono concrete, sono vita umana vissuta ‘da Dio’ secondo il senso della pasqua, la santità è immediatamente cammino ecclesiale, missione nella chiesa, progressiva trasformazione dell'uomo in ‘anima ecclesiastica’, vita vissuta non più per se stessi, ma per amore di Dio e dei fratelli, nel servizio e nella testimonianza come esplicitazione della fede.
    La chiesa non si aggiunge alla fede, alla relazione vivente dell'uomo con Dio, è piuttosto questa stessa relazione riuscita. La Chiesa è lo spazio concreto dell'umanità salvata. Farsi santi è essere sempre più chiesa. Essere cristiani ed essere ecclesiali non possono essere distinti adeguatamente.
    Quando la santità c’è, si esprime e si segnala. La chiesa vive e perciò custodisce (e viceversa!) questo patrimonio di vita! Il contrassegno della santità reale e non presunta è la misteriosa e sempre sorprendente compresenza di ricchezza e di povertà, di forza e tenerezza, di franchezza e di affabilità, di libertà e obbedienza, di spregiudicata libertà di spirito (carisma) e di affettuosa appartenenza al corpo la chiesa (istituzione). Ascoltiamo il lieto paradosso della santità cristiana dalla bocca di S. Paolo:
    E Dio che disse: Rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo. Però noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi. Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Sempre infatti, noi che siamo vivi, veniamo esposti alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù sia manifesta nella nostra carne mortale. Di modo che in noi opera la morte, ma in voi la vita (2Cor 4,6-12).
    Ed ora una splendida pagina di Balthasar, tratta da un testo dedicato proprio ai giovani:
    Dobbiamo fare opere e crescere in opere, ma nel crescere diventare più piccoli e, guardando te, dimenticare tutte le nostre opere. La nostra giustizia dev’essere più grande di tutta quella degli scribi e dei farisei, ma dobbiamo diventare più piccoli e più bassi come questo bambino. Dobbiamo raccogliere tesori nel cielo, e in fienili più sicuri, dove tignola e ruggine non consumano, ma dobbiamo a un tempo essere più poveri di tutti e beati mendicanti nello spirito, che non si preoccupano angosciosamente del giorno eterno di domani. Tutti protesi dobbiamo correre verso ciò che è davanti a noi, e tuttavia riposare, distesi e senza paura, come un uccello nella tua mano. Le nostre opere dovrebbero poter brillare davanti a tutti gli uomini, ma dobbiamo star attenti a compierle nel segreto. Dobbiamo essere perfetti come il Padre che è nei cieli, ma contriti come il pubblicano nel tempio e sentirci come peccatori che non valgono niente… Dobbiamo affaticarci per gli uomini e morire come madri in doglia, e tuttavia, se non ci ricevono passar via e scuotere la polvere dalle scarpe. Essere impassibili e senza bisogno di nulla, ma compartecipi in gioia e dolore, e aver aperta la mano in dare e ricevere. Lasciare che il tuo regno cresca in noi pazienti come sementi, come seme che cresce incessante tra molta zizzania, ma audaci come fulmini rapinarci il regno dei cieli nella scintilla della grande decisione!... il regno è tutto insieme, ad un tempo: è povero e ricco, potente e impotente, così visibile che nessuno può non vederlo e non subire castigo, e così segreto che nessuno lo può vedere se non con gli occhi della grazia (Il cuore del mondo, 165-166).
    Il puro impegno i giovani lo rifiutano d’un colpo; anche il puro godimento se lo prendono già da soli. Ma la splendida provocazione della santità, l’esperienza di un gaudio ineffabile che si intreccia intimamente con il desiderio di portare la croce per amore di Gesù e per la salvezza degli uomini, solo questo può essere veramente interessante.

    Perché proporla?

    Visto che la santità è la radice, la realtà e la mèta della vita cristiana, la domanda appare superflua. Tuttavia è l’occasione per fare alcune considerazioni strategiche dal punto di vista pastorale.
    Una prima osservazione è elementare: la santità deve diventare oggetto di testimonianza convincente e di annuncio persuasivo, perché l’uomo non desidera e non può desiderare la santità. La santità è esigente: addita una mèta più alta delle possibilità dell’uomo, e chiede la conversione della mente, del cuore e della vita: da una parte è una realtà più bella di quello che l’uomo può immaginare, d’altra parte è contestazione vivente del peccato. Per l’uomo reale così come mediamente si presenta, la santità è insieme di più e di meno di quanto corrisponda ai suoi desideri: anche quando il desiderio di santità è reale, l’uomo è tentato di scoraggiarsi circa la possibilità di riuscirci, e soprattutto è indotto a rimanere attaccato ai beni, o ai mali, di questo mondo. E invece la santità, appunto perché è indivisibile, ci viene partecipata solo se la accogliamo come “la perla preziosa” per al quale vale la pena di “vendere tutto il campo” (Mt 13,46).
    Comunque la risposta centrale è la seguente: si deve proporre la santità perché altrimenti ogni agire e ogni operare cristiano si svuota del suo senso profondo. Tutto diventa formale, inconcludente, sterile. Senza santità, il corpo ecclesiale è un cadavere vivente, viene frainteso alla stregua di ogni altra istituzione di questo mondo, ammirata e invidiata, blandita o osteggiata a seconda degli interessi del tempo e dei potenti.
    Ecco perché oggi la santità, oltre che contenuto essenziale della vita cristiana, deve essere fatta valere anche punto prospettico della programmazione pastorale. Senza l’ottica della santità si perde il più e il meglio. Senza la santità, manca il cuore profondo e il timbro inconfondibile dell'agire cristiano, certamente il contenuto e l’efficacia dell'opera pastorale.
    Qual è il motivo per cui il papa la ripropone con forza? Qui bisogna prendere coscienza che l'annuncio della “vocazione universale alla santità” è stato recepito soprattutto nel senso negativo di togliere le ingiuste discriminazioni fra le vocazioni, quindi per superare l’ingiusta requisizione della santità da parte dei consacrati e della santificazione da parte dei sacerdoti. La conseguenza postconciliare di questa lettura parziale e riduttiva dei suoi enunciati, sommandosi con gli effetti di certa teologia e pastorale delle realtà terrestri, dei segni dei tempi, del dialogo con il mondo, è stata che i laici non si sono innalzati più di tanto rispetto al mondo, ma in compenso i consacrati si sono pericolosamente secolarizzati.
    Non a caso NMI 30 sente la necessità di chiarire che se “i Padri conciliari diedero a questa tematica tanto risalto, non fu per conferire una sorta di tocco spirituale all'ecclesiologia, ma piuttosto per farne emergere una dinamica intrinseca e qualificante” (NMI 30).
    Il fatto che la santità non sia subito operativa per i programmi pastorali non rappresenta peraltro un difetto, ma un pregio. Le opere nascono dal silenzio, l'efficacia nasce dalla gratuità. La santità deve avere un primato di ispirazione. Bisogna capire che la gloria viene dalla croce, che la ‘forza’ dell’agire cristiano nasce dalla ‘debolezza’ della dedizione.
    Di fatto, intorno ai tavoli pastorali, sembra irresistibile buttarsi a capofitto nell'operativo. A volte, certo, capita il contrario, cioè di girare a vuoto su programmi generali e generici. Proprio per questo la centratura sulla santità rappresenta il miglior correttivo alla duplice tentazione dell’attivismo e dell’astrazione, e soprattutto la miglior messa a fuoco di tutto: dei quadri generali, dei dettagli spiccioli, soprattutto delle relazioni (si osservi che l'invito alla santità è inscritto nella NMI fra i due fuochi della centralità di Cristo e della spiritualità di comunione).

    Come proporla?

    Facciamo solo due osservazioni, a partire dall’espressione pontificia che qualifica l’impegno alla santità come “misura alta della vita cristiana ordinaria” (NMI 31).
    “Misura alta della vita cristiana”: si tratta di far prendere il gusto della vita cristiana come di una pienezza di cui si può fare esperienza entrando (sacramenti), ricevendo doni (vita di ‘grazia’), lasciandosi guidare (vita nello Spirito).
    Di fronte alle alte esigenze della santità, non si tratta cioè immediatamente di scalare, di fare sforzi, di pensare che la grazia vada pagata con le opere, che gli obiettivi siano solo alla fine e così via; e neanche, al contrario, di ritenere che ci si debba aggiustare, fare compromessi, mediare le esigenze evangeliche con quelle di questo mondo, contrattare quote di impegno con quote di godimento, gestire nella vita zone cristiane e zone franche, aprire o chiudere parentesi…
    Santità e radicalità evangelica coincidono, e sono offerte e richieste a tutti: l’espressione paradossale di Gesù per cui per spostare le montagne basta avere “un granello di fede” (Mt 17,20) – scarto immenso fra causa ed effetto! – significa appunto non ragionare in termini quantitativi, di tanto o poco, di bilancio fra bisogni e risorse, ma in termini qualitativi, di entrare o non entrare nell’esperienza di una vera appartenenza al corpo di Cristo…
    Le ricadute pastorali di questa osservazione sono innumerevoli. Per esempio, evangelizzare, suscitare ed educare la fede significa introdurre in un'esperienza che c'è, e quindi farne prendere coscienza riflessa, non il contrario (nel primo caso la scuola segue il criterio oratoriano, nel secondo caso l'oratorio scade a 'scuola', accademia, congresso sui problemi giovanili…).
    “Misura alta della vita cristiana ordinaria”. Nessun equivoco: la santità non si identifica con alcune sue forme, ma con la forma di ogni atto cristiano, con il fare la volontà di Dio come in cielo così in terra, ciascuno in ciò e per quanto gli è chiesto. NMI 31 lo dice così: “Le vie della santità sono molteplici, e adatte alla vocazione di ciascuno”. Dunque: santità è totalità, ma si precisa per ciascuno in maniera particolare. Proprio come lo stesso scambio di amore e di vita di due genitori dà alla luce figli diversi, tutti assolutamente unici.
    Da qui il dovere di meditare incessantemente l'esperienza di don Bosco fondatore e la storia della congregazione per rimettere continuamente a nuovo i capisaldi della nostra spiritualità, cioè rimettendo in prospettiva salesiana i grandi temi della vita cristiana. Vigilando di non commettere ancora errori passati: prendere un tratto specifico della spiritualità e utilizzarlo per diluire il contenuto cristiano di fondo. Piuttosto: che colore prende l'obbedienza dal punto di vista salesiano? quale particolare radicalità richiede? Che cosa vuol dire per un salesiano consacrato e che cosa per un collaboratore laico?


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