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    Povertà e nuova

    qualità della vita

    Giannino Piana

    I guasti dell'ideologia economicista, che è alla base dello sviluppo della nostra società, emergono con sempre maggiore evidenza. A farne le spese non è soltanto il Sud del mondo, in cui cresce a dismisura il disagio economico-sociale e si acuiscono le conflittualità politiche, ma anche l'Occidente, nel quale si estendono i fenomeni di alienazione soggettiva come conseguenza di una profonda dequalificazione della vita.
    Il consumismo dilagante, oltre a mercificare le relazioni umane riducendole a pure forme di scambio, compromette gravemente lo stesso rapporto dell'uomo con la natura. La drammaticità assunta dalla questione ecologica è un sintomo allarmante dello stato di malessere ontologico in cui versa la condizione umana. La moltiplicazione dei beni economici, mentre dilata enormemente, da un lato, la sfera dei bisogni, provocando asservimento e insoddisfazione, determina, dall'altro, l'espropriazione progressiva dei beni naturali e favorisce l'avanzare di processi di inquinamento ambientale, che hanno ricadute devastanti sulla vita e sulla salute dell'uomo.

    La crisi del modello quantitativo

    La causa più immediata di questa situazione è senza dubbio di natura economica. Il sistema produttivo occidentale, ispirato ai princìpi assoluti della libera iniziativa e del libero mercato, ha esasperato le diseguaglianze tra i popoli e all'interno degli stessi popoli e ha legittimato lo sfruttamento sempre più massiccio della natura, considerata come un contenitore di risorse illimitate da utilizzare, in modo del tutto dispotico, per rispondere ai bisogni umani. La massimizzazione della produttività e del profitto come cardini irrinunciabili dell'economia e la mancanza di regole di ordine politico capaci di contenerne la pressione negativa sono alla base dell'attuale disordine mondiale, che costituisce una terribile minaccia per l'umanità presente e soprattutto futura. La spirale dello sviluppo illimitato si ritorce contro l'uomo, generando squilibri incontrollabili, che alimentano le tensioni sociali e producono la dissipazione e l'alterazione dei beni fondamentali per la vita.
    Ma non si deve dimenticare che la nascita e la crescita del sistema economico liberista sono strettamente legate all'insorgere di una mentalità e di un costume largamente diffusi, che hanno radici culturali ed antropologiche. La logica del quantitativo, in esso egemone, è la conseguenza di una concezione dell'uomo e del mondo che privilegia il fare e l'avere sull'essere. La realizzazione umana viene identificata con la semplice espansione del benessere economico e con l'acquisizione di un potere incondizionato sulle cose. L'onnipotenza soggettiva tende così a coniugarsi con l'esercizio del dominio nei confronti della realtà, ridotta a mero oggetto di conquista da parte dell'uomo. L'accumulazione dei beni e il loro consumo si trasformano in status symbols dell'identità umana: produrre di più per consumare di più è il vero obiettivo dell'esistenza, al quale viene sacrificato ogni altro valore. La mentalità produttivista e consumista coinvolge globalmente il modo di pensare e gli stili di vita quotidiani dell'uomo. Anche i rapporti umani e con la natura subiscono i contraccolpi di questo processo: essi finiscono infatti per essere assorbiti entro una prospettiva radicalmente funzionale, che li destituisce del loro significato interiore.
    A originare questa cultura del quantitativo ha concorso, in misura decisiva, l'ideologia illuminista. La fiducia illimitata nelle capacità della ragione umana ha prodotto una visione del mondo dalla quale è del tutto assente la dimensione del «mistero». La presunzione che nulla può sfuggire al controllo della ragione ha spinto l'uomo verso forme di «spiegazione» della realtà, che non lasciano spazio all'accoglienza del «diverso» e dell'«imprevedibile». La pretesa che la ricerca umana sia in grado di attingere da sola il senso delle cose rende del tutto superflua ogni forma di recettività dall'alto.
    I risultati conseguiti dalla scienza e dalla tecnica moderne alimentano una sorta di cieco ottimismo nelle possibilità dell'uomo,fino a identificare lo sviluppo umano con il progresso scientifico-tecnologico. Si fa strada perciò, e prende decisamente il sopravvento, un modello di razionalità strumentale, di matrice positivista, per il quale ciò che conta non è tanto l'approccio gratuito alla realtà per coglierne gli aspetti più profondi, ma piuttosto il calcolo e la misurazione quantitativa delle sue potenzialità in vista della sua permanente trasformazione. La conoscenza non è più fine a stessa; è invece del tutto funzionale all'esercizio del potere da parte dell'uomo. Il criterio utilitaristico diviene il metro ultimo di misura dell'agire umano. L'economicismo, che esalta la produttività e il consumo come parametri fondamentali della crescita umana, ha qui il suo vero radicamento. Esso è frutto di una cultura dell'efficienza mercantile, che si estende dall'ambito dell'economico a tutti gli altri aspetti dell'esperienza umana.
    Questo modo di pensare e di sentire, proprio dell'uomo moderno, manifesta oggi fortunatamente tutta la sua precarietà. La perdita di identità soggettiva, dovuta ai processi di massificazione sociale e di omologazione culturale, genera profondi disturbi comportamentali. Il linguaggio logico-matematico inaridisce le relazioni umane. L'accostamento puramente strumentale alla natura impedisce di penetrarne le dimensioni più nascoste, mentre l'accelerazione crescente del ritmo della vita altera la stessa percezione del tempo, trasformandolo in un succedersi di «istanti>, tra loro separati, dunque privati di una trama reale di senso. Lo stato generalizzato di disagio esistenziale evidenzia i limiti strutturali del modello quantitativo, mettendone sotto processo i meccanismi soggiacenti fondati sulle dinamiche del possesso e del dominio.

    La domanda di una nuova qualità di vita

    La ricerca di una nuova qualità di vita è proprio per questo uno dei temi dominanti dell'attuale congiuntura culturale. I vari movimenti di cambiamento sociale che si sono sviluppati in questi ultimi vent'anni - da quello femminista a quello ecologico, da quello pacifista a quello per i diritti umani - sono in definitiva accomunati da questo obiettivo. Essi denunciano infatti la situazione di pesante conflittualità e di malessere in cui l'uomo vive e sottolineano l'urgenza del ricorso a nuovi valori, capaci di interpretare le vere esigenze della promozione umana.
    La nozione di «qualità della vita» non è univoca. Diverse e di diversa natura sono le istanze ad essa riconducibili. Ma il denominatore comune che sembra ricomprenderle è rappresentato dalla necessità di dar vita a un nuovo e più armonico tessuto relazionale, che garantisca piena espressione all'esperienza umana. Qualità della vita significa dunque qualità dei rapporti dell'uomo con se stesso, con gli altri e con il mondo. L'odierna alienazione dell'uomo è infatti la risultante della mortificazione delle relazioni umane. La società tecnologica, mentre amplifica, da un lato, gli spazi della comunicazione, vanifica dall'altro la qualità del comunicare.
    La possibilità di fuoriuscita da questa situazione è anzitutto legata a un radicale mutamento strutturale. L'economia capitalistica occidentale ha ormai ampiamente rivelato le sue carenze. Il libero mercato da solo non basta: è necessario fare seriamente i conti con le risorse naturali e umane, se si vuole promuovere un corretto ordinamento economico-sociale. Le leggi, che hanno guidato lo sviluppo del sistema economico liberista tuttora egemone, risultano non solo eticamente ingiuste, ma anche economicamente improduttive. Allo squilibrio, prodotto dalle diseguaglianze tra paesi sviluppati e paesi sottosviluppati, si assomma lo sperpero delle risorse naturali, alcune delle quali non rinnovabili, e l'alienazione di beni essenziali per la vita, quali l'aria, l'acqua e la terra. È assolutamente necessario – e sono in molti ad avvertirlo – procedere alla elaborazione di un nuovo sistema, che integri le esigenze della produzione con una seria attenzione agli aspetti qualitativi della vita.
    L'intreccio tra responsabilità economiche e responsabilità politiche è qui evidente: un nuovo ordine economico internazionale non può nascere senza una precisa volontà politica, che si concretizzi nel riconoscimento di un'autorità mondiale super partes, mossa esclusivamente dall'interesse per il bene reale dell'umanità.
    Ma al mutamento strutturale deve congiungersi un radicale rinnovamento delle coscienze. Lo sviluppo del modello quantitativo è certo ancorato ai meccanismi del sistema capitalistico, ma è anche la conseguenza di una dilatazione dei bisogni che viene dal basso, anche se spesso artificiosamente pilotata dai centri del potere economico. Si crea in tal modo uno stato di reciproca complicità, che dà luogo a un circolo vizioso, che deve essere spezzato. Il discernimento tra bisogni autentici e bisogni inautentici, e più ancora tra bisogni e valori, è l'unica strada percorribile per ricuperare la dimensione qualitativa delvivere. È come dire che è essenziale sottoporre a vaglio critico il desiderio umano, proiettato verso obiettivi illimitati, per distinguere in esso ciò che vi è di autenticamente liberante e ciò che è invece destinato a provocare nuove e più pericolose forme di espropriazione della dignità umana.
    La dimensione etica e spirituale acquista, in proposito, grande importanza. Le domande fondamentali sul senso della vita non possono essere eluse, così come non si può ignorare la riflessione sui valori che concorrono alla sua definizione. Il ricupero della qualità della vita comporta la restituzione del primato all'essere sul fare e sul possedere, perciò l'assimilazione di quei valori che incrementano nell'uomo il desiderio di potenziare la sua identità umana, conferendo unità interiore alla sua esistenza nel mondo.

    L'orizzonte della gratuità e del mistero

    La povertà evangelica è uno di questi valori; anzi può essere considerata come il valore determinante di ogni progetto teso a modificare in senso qualitativo la vita. Nel discorso della montagna la povertà non è infatti soltanto la prima delle beatitudini, ma – secondo l'interpretazione di molti esegeti – la sintesi di esse, in quanto tutte le altre possono essere ricondotte ad ulteriori e particolari sfaccettature di essa.
    Il concetto cristiano di povertà va tuttavia precisato. Nella Bibbia esso si presenta con connotati ambivalenti: vi è una povertà negativa, che è maledizione, e una povertà positiva, che è benedizione. La prima coincide con la miseria come assenza di beni fondamentali per la sussistenza o per lo sviluppo dignitoso della vita, provocata dalla pigrizia personale o dall'ingiustizia degli altri; la seconda è, invece, costituita da una situazione di precarietà esistenziale e di mancanza di potere, che, sottraendo l'uomo alla propria autosufficienza, lo apre all'attesa di una salvezza che può venire solo da Dio. I poveri di Jahvè sono nell'Antico Testamento uomini e donne che vivono in una condizione di sottomissione e di dipendenza e che, proprio per questo, coltivano la speranza della liberazione messianica.
    La povertà, nella sua accezione positiva, implica dunque l'intreccio di uno status sociologico con un'attitudine religiosa. La limitazione dei beni economici e del potere sociale è condizione necessaria per l'assunzione di un atteggiamento di abbandono a Jahvè e di totale apertura al suo progetto.
    Questo intreccio emerge con chiarezza anche nel Nuovo Testamento. Gesù proclama «beati» coloro che, avendo rinunciato a riporre le loro aspettative nei beni terreni e nel potere mondano accolgono il suo messaggio e lo seguono (Lc 6,20). La dizione «poveri in spirito» (Mt 5,3) non deve essere fraintesa. Non si tratta dell'esaltazione della povertà «spirituale» contrapposta a quella «materiale», ma della sottolineatura del primato dell'aspetto interiore, strettamente connesso però a uno stato di limitazione dei beni economici e del potere. I «poveri in ispirito» – è questa la felice interpretazione di J. Dupont – sono coloro che accettano positivamente la loro condizione di precarietà, trasformandola in occasione di salvezza. Lo status sociologico, pur essendo un irrinunciabile punto di partenza, rinvia tuttavia a un atteggiamento interiore, connotato dall'adesione senza limiti al disegno divino.
    La conferma della verità di questa concezione risulta evidente anche dai motivi di condanna della ricchezza (Lc 6,24). Il giudizio severo che il vangelo esprime nei confronti di chi accumula in modo smisurato beni materiali, non è motivato soltanto dalla violazione della giustizia – la ricchezza genera povertà negativa –, ma soprattutto dal prodursi nell'uomo di un'attitudine di autosufficienza, che conduce all'indurimento del cuore e all'idolatria. La ricchezza determina il ripiegamento totale dell'uomo su se stesso: ripiegamento che gli impedisce la doverosa attenzione alle esigenze degli altri e l'apertura al mistero di Dio.
    La povertà evangelica ha perciò anzitutto una dimensione verticale: chiama cioè direttamente in causa il rapporto dell'uomo con Dio. Considerata sotto questo aspetto essa coincide, in qualche modo, con la fede. Il povero è colui che, non presumendo di sé, non contando sulle proprie forze e sul proprio potere, abbandona ogni forma di autogiustificazione e si dispone ad accogliere l'intervento gratuito di Dio.
    Questa attitudine interiore, che è in definitiva dono dall'alto, affonda le sue radici in un preciso substrato antropologico. La povertà implica infatti da parte dell'uomo il riconoscimento del proprio limite e della propria finitezza creaturale e insieme la percezione della propria grandezza e del proprio bisogno di assoluto e di infinito. La ragione umana deve rinunciare alla tentazione della totalità ideologica o di una lettura esclusivamente utilitaristica della realtà per accedere al regno della gratuità e del mistero. La fede non è tanto un andare dell'uomo verso Dio, ma un accogliere Dio che viene. La povertà crea le condizioni per questa accoglienza: essa determina lo sviluppo di un atteggiamento di recettività, che non è passività, ma capacità di fare spazio agli altri e all'Altro. La consapevolezza della propria precarietà, lungi dall'essere impedimento alla conquista della propria identità, è invece la via di accesso all'alterità attraverso la quale l'uomo ricupera la sua più radicale verità. L'ascesi del ricevere non annulla lo sforzo umano, non mortifica il compito della ragione chiamata a dare responsabilmente risposta agli interrogativi dell'esistenza quotidiana. Comporta piuttosto l'adozione di un modello di razionalità aperta: una razionalità simbolica, evocativa, che non pretende di tutto spiegare, ma, riconoscendo la propria insufficienza, si dispone a un'interpretazione della realtà che si realizza soltanto nell'incontro comunionale. Le relazioni umane e lo stesso rapporto con la natura acquisiscono tutto il loro spessore quando l'uomo abbandona la logica del possesso per lasciarsi fare e possedere, entrando nel dinamismo di una «comprensione» che è fusione di significati diversi e reciprocamente arricchentisi.
    La fede, nella sua natura più intima, non è adesione concettuale a un sistema di verità o di valori astrattamente definiti; è incontro con una Persona che sconvolge i progetti umani e dischiude alla vita dell'uomo l'orizzonte del senso ultimo. La povertà cristiana è una virtù rivoluzionaria perché, introducendoci nel mondo dell'assoluto, ci abilita a sentire e a vivere in modo nuovo le relazioni con gli altri e con le cose nella prospettiva della gratuità e del dono incondizionato.

    La società conviviale

    La dimensione verticale della povertà evangelica si riflette dunque immediatamente anche sul terreno storico-mondano. Il necessario riferimento a un preciso status sociologico conferma l'importanza della dimensione orizzontale. La povertà non deve essere tuttavia confusa, al riguardo, con il rifiuto dei beni economici o con una sorta di ascetismo fine a se stesso. Il cristianesimo si oppone radicalmente sia al manicheismo che al masochismo. I beni della terra sono «dono buono» del Dio creatore elargiti all'uomo, perché ricavi da essi la possibilità della propria crescita umana. Dio vuole che l'uomo attinga la piena realizzazione di sé. Il disprezzo per le cose di questo mondo è oltraggio alla sapienza divina da cui esse provengono. La miseria è maledizione perché impedisce all'uomo di diventare ciò che Dio lo ha voluto fin dall'inizio: un soggetto intelligente e libero chiamato a gestire responsabilmente il creato.
    La vera povertà coincide perciò con un uso moderato dei beni, che tiene in seria considerazione il quoziente reale delle risorse naturali e la necessità di una loro equa distribuzione tra gli uomini. Essa comporta, in altre parole, l'adozione di stili di vita improntati all'austerità e alla limitazione dei bisogni soggettivi. La terra è data a tutti gli uomini, perché ciascuno possa trovare in essa ciò che è necessario per la soddisfazione delle proprie esigenze autentiche. Il diritto di proprietà non è un diritto assoluto: deve essere subordinato al superiore principio della destinazione universale dei beni.
    D'altronde, la limitazione del bisogno soggettivo non è esigita soltanto dalla necessità del rispetto dei bisogni altrui, ma è anche imposta dal rispetto della vera promozione umana. Il fatto che bisogni e valori non siano perfettamente coincidenti, che anzi esistano - soprattutto nella nostra società consumista - bisogni indotti dalla pressione sociale, e perciò negativi, impone all'uomo una permanente vigilanza nei confronti del desiderio. La misura della realizzazione umana non è data dalla risposta immediata alle sollecitazioni istintuali, ma dalla messa in atto di un discernimento critico, che ha le sue radici nell'istanza etica, cioè in una visione integrale e gerarchizzata del bene umano. Il criterio quantitativo deve essere pertanto integrato con criteri qualitativi, che definiscono lo sviluppo armonico dell'uomo in tutti i suoi aspetti.
    In questo senso la povertà concorre alla riqualificazione della vita: attraverso di essa è infatti possibile accedere all'unità della persona, senza per questo rinnegare la molteplicità e la diversità dei livelli che la costituiscono. La vocazione dell'uomo è diventare ciò che egli è mediante l'esercizio di scelte che comportano la rottura con altre possibilità di scelta. La vera libertà non è pura assenza di condizionamento, una sorta di libertinismo selvaggio disancorato da qualsiasi riferimento valoriale. È «libertà per», fondata sulla struttura ontologica dell'uomo e finalizzata al suo pieno compimento.
    La povertà, così concepita, è in definitiva espressione di un atteggiamento interiore, dove alla logica del possesso si sostituisce quella della comunione interpersonale e della condivisione delle cose. L'appropriazione esclusiva e totalizzante dei beni, che ha trovato la sua traduzione sociale nella sacralizzazione del diritto di proprietà privata, sul quale si basa l'ordinamento economico liberista, è la conseguenza di una concezione individualistica dell'uomo e dell'affermazione del primato dell'avere sull'essere. L'assolutizzazione del diritto individuale crea inevitabilmente conflittualità e violenza; mentre l'ingordigia dell'avere impedisce all'uomo l'accesso alle dimensioni più profonde della sua natura, non consentendogli di conseguenza una vera attuazione di sé. Chi fa del possesso delle cose la ragione della sua esistenza è alla fine posseduto da esse. La ricchezza, anziché favorire una migliore espressione di sé, si trasforma in schiavitù che opprime.
    Le relazioni umane e lo stesso rapporto con la natura vengono espropriati del loro significato interiore. Il superamento dell'individualismo egocentrico è la condizione per ricuperare la dimensione comunionale della realtà. La vita dell'uomo può dispiegarsi positivamente solo nel quadro di una rete di relazioni, che consente ad ognuno di acquisire la propria identità. L'altro non è un nemico che attenta alla mia possibilità di realizzazione; è colui che, in ragione della sua diversità, mi offre la possibilità di sviluppare la mia diversità. La costitutiva relazionalità, che definisce l'essere dell'uomo, implica che l'esistenza umana si articoli in un fecondo interscambio, che dà luogo allo sviluppo di una reciprocità arricchente segnata dal disinteresse e dalla gratuità.
    Anche le cose del mondo vanno integrate in questo orizzonte comunionale. La natura non è un semplice contenitore di materiali da sfruttare indiscriminatamente per soddisfare ogni esigenza umana; è anche e soprattutto l'habitat entro il quale si dispiega e riceve il suo senso la vita dell'uomo; è una riserva di significati simbolici destinati ad arricchire il mondo interiore dell'uomo. L'accostamento ad essa non deve dunque avvenire nell'ottica del puro dominio, ma dell'integrazione e della reciproca solidarietà. È come dire che la tendenza al possesso senza condizioni deve lasciare il posto a uno sguardo contemplativo, che ci permette di penetrare l'al di dentro delle cose e di essere sospinti verso l'al di là di esse. Lo stupore e la meraviglia per la bellezza del creato rinviano infatti al Creatore e suscitano nell'uomo il bisogno del rendimento di grazie.
    La povertà opera dunque un radicale rinnovamento delle relazioni interumane e con il mondo come conseguenza del ricupero della relazione fondamentale: quella che lega indissolubilmente l'uomo alla sua origine, il mistero di Dio. Visti nella prospettiva della comunione creaturale i beni della terra appaiono come realtà da compartecipare, da condividere. Nessuno può essere padrone assoluto di ciò che è dato a tutti; ciascuno deve farsi amministratore oculato delle cose ponendole al servizio della propria e dell'altrui liberazione. È questo il cammino da percorrere per restituire qualità alla vita. L'avere e il fare vengono infatti relativizzati alla ricerca dell'essere; una ricerca che ha il suo epicentro nell'approfondimento delle relazioni umane, nel rifiuto dell'egocentrismo per aprirsi radicalmente al dono di sé: chi perde la propria vita la troverà.
    La povertà è spogliamento di sé sorretto dalla consapevolezza che la verità del proprio essere emerge soltanto laddove si realizza pienamente l'incontro. La figura che esprime compiutamente il senso della comunione interpersonale e della condivisione delle cose è quella della convivialità. Il banchetto è, per definizione, il luogo della comunicazione umana e dello scambio dei beni: attorno ad esso ci si ritrova per cementare la comunione, mentre ciò che su di esso è deposto non è proprietà esclusiva di alcuno, ma deve essere compartecipato. Lo stile conviviale è ciò a cui tende, in definitiva, la povertà: esso consente di superare i conflitti negativi che dequalificano la vita e che hanno spesso la loro origine nel desiderio sfrenato di possedere l'altro e le cose.
    Non è senza significato che il sacramento in cui si condensa la novità dell'esperienza cristiana, l'eucaristia, sia stato da Gesù istituito proprio sotto la forma del banchetto. La Pasqua, di cui in esso si fa «memoria», è la sorgente ultima della convivialità. Celebrando la morte e la risurrezione del Signore, il credente proclama la venuta del regno e insieme si impegna a renderne trasparente nella storia la forza liberatrice. La convivialità eucaristica – come ci ricorda il libro degli Atti (2,42-47; 4,32-35) – deve infatti riflettersi in una convivialità vissuta nel segno della comunione fraterna e della condivisione dei beni. Nella rinuncia a se stessi per accettare la logica del dono assoluto, i rapporti umani e con le cose vengono radicalmente trasformanti, e la vita ritrova il suo senso e la sua qualità.


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