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    Nel centenario della nascita: Simone Weil, la vergine sporca


    Nel centenario della nascita

    Simone Weil, la vergine sporca

    (Parigi, 3 febbraio 1909 – Ashford, 24 agosto 1943)

    Maurizio Schoepflin 

    Comunista a dieci anni, operaia in fabbrica, filosofa amante di Platone, Simone Weil fu profetessa di un cristianesimo senza Bibbia e senza chiesa Sfiorò il suicidio a tredici anni, evitava qualunque contatto fisico e soffriva di anoressia. Una vita e un pensiero segnati dal dolore. Non è da tutti dichiararsi convintamente bolscevichi all’età di dieci ‘anni; come non capita di frequente di essere battezzati in articulo mortis da un’infermiera con l’acqua del rubinetto in un sanatorio; e non è certamente usuale alternare lo studio del sanscrito alla vendemmia. In effetti, non vi fu nulla di comune nella vita di Simone Weil, la celebre pensatrice parigina della quale quest’anno ricorre il primo centenario della nascita.

    Si potrebbe infatti continuare a lungo a elencare eventi e situazioni che fecero dell’esistenza di questa ebrea francese un unicum: il suicidio sfiorato a tredici anni, il rifiuto maniacale del contatto fisico, lo sfibrante lavoro in fabbrica con in tasca il diploma di studi superiori conseguito alla Scuola normale, la partecipazione alla Guerra civile spagnola, il mal di testa che non l’abbandonò mai, l’elaborazione di un progetto ­- giudicato realisticamente folle dal generale De Gaulle - per la creazione di un corpo di infermiere da collocare in prima linea al tempo della Seconda guèrra mondiale, l’anoressia che aggravò in modo irrimediabile la tubercolosi, conducendola alla tomba a soli trentaquattro anni. Un elemento sembra comunque caratterizzare la vita e l’opera della Weil ed è la straordinaria presenza del dolore: dolore provato in prima persona, dolore “contemplato” negli altri, dolore da guarire ma anche da amare e da condividere, come insegna il cristianesimo, la religione che Simone predilesse proprio perché pone al centro la Croce, strumento di inaudita sofferenza e nel contempo di guarigione e di salvezza. Ella stessa ci fa sapere che non la Domenica di Pasqua, ma il Venerdì Santo costituiva il suo punto di riferimento, perché è sul Calvario che il Figlio di Dio assume pienamente la condizione umana, che è, soprattutto, condizione dolorosa. Della sofferenza la Weil colse subito la dimensione sociale: risale al 1934 la stesura del saggio “Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale”, nel quale si legge la seguente aspra descrizione della società del tempo: “Mai l’individuo è stato così completamente abbandonato a una collettività cieca, e mai gli uomini sono stati più incapaci non solo di sottomettere le loro azioni ai loro pensieri, ma persino di pensare. I termini di oppressori e di oppressi, la nozione di classe, tutto ciò sta perdendo ogni significato, tanto sono evidenti l’impotenza e l’angoscia di tutti gli uomini dinanzi alla macchina sociale diventata una macchina per infrangere i cuori, per schiacciare gli spiriti, una macchina per fabbricare incoscienza, stupidità, corruzione, ignavia, e soprattutto vertigine. La causa di questo doloroso stato di cose è molto chiara. Viviamo in un mondo dove nulla è a misura dell’uomo: c’è una sproporzione mostruosa tra il corpo dell’uomo, lo spirito dell’uomo e le rose che costituiscono attualmente gli elementi della vita umana; tutto “squilibrio”. Alla luce di queste drammatiche considerazioni, ben si comprende perché la Weil si sia vivamente interessata al marxismo: il forte appello, in esso contenuto, al cambiamento del mondo e all’instaurazione di una società giusta non poteva non affascinarla. In lei, come è stato giustamente notato, vita e pensiero si intrecciano in maniera inestricabile, e non casuale risulta la coincidenza temporale fra la stesura delle “Riflessioni” e la scelta di avvicinarsi concretamente al mondo operaio, fino a lavorare nei reparti più impegnativi di varie fabbriche, l’ultima delle quali fu la Renault, dove questa “vergine sporca”, avida di “dare la sua vita e il suo sangue alla causa dei diseredati” - così apparve Simone agli occhi di George Bataille -, prestò servizio come fresatrice. Ben presto, però, l’attrazione verso l’ideologia marxista venne meno e la Weìl criticò aspramente l’ideologia comunista, cogliendone con grande lucidità le contraddizioni e i fallimenti che, a meno di vent’anni dalla Rivoluzione d’ottobre, già si erano resi drammaticamente evidenti nell’Unione Sovietica di Stalin. Sarebbe errato pensare che le critiche weiliane al marxismo abbiano una tonalità esclusivamente emotiva: la Weil, come per primo riconobbe il suo maestro Alain, era dotata di notevole rigore e non esitò a sostenere che, proprio al contrario di ciò che pretende di essere, il marxismo si dimostra profondamente carente di un autentico spirito scientifico, soprattutto laddove assume le sembianze di un provvidenzialismo che profetizza la fine ineluttabile di ogni ingiustizia. Non sarebbe corretto affermare che la delusione del marxismo spinse la Weil verso la religione, perché il suo interesse per essa risaliva agli studi giovanili di filosofia che l’avevano messa in contatto con la dimensione religiosa dell’esperienza umana, quella dimensione che ella stessa sperimentò in maniera che non è esagerato definire sconvolgente. L’infatuazione per il marxismo durò poco e lasciò spazio a una critica rigorosa. Intanto, si era già avvicinata alla religione A questo proposito, alcune vicende da lei vissute risultano molto eloquenti: il primo viaggio in Italia, nel 1937, che le permette l’incontro diretto con l’incomparabile bellezza dell’arte cristianamente ispirata e che, ad Assisi, le fa vivere per la prima volta l’ebbrezza di inginocchiarsi in preghiera; la Pasqua del 1938, trascorsa nella celebre abbazia benedettina di Solesmes, culla del canto gregoriano, quando, per sua stessa ammissione, il pensiero della Passione di Cristo le entra definitivamente nell’animo e dove fa la conoscenza di angel boy, un giovane cattolico inglese, il cui volto radioso le comunica lo splendore dell’incontro eucaristico con il Signore; e poi le riflessioni costanti e appassionate sull’opportunità o meno di entrare ufficialmente nella chiesa di Roma, le feconde amicizie con il padre domenicano Jean-Marie Perrin e con il filosofo cattolico Gustave Thibon, la lettura continua dei testi delle grandi religioni, la simpatia per i catari, ultimi testimoni di un cristianesimo puro, l’interesse per Marcione, il famoso eretico sostenitore dell’esistenza di una Rivelazione cristiana che prescinde dalla storia di Israele. Se sulla piena adesione della Weil al cristianesimo gli studiosi discutono ancora, nessuno può mettere in dubbio la sua appassionata vicinanza al messaggio e alla persona di Gesù di Nazaret, da lei considerato come l’unico autentico fratello e salvatore dell’uomo sofferente. Nel 1935, in un povero villaggio di pescatori portoghesi, Simone assiste a una festa caratterizzata dalla struggente malinconia di alcuni canti intonati da un coro di donne. e in quel frangente si radica nel suo cuore una convinzione tanto forte quanto drammatica: “Ho avuto all’improvviso la certezza — scriverà più tardi, ricordando quella singolare vicenda — che il cristianesimo è per eccellenza la religione degli schiavi, che gli schiavi non possono non aderirvi, e io con loro”. Il Cristo di Simone Weil è il servo sofferente di YHWH, che si fa carico del dolore dell’intera umanità ed è l’unico in grado di rispondere agli interrogativi più tragici che sgorgano dal cuore dell’uomo proprio in virtù del fatto che ha condiviso la pesantezza dell’umana condizione. Come ha ben visto Marco Vannini, questa predilezione per il Christus patiens spinge la Weìl verso una mistica dell’abbandono, del distacco e della debolezza. E’ su questa linea che va a collocarsi pure la sua distanza critica dalla concezione che Israele ebbe di Dio: tranne poche eccezioni, nella Bibbia ella trova l’immagine di una divinità che fa della forza la sua caratteristica principale, il Signore degli eserciti che spinge il popolo eletto alla conquista e alla sottomissione di altre genti. A questo proposito, si legge in uno dei Quaderni weiliani: “Il totalitarismo è un surrogato del cristianesimo. La cristianità è diventata totalitaria, conquistatrice e sterminatrice, perché non ha sviluppato la nozione dell’assenza e della nonazione di Dio quaggiù. Si è attaccata a Yahweh così come al Cristo, ha concepito la Provvidenza alla maniera dell’Antico Testamento. Solo Israele poteva resistere a Roma, perché le rassomigliava, e così il cristianesimo nascente portava la macchia romana ancora prima di diventare la religione ufficiale dell’Impero. Il male fatto da Roma non è mai stato realmente riparato”. Alla radice ebraica del cristianesimo la Weil oppone quella greca e ravvisa una continuità positiva fra la grande sapienza ellenica - quella del sommo Omero e dell’amatissimo Platone - e il Vangelo. In questo contesto, non meraviglia neppure la posizione duramente critica da lei assunta nei confronti della chiesa: ai suoi occhi, l’istituzione ecclesiastica è del tutto inutile al fine di stabilire un contatto salvifico con Gesù Cristo; anzi, essa rappresenta una indiscutibile testimonianza della corruzione del cristianesimo, che si è trasformato in religione della forza e della visibilità. Afferma a questo riguardo la Weil: “Se chiunque muore fuori della chiesa è dannato, il potere della chiesa può essere assai più totalitario di quello dell’Impero”. “Il cristianesimo è per eccellenza la religione degli schiavi, gli schiavi non possono non aderirvi, e io con loro” La pensatrice parigina è per altro convinta che in ogni religione ci sia un seme di verità e che in ogni fede sia presente in modo misterioso un frammento di Cristo. Il suo è dunque un cristianesimo senza Bibbia e senza chiesa, al centro del quale sta il Dio della kenosis, della spoliazione e dell’abbassamento totali: “Nessuno va a Dio creatore e sovrano senza passare per Dio svuotato della sua divinità. Dobbiamo svuotare Dio della sua divinità per amarlo. Egli si è svuotato della sua divinità diventando uomo, poi della sua umanità diventando cadavere (pane e vino), materia”. Sulla base di queste convinzioni, la Weil colse importanti e significative analogie tra il cristianesimo e le grandi filosofie della necessità, quali lo stoicismo e lo spinozismo: credere che tutto ciò che è deve essere e liberarsi della propria soggettività che pretende di dettare le regole al mondo sono, a suo giudizio, due scelte fondamentali per vivere secondo uno spirito autenticamente cristiano. Si tratta di accettare ogni cosa, anzi di amare ogni cosa, persino l’infelicità: “Si rimprovera spesso al cristianesimo — scrive la Weil — una compiacenza molle nei confronti della sofferenza e del dolore. E’ un errore. Il fulcro del cristianesimo non è tanto il dolore e la sofferenza, sensazioni e stati d’animo in cui è sempre possibile gustare una voluttà perversa, quanto l’infelicità. L’infelicità non è uno stato d’animo. E’ una polverizzazione dell’anima dovuta alla brutalità meccanica delle circostanze. La degradazione che un uomo subisce di fronte a se stesso, passando dallo stato umano a quello di un verme schiacciato che si agita sul terreno, non è cosa di cui possa compiacersi nemmeno un pervertito; tanto meno un saggio, un eroe o un santo. L’infelicità è ciò che s’impone ad un uomo suo malgrado. Essa ha per essenza e per definizione l’orrore e la ribellione di tutto l’essere di colui del quale essa s’impadronisce. A tutto questo bisogna acconsentire per mezzo dell’amore soprannaturale”. Il cristianesimo - meglio sarebbe dire il Cristo - a cui guarda la Weil non ha niente a che vedere con organizzazioni o strutture (“L’amore per ciò che è fuori del cristianesimo visibile mi tiene fuori della chiesa”, scrive all’amico padre Perrin): si tratta di un messaggio scabro, privo di qualsiasi orpello, ridotto all’immagine di un legno da cui pende il corpo di un povero crocifisso sanguinante. L’adesione a esso richiede, come spesso hanno avvertito i mistici, la rinuncia radica l’annullamento di sé. Ma che altro sono questi atteggiamenti se non la realizzazione radicale dell’amore cristiano? Scrive la Weil: “Noi siamo la crocifissione di Dio. La mia esistenza crocifigge Dio. Come noi amiamo un dolore intollerabile perché Dio ce lo manda, così è di questo stesso amore, trasposto dall’altro lato del cielo, che Dio ci ama. L’amore di Dio per noi è passione. Come potrebbe il bene amare il male senza soffrire?.., La crocifissione di Dio è cosa eterna... Se nella comunione il dolore di Dio è gioia per noi, non si deve pensare che il nostro dolore, quando è pienamente accettato, è gioia in Dio? Ma perché esso diventi gioia in Dio, bisogna che sia accettato nella totalità e integrità della sua amarezza”. Simone Weil chiude il cerchio delle sue riflessioni: dolore e amore si incontrano perfettamente in Cristo, e in ciò la religione cristiana si presenta nella sua purezza originaria, ma anche nella sua durezza, simile a quella di un diamante tagliente, di una lama affilata che cura chirurgicamente l’animo umano incidendolo nel profondo. Simone Weil non cercò mai per sé alcuna consolazione, né augurò agli uomini di trovarla: preferì sperimentare la sofferenza fino allo spasimo e verificare che proprio nel momento in cui si ha la sensazione di toccare il fondo dell’annientamento e della disperazione è possibile incontrare la salvezza, una salvezza che certo non assomiglia a un trionfo: “Solo per chi ha conosciuto anche solo per un minuto — ella scrive — la pura gioia e di conseguenza il sapore della bellezza del mondo (perché sono la stessa cosa), solo per quest’uomo l’infelicità è qualcosa di straziante. Nello stesso tempo solo costui non ha meritato questo castigo. Ma anche per lui non si tratta di un castigo: è Dio stesso che gli prende la mano e gliela stringe un po’ forte. Infatti, se egli rimane fedele, troverà in fondo alle sue grida la perla del silenzio di Dio... Le creature parlano con dei suoni. La parola di Dio è silenzio. La segreta parola d’amore di Dio non può essere altro che il silenzio. Cristo è il silenzio di Dio. Come non c’è albero simile alla croce, cosi non c’è un’armonia come il silenzio di Dio... La nostra anima fa continuamente del rumore, ma c’è un punto in lei che è silenzio e che noi non sentiamo mai. Quando il silenzio di Dio entra nella nostra anima, la trafigge e viene a raggiungere quel silenzio che è segretamente presente in noi, allora noi abbiamo in Dio i1 nostro tesoro e il nostro cuore”. 

    (Il Foglio, 26 settembre 2009)

     


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