Non esiste
un tempo profano
Inos Biffi
Quando un nuovo anno incomincia a snodare i suoi giorni, un cristiano trova l’opportunità per alcune considerazioni suggerite dal suo senso religioso e dalla sua fede. Anzitutto egli osserva che, a rigore, non esiste un tempo profano, ma che esso è intimamente religioso. Ogni istante rimanda radicalmente a Dio; ogni momento di esistenza lo richiama, quale unica e imprescindibile fonte dell’essere.
Il nostro esserci, come l’esserci di ogni cosa, proviene sempre da Colui che è l’Essere in pienezza, e che lo può elargire. Possiamo inoltrarci nel tempo e divenire - e il tempo non è altro che la misura del divenire -, soltanto perché Dio, l’Atto Puro, ci crea e ci conserva nell’essere. Volgendo lo sguardo su di noi, ci imbattiamo nella nostra radicale contingenza e precarietà. L’essere non ci appartiene come risorsa originaria. Basta usare la retta ragione, per avvertirlo. Per questo abbiamo detto che non esiste il tempo profano, inteso come indipendente da Dio. Nativamente, ci appartiene il non essere, il nulla, in cui saremmo immediatamente risucchiati, se a sostenerci non fosse l’incessante liberalità divina che vince quel nulla col dono dell’essere. Una filosofia che non lo riconosca, confessa la sua totale debolezza. D’altronde, va riconosciuto che la ragione si trova percorsa da incertezze e avvolta da nebbiosità. In particolare, essa rimane confusa di fronte alla irrimediabilità della morte e muta dinanzi alla domanda sul fine ultimo. Le perplessità sono sciolte con la visione di fede, che ascolta e accoglie la Parola di Dio. Chi crede è sicuro che i giorni sono accompagnati personalmente dal Signore, il Creatore del tempo, che li sostiene con il palmo della sua mano. È certo che nessun uomo è trascurato e lasciato solo; che tutti sono destinati e attesi per la gloria, che sorgerà e si manifesterà allo sfacelo di tutto quello che è precario e provvisorio. Il credente entra nel corso dei giorni, sapendo che essi sono percorsi da una trama misteriosa di grazia, anche se ancora non gli appare evidente il senso preciso degli eventi che lo riguardano e delle vicissitudini che lo circondano e che intessono la storia. Egli è trepido, ma non angosciato o disperato. Anzi, il suo smarrimento è oltrepassato dall’affidamento a Colui che ha promesso di essere con i suoi «sino alla fine del mondo» (Matteo, 28, 20). Senza dubbio, il cristiano sente il pungente declinare del tempo, ma non ne rimane depresso. Al contrario, avverte quel tramonto come l’avvicinarsi di un “temp o” nuovo. Il pensiero va a una bellissima poesia di Newman, The trance of time, composta a Highwood, nell’ottobre del 1827. Egli ricorda l’infanzia, quando, «con occhi splendenti», contemplava «l’anno ripartito in stagioni», che «venivano e andavano» e intrecciavano «la loro varia danza»: la primavera, che «cantava del cielo»; i «fiori dell’estate», che lo «invitavano a contemplarli, e non appassivano»; mentre «anche il sole sopra le pergole d’autunno ascoltava» il suo «desiderio ardente, e si fermava». Ma quegli anni sono passati. E «tutto è diverso ora», costata il poeta: «l’anno vorticoso / inseguono invano gli occhi miei storditi / e i suoi bei colori appaiono / tutti confusi in una tinta oscura». Da qui il sorgere della domanda: «Perché soffermarsi nelle ricche luci autunnali, / sul tempo di primavera, o sui crocchi sociali d’inverno? I lunghi giorni son notti da focolare, / l’autunno nebbioso è fresca primavera»; «Che vale allora questo mondo, cuore mio, per te? / I suoi doni non ti saziano né ti possono far felice»; «Tu non hai parte di proprietà / in tutta la sua fuggevolezza. / La fiamma, la tempesta, il terremoto, / la gioia ed il terrore della terra, nulla è tuo»; «tu devi solo udire il suono/ dell’immutabile voce divina»: l’unica realtà a non variare. Anche se tutto fluttua, e «il senso della mutabilità ci opprime», è «arte inestimabile» «sapere interiormente anticipare / la Stagione celeste del riposo senza tema» (traduzione Obertello): un anticipo che non ci disanima né ci impigrisce; che non ci porta a disprezzare le stagioni temporali, ma, mentre ci attrae, ci stimola a non lasciarci impigliare nei loro lacci e a non cedere ai loro ingannevoli richiami. La liturgia cristiana, proprio per impreziosire il tempo e per sottolineare che esso è seguito da Cristo, ha fissato nel ritmo della giornata i suoi appuntamenti oranti, attingendo incitamento e motivi dalle suggestioni simboliche delle diverse ore: le tenebre notturne, la luce dell’aurora, l’irraggiare del sole, il suo tramonto. Esse ispirarono la poesia degli inni della Chiesa, tra i quali risaltano, per la loro arte insuperata, quelli di sant’Ambrogio al canto del gallo, all’aurora, all’ora terza e all’accensione serale delle lampade. Vivere nel tempo per un cristiano significa vivere aspettando - come dice l’ultimo degli appassionati Inni alla Chiesa di Gertrude von Le Fort (traduzione Paoli) - «la fine di tutti i misteri»: «quando colui che è nascosto balenerà»; «quando la nostalgia contenuta della sua Creazione giubilerà»; «quando i millenni arretreranno come aquile e le schiere degli eoni torneranno all’Eternità»; «quando i vasi dei linguaggi s’infrangeranno e le acque trascinanti dell’Indicibile si precipiteranno»; «quando le anime più solitarie verranno alla luce e trasparirà tutto quello che nessuna sapeva di sé». «Allora il Disvelato solleverà la mia testa e sotto il suo sguardo i miei veli si dilegueranno in fiamme»; «E gli astri riconosceranno in me la loro luce lodante, i tempi quel che avevano d’eterno e le anime quel che avevano di Dio». È con questa incrollabile speranza che il cristiano riprende il suo viaggio.