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    Quale speranza

    è possibile nel tempo

    della crisi

    La speranza di Gesù

    Carmine Di Sante

    “Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi chieda della speranza che è in voi” (1Pt 3,15)

    Il versetto che troviamo nella lettera di Pietro dice: “siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi chieda della speranza che è in voi”. Per molto tempo ho pensato che noi dovessimo rendere conto ai non credenti della nostra speranza, poi invece ho capito che dobbiamo rendere conto a noi stessi; io credente devo rendere conto a me stesso del senso della mia speranza, della speranza che è in me che è in noi. Nel testo originario c’è una parola – che è una parola magica di tutta la letteratura greca e soprattutto della filosofia greca – che Pietro rende con “logos” della vostra speranza. Dicevo che logos è una parola magica perché dice tutto nel mondo greco; qui sicuramente logos non è da prendere nell’accezione filosofica e dimostrativa, ma credo che voglia dire: traducete in un discorso ragionevole e persuasivo il senso della vostra speranza, in modo che più che “dimostrare” si possa mostrare all’altro cosa vuol dire sperare. In modo che, narrandolo e articolandolo, l’altro possa dire “che bello!” Ripeto: ognuno di noi deve tradurre questo a sé stesso, allora io lo tradurrò a me stesso pensando di interpretare anche la speranza che è in voi.

    Gesù e la speranza ebraica

    La speranza di Gesù è la speranza primo testamentaria; e qual è la speranza che noi vediamo narrata nelle scritture ebraiche? Vi proporrò una riflessione fenomenologica ed ermeneutica della speranza biblica. “Fenomenologica” vuol dire a partire dal proprio vissuto. Ognuno di noi può parlare, cari amici, delle realtà profonde come l’amore l’amicizia, la fede, la speranza, in questo caso, partendo da quello che ha capito dell’amore della fiducia dell’amicizia della speranza. Prima di attingere ad un testo, o di leggere tutti i libri pubblicati su Dio o sulla speranza il punto di partenza è “che cosa tu dici” dell’amore di Dio, della speranza. Poi “ermeneutica” perché le cose che io ho capito della speranza attingono a quel testo fondativo che chiamiamo le scritture ebraico cristiane.
    Allora vi propongo una risposta alla domanda “che cosa è la speranza nella Bibbia” attraverso alcuni flash.

    1) Speranza e trauma.
    A me sembra che nella bibbia ebraica la speranza fiorisce paradossalmente dentro l’esperienza traumatica. Sapete che per Israele Torà-Pentateuco è la propria auto-comprensione che si oggettiva nelle scritture; il grande racconto fondativo di Israele, il mito di fondazione di Israele che è l’Esodo, è elaborato in esilio, quando Israele perde l’autonomia statuale, il tempio distrutto, viene allontanato dalla sua terra. Dentro questo trauma, Israele ripensa e si auto-comprende secondo quel racconto che è il racconto esodico che è dentro il Pentateuco. Il “trauma” non è tanto un luogo di negatività, ma trauma come dimensione sconvolgente che rompe un equilibrio, ma è anche la possibilità di ricostruire un nuovo equilibrio, anche un riorientamento.
    L’esperienza traumatica è il luogo generativo della speranza, questa è una delle differenze profonde tra pensiero greco e pensiero ebraico. Voi sapete che il pensiero greco nasce dalla meraviglia, a me sembra che il pensiero ebraico nasce dal trauma ed è il trauma il luogo ri-orientativo del reale. Questo forse vale anche per ognuno di noi. Le grandi sofferenze sono il luogo delle grandi ri-comprensioni. Questo vale sia sul piano personale esistenziale che sul piano collettivo: forse mai come oggi l’umanità sta attraversando un cambiamento così radicale ed ecco che questo grande trauma è anche una grande opportunità una grande occasione.

    2) Il trauma è il fondamento
    Il trauma è il fondamento, il kairos: è l’opportunità, l’occasione. Il trauma può portare anche alla disperazione, ma può essere anche la grande opportunità per scoprire quella cosa che nel termine “fondamento” trova un facile consenso. Il fondamento è quel che permane, persiste là dove tutto crolla. Quello che Israele scopre quando perde il tempio, va in esilio eppur scopre qualcosa che permane e persiste, scopre quel punctum la cui grande metafora nella bibbia è roccia; nei Salmi, ad esempio, si rimane sorpresi nel vedere roccia, rupe che sono delle metaforizzazioni per dire che là dove il mondo crolla rimane qualcosa di incrollabile.

    3) Il fondamento è Dio
    Che cos’è Dio nelle grandi religioni e soprattutto nel racconto ebraico e cristiano? Credo che Dio è il nome che le religioni e Israele danno a questo fundamentum, a questo indistruttibile scoperto nel trauma. Evito subito un equivoco; uno potrebbe dire: ma allora Dio qui è percepito come il Dio tappabuchi? Se le cose vanno male allora faccio riferimento a Dio. Ma non è questa l’esperienza di Israele, non è una teorizzazione è un’esperienza; è l’esperienza di chi dentro al trauma scopre che c’è qualcosa al di là del trauma che è fundamentum, che è Dio. Ecco la scoperta o l’esperienza di un divino che permane al di là di ciò che crolla e la definizione straordinaria che Israele, il racconto ebraico, la Torà dà di questo Dio. È la definizione che si trova e che apre il cosiddetto Decalogo, che gli ebrei giustamente chiamano le dieci parole, per la semplice ragione che la prima parola, che non compare nella traduzione del Decalogo cristiano, non è nel testo ebraico un imperativo, ma è un atto dichiarativo da parte di Dio: Io sono colui che ti ha liberato dalla condizione servile. È quel fundamentum che Israele scopre nell’esilio, nel trauma, quel Dio che “ti ha” (guardate anche la personalizzazione, non vi ha): il Decalogo si gioca sempre in un rapporto interpersonale di “tu-io”: Io ti ho liberato dalla condizione servile. Ecco il Dio che ti libera dalla condizione servile è il nome del fundamentum. E quella centralità della fede, che Elena Bartolini richiamava, che è il cuore della Torà di cui la Speranza è una esplicitazione. Quella fede è definita dalla Lettera agli Ebrei (cap. 11): “la fede è substantia rerum sperandarum” e poi è dimostrazione o spiegazione delle cose invisibili. Che cosa vuol dire che è substantia rerum sperandarum? e poi è la dimostrazione di ciò che non si vede…
    Il testo greco è “ipostasis”, è il fondamento, è ciò che sta sotto e che sorregge l’edificio.
    È la prima volta che do questa definizione che mi ha convinto, devo testimoniarlo: la Fede è l’organo percettivo del fundamentum, che nella narrazione dell’Esodo è “Io ti ho liberato dalla condizione servile, Io ti porto in una terra di libertà, Io ti introduco in uno spazio dove ti si riapre l’orizzonte, dove tu puoi tornare di nuovo a sperare”. La fede è l’organo percettivo dell’ipostasis-substantia. Che vuol dire fede? Ciò che sta sotto, substantia, e che stando sotto sorregge il tutto e che permane anche quando il tutto crolla. Questo fondamento che è la fede ed è la parola della Torà, ci diceva Bartolini, questo fundamentum,che è Dio liberatore, riapre i nostri orizzonti. Ed è dimostrazione delle cose che non si vedono che noi speriamo – rerum sperandarum … Oggi c’è molta angoscia nell’occidente in Europa, e la fede è quel fondamento che ti fa vedere un positivo anche dove la ragione ti direbbe di no. Sapete che il mondo greco non fornisce speranza, la tragedia greca conosce il destino che non è speranza; anzi credo sia Eschilo che dice che la speranza è soltanto cieca, che è un’illusione, un inganno. Nella bibbia no, perché il fondamento è questa esperienza di un qualcosa che permane che è in Dio ed è la liberazione.

    4) Dio è la consolazione
    Se il fondamento che emerge nel trauma è Dio che è il Dio della liberazione, nel racconto esodico, nel mito di fondazione di Israele, questo Dio della liberazione si configura con un tratto particolare che è importantissimo per il discorso della speranza: è un Dio il cui tratto definente è di ascoltare il gemito di chi soffre. In Esodo 2 e in Esodo 3 Dio si rivela in questo modo: “ascoltando il gemito del mio popolo, mi sono chinato sono intervenuto per liberare il popolo da quel gemito”, nel salmo 58 c’è addirittura un’altra immagine di un Dio che, non soltanto ascolta il gemito, ma ne coglie le lacrime e interviene per asciugarle e temendo di dimenticarsi delle lacrime le raccoglie tutte nel suo otre e addirittura, temendo ancora di dimenticarsi del suo otre le scrive tutte nel suo libro. È un Dio che si definisce dal patire: nel gemito di Israele sono i gemiti nostri e di tutta l’umanità, e Dio si definisce in rapporto a questi gemiti, a queste lacrime.
    Leggendo Il trattato delle lacrime di Catherine Chalier, ho scoperto che la Bibbia si apre con Dio che asciuga le lacrime di Israele e che poi chiama gli uomini ad asciugarsi le lacrime, continua con Dio che manda Gesù ad asciugare le lacrime e chiude nell’Apocalisse con quella grande immagine di uno spazio dove Dio asciugherà tutte le lacrime dei suoi figli. L’unica immagine seria per pensare l’escaton: un Dio che si china sulle lacrime, un Dio di consolazione.

    5) Consolazione e comandamento
    C’è un nodo che noi cattolici non riusciamo a sciogliere, non riusciamo a capire: perché nella Bibbia-Torà tutto è dato nella forma del comandamento. Anche Gesù dice: “vi do un comandamento nuovo”. E nasce la grande domanda: ma si può comandare l’amore? La cosa paradossale è che Dio comanda, ma che cosa comanda Dio? Questo è un discorso molto complesso. Però quello che voglio trasmettervi è che quel Dio che ci consola, ci consola chiedendo ad ognuno di noi di consolare il prossimo. Dio non ci consola direttamente, anche se lo può certo fare, però noi non vediamo Dio che va ad asciugare la lacrima di un bambino pur potendo farlo; adesso che vi sto parlando centinaia di persone muoiono di fame: Dio non lo fa di consolarli. Perché non lo fa? Chi è la potenza del nomos del comandamento della Torà? È Dio che ti ama e ti ama comandandoti di amare il prossimo; Dio ti ama nella modalità di chiamarti ad amare, Dio ti consola nella modalità di chiamarti a consolare.
    Questo è il punto dirimente, questa è la ragione: che il Dio che ci consola ci consola chiamandoci a consolarci.

    6) Consolazione e pazienza
    Ricordo una delle pagine che più mi hanno cambiato nella mia vita è stato quando ho letto un carteggio tra Martin Buber e Franz Werfel: questi, nel 1917 chiese a Martin Buber “dicci che cosa è per voi ebrei l’attesa e che cosa attendete” e Buber rispose a questo modo: “per noi ebrei non è tanto importante l’attesa dell’uomo nei confronti di Dio, ma è importante invece l’attesa di Dio nei confronti dell’uomo; è importante Dio che attende qualcosa dall’uomo”.
    E aggiunge: “Dio attende dall’uomo che l’uomo gli risponda”; perché soltanto là dove l’uomo risponde, nel sì dell’uomo a Dio, Dio può entrare e Dio può entrare soltanto là dove un uomo gli risponde. Per capire questa logica, ci si riferisca a quel versetto dell’Apocalisse (Ap 3,20) dove si dice: “Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me.”: il sì dell’uomo è la porta attraverso la quale entra Dio. Se ne è accorto anche Levinas commentando che ognuno di noi è un piccolo messia attraverso il quale può entrare il mondo redento, il regno di Dio. Il Dio che bussa allora è un Dio che non si stanca mai di bussare e l’uomo che gli risponde è l’uomo che non deve mai stancarsi di rispondere.
    Allora si capisce questo passaggio: “consolazione e pazienza”: è perché Dio è un Dio paziente, paziente nel senso etimologico del termine greco che è ipomonè che è il tratto con cui Paolo nella lettera ai Corinzi definisce l’agape e dice che l’agape tutto crede tutto spera, tutto copre, tutto comprende e poi dice: tutto (eh pessima traduzione) “sopporta”. Da noi “sopporta” è un termine terribile; invece viene da ipomonè, sub tenei, sostiene, porta. La traduzione migliore è lo “supporta”. L’agape che è Dio che chiede a noi – è il comportamento di tenerezza di benevolenza di Dio che chiede a noi, per quella ragione che dicevo che Dio ci ama nella modalità di chiamarci ad amare –, è l’agape che tutto porta, tutto sup-porta e tutto sopporta perché noi gli importiamo. Ma dire che tutto sup-porta come dice Levinas è dire che la speranza si identifica con la pazienza, come una madre che continua ad amare suo figlio sempre, anche nella sua lontananza o perdizione. Vuol dire che il tratto che definisce Dio nella Bibbia, per quello che ho capito, è questa capacità di portare, anche dove l’uomo disattende Dio o nega Dio. La speranza come supportazione, come pazienza; che Dio ci sup-porta, che ama me e voi. È bellissima la traduzione adottata prima della comunione che forse è la più fedele: “ecco l’agnus dei che porta il peccato del mondo”.

    Gesù e la speranza

    Nel Nuovo Testamento Gesù, oltre che soggetto della speranza, diventa soprattutto oggetto della speranza dei suoi seguaci. Sono tre i linguaggi fondamentali che nel NT ci mostrano questo processo di risemantizzazione della speranza: il primo termine è “messia”, il secondo termine è “regno di Dio”, il terzo termine è “risurrezione”.

    1) Messia
    La prima confessione di fede dei discepoli, il primo discorso che Pietro fa è: “il crocifisso che noi pensavamo fallito é Cristos” che vuol dire messia, un termine che ha tante accezioni, ma che per i discepoli che lo proclamano vuol dire “colui che inaugura quel tempo senza più ingiustizie e senza più violenza”. Certo è una dichiarazione paradossale perché secondo l’obiezione che ci fanno i fratelli ebrei ed anche i non credenti: “dov’è che voi cristiani testimoniate un mondo senza più lacrime, senza più ingiustizie, senza più guerre?”
    Gli autori nuovo testamentari riconoscono che in quell’uomo Gesù di Nazareth è accaduto un evento di un inizio dove è data la possibilità alla storia umana di vincere la sofferenza, la violenza, le contraddizioni.
    Evitiamo quando diciamo Gesù Cristo di intendere come nome e cognome, mentre “Cristo” è un attributo; ma un attributo inquietante perché dice: “io seguo uno il quale mi ha sedotto perché in lui possiamo vincere le potenze negative”. Paolo parlava delle potenze, le potenze del male, le strutture di potenze, di male; oggi mettete tutte quelle strutture , iniziando dall’impresa bellica che fagocita denaro che non immaginiamo…
    Questa è la prima categoria: proclamare Gesù è proclamare il luogo sorgivo dove è possibile trasformare le potenze negative del mondo.

    2) Imminenza del Regno
    La categoria del regno di Dio è molto ebraica. Il NT neppure dà una definizione perché la definizione è che dove Dio trionfa lì accade la realizzazione del suo disegno di amore, quindi lo shalom. Nell’ebraismo c’è questo nesso costitutivo: la signoria di Dio è lo shalom. Dov’è l’aspetto specifico del NT che vede in Gesù realizzarsi, l’inverarsi di questa possibilità. Il NT usa quel linguaggio che poi è il tormento degli esegeti: alcune volte dice “è arrivato”, altri autori traducono “è tra di voi”, altri “dentro di voi”.
    Allora il regno di Dio: è vicino, è arrivato, è tra di noi oppure dentro di noi?
    Il regno di Dio come signoria di Dio di diritto è arrivato, perché Gesù ha totalmente sincronizzato la sua volontà alla volontà del padre. Se Dio entra laddove una volontà umana lo fa entrare, se è il sì totale pieno dell’uomo alla volontà del padre, allora Gesù è entrato nella volontà di Dio, come anche nei profeti, nei giusti di Israele.
    Perché il regno di Dio che è entrato in Gesù entri in noi, ha bisogno del nostro sì, ha bisogno che gli uomini gli aprano la porta. Bisogna evitare che al Dio tappabuchi che fa tutto lui, noi sostituissimo il messia tappabuchi. Allora capite che il regno di Dio, se è arrivato, se è dentro di noi, vuol dire che il regno di Dio inaugurato dal messia perché possa entrare nella tua vita e nella storia ha bisogno della tua responsabilità. È questo termine che gli apre la porta nell’immagine dell’Apocalisse. Allora capite amici che il regno di Dio essendo qui ed ora, è sempre imminente perché quel messia aspetta che io diventi seguace, che vuol dire fare quello che lui fa, aprire la porta, condividere la sua responsabilità. Quello che noi diciamo “in Cristo per Cristo con Cristo” è una modalità linguistica per dire: quello che lui ha fatto apre una possibilità per ognuno di noi, perché lo si fa non sostituendosi a lui, ma grazie a lui.

    3) Risurrezione
    La Risurrezione è la categoria dove si riassume la potenza rigenerativa del messia, in cui si è realizzato il regno di Dio attraverso il suo sì al Padre. Per molto tempo, ogni volta che sentivo risurrezione pensavo ai cadaveri dei cimiteri che Dio a un certo punto fa risorgere. Ma quando il NT parla della risurrezione non pensa in primo luogo a coloro che sono nei cimiteri. Il NT per la risurrezione rimanda a quell’immagine che ritroviamo in Geremia ed Ezechiele del cuore pietrificato: “vi darò un cuore nuovo e metterò dentro di voi uno spirito nuovo; toglierò dalla vostra carne un cuore di pietra vi darò uno cuore di carne.” (Ez 36,26); e allora la potenza rissurrezionale di Gesù è soprattutto la potenza di far risorgere i cuori pietrificati di ognuno di noi. Che cos’è un cure pietrificato? È un ossimoro potentissimo: è un cuore morto, è un cuore chiuso in sé, è un cuore autoreferenziale, un cuore che ha rotto il rapporto con l’altro e con gli altri, che ama soltanto sé stesso e che istituisce con gli altri rapporti solo funzionali, usando l’altro per sé. Ecco allora che il crocifisso gli apre la possibilità di questo amore, che è l’amore di agape, di alterità e che soprattutto è l’amore nonviolento, è l’amore perdonante, quell’amore che consiste nel portare un pezzo del male del mondo per non riprodurlo. E questa è la condizione di possibilità per fare rifiorire il mondo, perché il mondo possa tornare a fiorire come shalom, come mondo fraterno, come mondo buono. Come mondo del quale possiamo dire “ecco come è bello che i fratelli stiano insieme”.

    La speranza in noi

    Se la speranza è soprattutto paziente e la pazienza è sup-portare il mondo, a me sembra che oggi abbiamo bisogno di tre grandi figure di sup-portazione.
    1) Prima figura: dobbiamo supportare la chiesa che vuol dire riformare la chiesa secondo quella grande occasione che è stato il secondo Concilio ecumenico. Grande compito, grande sogno, grande speranza… sappiamo tutti i problemi che ci sono sull’interpretazione, ma chi ama la chiesa deve impegnarsi a riprendere il Vaticano secondo e trovare in esso quelle grandi intuizioni per potere sperare …
    2) La seconda figura di supportazione è: riparare il mondo. La chiesa è segno del mondo, non è sostitutiva del mondo, è segno e annuncio di un Dio che ama il mondo …e noi siamo chiamati a riparare il mondo soprattutto impegnandoci nella giustizia, nella salvezza del pianeta e nella non violenza. Tornando a fare della giustizia una grande categoria della nostra fede, della nostra sequela in Gesù. Il cardinal Martini diceva che il termine per eccellenza nella Bibbia non è tanto Dio è amore, ma Dio è giusto; giusto non si oppone ad amore, ma giusto è l’amore al plurale perché se l’amore fosse al singolare sarebbe escludente, dobbiamo amare i 7 miliardi di persone che siamo!
    Se il mondo avrà un futuro può essere sulla via della giustizia oppure sulla cannibalizzazione. Lo dice il sociologo I. Diamanti: il rischio che stiamo correndo è cannibalizzarci, oppure ecco i credenti testimoniano questo grande impegno per la giustizia, un bel motivo per sperare.
    3) Per poter riformare la chiesa e riparare il mondo dobbiamo soprattutto riformare la nostra propria soggettività, il proprio cuore, il proprio “io” ed è questo che oggi è in crisi. La modernità ci ha fatto dono della scoperta dell’individualità, della singolarità: tu vali non per le tue appartenenze, neppure per i tuoi comportamenti etici: questa è la conquista dell’occidente, che è frutto della Bibbia e dell’apporto del pensiero greco. Ma l’individualità oggi se diventa fine a sé stessa diventa problematica. Perché la libertà ha un limite: finisce là dove c’è l’altro; ma questo allora vuol dire che la libertà non può essere un assoluto, l’assoluto è la responsabilità, l’attenzione all’altro. Allora riformare un “io” credo che voglia dire riformare un “io” perché sia un io-per-l’altro e non l’io-per-sé, e questo è l’“io” della responsabilità. A me sembra che la grande sfida è di ri-soggettivare l’umano sulla linea di un “io” che è un “io ospitale”, capace di accogliere ogni altro credente o non credente, è un “io” mite nel senso di nonviolento.
    L’“io” ospitale è l’“io” mite, nonviolento delle beatitudini: a me sembra questa la grande sfida, perché soltanto una soggettività ospitale e mite può riparare il mondo…
    Termino con un lascito, con questa storia ebraica. Un rabbi chiede ai suoi discepoli: quando potete dire che davvero è arrivata l’alba? Un ragazzo risponde: quando riesci a distinguere in lontananza la configurazione di un albero, allora è arrivata l’alba e puoi cominciare a pregare. No, dice il rabbi. Un altro ragazzo dice: quando riesci a distinguere la sagoma di un animale. No, dice il rabbi. Allora il rabbi – passando dal livello temporale ad un livello etico-antropologico – dice: quando nel volto di ogni uomo e di ogni donna riconosci tuo fratello, in quel momento è iniziata l’alba!
    Questa è la speranza che possiamo e dobbiamo costruire.


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