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    Mistica, pienezza della vita

     

    Raymon Panikkar

     

     

    Il primo volume dell'Opera Omnia è in parte autobiografico in quanto tratta del tema più importante della mia vita, che ha ispirato in forma discreta tutti i miei scritti, così da divenirne una chiave ermeneutica indispensabile.

    La mistica rappresenta la terza dimensione che non solo dà rilievo, ma anche vita a tutte le pagine che seguiranno. Il riduzionismo dell' esistenza ai sensi o alla ragione riduce l'uomo a una semplice specie fra i vari esseri viventi: l'animale razionale. Come diremo insistentemente, la vita umana (la zoe) non è la sua biologia (il biòs). L'uomo non è soltanto somiglianza [...]  di Dio, Fonte, Inizio, Sorgente, Causa (equivalenti omeomorfici), ma anche immagine [. . .] della Realtà, un mikrokosmos, come dicevano gli antichi (fino a Paracelso e ai seguaci della «philosophia adepta»), che rispecchia il completo makrokosmos. La distinzione tra immagine e somiglianza è teologica più che lessicale.

    Anche se per motivi pratici abbiamo diviso il volume I in due tomi (Mistica, pienezza di Vita e Spiritualità, il cammino della Vita), occorre precisare che i due temi, mistica e spiritualità, possono essere distinti, ma non separati. Pochi temi hanno avuto una pessima reputazione in alcuni ambienti come quello della mistica, su cui, in verità, molto e male è stato scritto; se a questo tema si aggiunge quello della spiritualità, non si fa che aggravarne il malinteso.

    Forse ciò è dovuto anche al fatto che, figli del nostro tempo, abbiamo accettato acriticamente la seconda regola di Descartes e creduto che la specializzazione ci avrebbe recato «chiarezza e distinzione», confondendo l'evidenza razionale con la comprensione. A causa di questa influenza, abbiamo ridotto la mistica a fenomeni più o meno straordinari o esoterici e la spiritualità a un'educazione dello «spirito» separato, quando non in antagonismo, dal corpo, quasi l'uomo fosse solo un' anima prigioniera in un corpo, come si credeva un tempo anche nel cristianesimo, in piena contraddizione con il «dogma» della resurrezione dei corpi - emarginato a una escatologia meramente temporale. L'influenza del genio di Descartes ha continuato tuttavia a essere considerevole e la «res extensa» è stata considerata estranea alla facoltà pensante: Sto insinuando che senza il correttivo della mistica riduciamo l'uomo a un bipede razionale, quando non razionalista, e la vita umana alla supremazia della ragione.

    ***

    L’esperienza della Vita potrebbe essere la descrizione più concisa della mistica. Si tratta di un'esperienza e non della sua interpretazione, anche se la conoscenza che ne abbiamo è concomitante. Non possiamo separarle, anche se dobbiamo distinguerle. Si tratta di un'esperienza completa e non frammentaria. Ciò che spesso capita è che non viviamo in pienezza perché la nostra esperienza non è completa e viviamo distratti, a livello superficiale.

    Ne deriva che la mistica non è un privilegio di pochi prescelti, ma la caratteristica umana per eccellenza. L'uomo è essenzialmente un mistico o, se lo si considera come animale (un essere «mosso» da un'anima), un animale mistico - benché, come diremo più oltre, l'animalità (anche se razionale) non definisca l'uomo. L'uomo è più uno spirito incarnato che un vivente razionale, un animale spirituale, si potrebbe dire, se si interpreta anima secondo l'etimologia indoeuropea (aniti, colui che respira; anilab, soffio). Anima comprenderebbe in tal caso anche lo spirito.

    Riducendo all' essenza le numerose pratiche «spirituali», si chiamino meditazione, yoga, contemplazione, vipassana, tantra, jing o quant'altro, tutte ci invitano a concentrarci sull'essenziale e ad essere pienamente coscienti del fatto che siamo vivi e che viviamo questa vita nella sua pienezza, senza che le distrazioni ci «tentino». Non ogni essere umano è mediamente intelligente o normalmente sano; non tutti gli uomini sono ricchi, buoni, educati, ecc., però tutti sono vivi e hanno la possibilità di rendersene conto. Di fatto, tutti siamo consci di essere vivi - però spesso questa coscienza piena del vivere ci sfugge.

    La coscienza della nostra vita, di solito, si accompagna alla nostra interpretazione, interpretazione nel senso di genitivo oggettivo. È quindi una coscienza della nostra vita oggettivata; interpretata, vale a dire, dalle nostre categorie e giudicata a seconda di come la viviamo. Non è neanche la coscienza pura della vita stessa; non è la vita che prende coscienza di se stessa (il cit anantam, la coscienza infinita delle Upanisad) - del cui destino partecipiamo. A volte ci costa lasciare che la Vita prenda coscienza di se stessa - proprio per la superficialità cui abbiamo accennato. Questa coscienza della vita non è nostra proprietà privata, non appartiene al nostro ego; per questo la mistica ci dirà che, se non si supera 1'egoismo, se non si muore all' ego (egoista), non si può «godere» di questa esperienza - che sta in noi, ma che scompare nel momento in cui pretendiamo di impadronircene. La mistica come esperienza della Vita ha una valenza di genitivo sia oggettivo che soggettivo: l'esperienza (che abbiamo) della Vita e l'esperienza della Vita (che sta in noi).

    Fino a tempi molto recenti (e alcuni la pensano così anche oggigiorno) si è considerata la mistica un fenomeno particolare più o meno straordinario, qualcosa al di fuori della conoscenza «normale» dell' essere umano, un «qualcosa» di speciale - patologico, paranormale o soprannaturale. Gli studi ch.e ho raccolto in Mistica, pienezza di Vita aspirano a far «reintegrare» la «mistica» nell' essere stesso dell'uomo: nell'uomo spirito mistico tannto quanto animale razionale ed essere corporale. In altre parole: la mistica non è una specializzazione, ma una dimensione antropologica, un qualcosa che appartiene all' essere umano in quanto tale: Ogni uomo è mistico - anche se solo potenzialmente. La mistica autentica quindi non disumanizza. Ci fa vedere che la nostra umanità è qualcosa di più (e non di meno) della pura razionalità.

    La vita umana è ciò che unisce tutti gli uomini, ma anche li distingue. Fino al secolo scorso l'umanità credette empiricamente alla generazione spontanea; che la vita, cioè, non fosse solo quello che unisce e distingue gli uomini, ma che fosse il trascendentale assoluto dell'Essere, ciò che unisce e distingue tutto ciò che in qualche modo è. Vita ed Essere erano sinonimi - benché la Vita, come l'Essere, «si dica» in molti modi. Nel XIX secolo, con il raffinarsi dell' empeiria si credette di «dimostrare» che la vita era privilegio solo di alcuni esseri: «Omne vivum ex vivo» («Tutto ciò che vive provieene da un altro essere vivo») nacque quindi come un nuovo dogma ai tempi di Pasteur. La vita passò dunque a essere una specialità di quegli esseri definiti precisamente come vivi. La riproduzione fu considerata la caratteristica distintiva della vita e la riproduzione più palese era quella biologica, che reca con sé la morte. La grande divisione tra materia inerte ed esseri vivi ricevette un riconoscimento «scientifico». Ogni altro concetto era catalogato come magia e pensiero «primitivo». La «fisica», nonostante il suo nome, si ridusse alla materia inerte, e la vita di Dio risultava problematica, a meno che non fosse lui pure disposto a morire come ogni altro essere vivo - benché alcuni teologi si difendessero con la distinzione tra zoe e bios.

    Senza negare le differenze «essenziali» tra gli esseri né adottare acriticamente le interpretazioni di altre tradizioni, si potrebbe accettare di omologare la Vita all'Essere e di applicare l'analogia entis all'analogia vitae. Ispirandoci alla formulazione latina di origine aristotelica che identificava la vita dei viventi con il loro essere (vita viventibus est esse), si potrebbe dire esse essentibus est vita, «l'essere degli esseri è la (loro) vita». Essere è un concetto astratto, vita è una nozione immediata. Questa intuizione va nella stessa direzione della credenza tradizionale nell'anima mundi tanto di frequente mal interpretata.

    Siamo ben lontani dal mythos del secolo scorso, di cui potremmo assumere come simboli le due grandi figure di Sigmund Freud e Romain Rolland (oltre a molti altri): il primo vedeva nella mistica un fenomeno psicologico di evasione e il secondo un attributo antropologico di «sentimento oceanico». In ambedue i casi, tuttavia, la mistica si assimilava al primitivo ed estraneo al mondano. I nomi di Radhakrishnan, Dasgupta, von Hiigel, Otto, Heiler, Eliade, Lévy-Bruhl, Blondel, Bergson, Baruzi, Brémond, Guénon, James, Huxley, Ph. Sherrard, Underhill, Zaehner, ecc. rappresentano un reinserimento della mistica nel terreno della riflessione filosofica degli ultimi tempi - senza menzionare la legione di nostri contemporanei né la nozione tradizionale della Filosofia, che era essenzialmente una nozione mistica.

    Comunque stiano le cose, ci si trova di fronte a un'esperienza della Vita circoscritta a qualcosa di specificamente umano, dato che parliamo dell'esperienza (umana) della Vita. Questa esperienza completa della Vita sarebbe l'esperienza mistica nel suo aspetto più generico. Per questo la mistica è gioiosa, stando al detto secondo il quale un mistico triste è un triiste mistico. La realtà è sat (Essere), cit (Coscienza) e ananta (Infinitudine) o ananda (Felicità), dice il vedanta.

    Abbiamo scritto Vita con la maiuscola per non escludere a priori che la vita può avere altre dimensioni oltre a quelle inerenti ai suoi aspetti fisiologici e psichici. Esiste anche una vita spirituale: esiste la Vita dell'Essere e quindi, paradossalmente, anche la Vita della materia.

    In accordo a quanto detto, intendiamo per mistica questa esperienza integrale della Vita.

    Usiamo la parola «vita» invece di «realtà» perché più vicina a esperiennza. In fondo vogliamo dire la stessa cosa, però, mentre la «realtà» è un concetto che deve essere spiegato, la vita è qualcosa che sperimentiamo direttaamente; siamo esseri vivi, partecipiamo alla Vita anche se la riflessione poi ci dice che siamo esseri (viventi) che partecipano all'Essere. La nostra è l'esperienza della Vita. Pensiamo l'Essere, lo deduciamo o induciamo - al massimo lo intuiamo. La Vita la viviamo e ne siamo coscienti. Il titolo del volume sulla mistica avrebbe potuto essere «Esperienza del Vivere», ma mi è parso troppo ambiguo.

    Per una questione di chiarezza, tuttavia, ho impiegato spesso la parola «realtà» invece di Vita quando il contesto lo richieda. Questa introduzione dovrebbe essere sufficiente per definire l'orizzonte entro il quale si è mossa la ricerca. Non si tratta né di fenomeni straordinari né di elucubrazioni meramente concettuali, ma piuttosto di un approccio al problema fondamentale dell'essere umano - quell'Essere che noi siamo.

    Esperienza della Vita. Ogni uomo è cosciente di vivere e del fatto che la Vita rappresenta il suo massimo valore. Tutto il resto ne dipende; per meglio dire, le è legato. La conservazione della vita è il primo istinto umano. Questa esperienza basilare può attingere diversi livelli di profondità - che sono inscindibili. Alcuni si sentono vivi perché sentono il sangue pulsare nelle vene - in tutta la ricchezza di questa metafora che abbraccia la passione e il sentimento. Alcuni si sentono vivere appieno quando pensano; quando, cioè, si rendono conto di essere dotati di una meravigliosa capacità di sentire il polso della realtà - c'è un' esperienza intellettuale della Vita. Ci sono, inoltre, alcuni che si rendono conto, con un'intensità ancora maggiore, che la Vita li trascende, che è stata data loro; che è un dono, una grazia, anche se talvolta ad alcuni sembra una dis-grazia. Le tre esperienze procedono unite e talvolta prevale l'una, talvolta l'altra. Parliamo dell' esperienza del corpo, dell' anima, dello spirito - attenendoci alla antropologia tradizionale tripartita.

    L'esperienza della Vita, come abbiamo già detto, può essere intesa come genitivo soggettivo e cioè come esperienza non «mia» e neanche «nostra», ma della Vita stessa. Questa Vita che ci è stata data, che non è nostra, sembra richiedere un soggetto. Alcuni hanno ipotizzato possa essere un Essere assoluto: «in Lui era la Vita», dicono molti testi sacri. Altri invece non la sostanzializzano - se non nelle miriadi di esseri (vivi). Questa Vita (fa) esperienza (di) se stessa e ognuno di noi partecipa a questa esperienza con maggiore o minore chiarezza e profondità.

    Quando dico esperienza della Vita non intendo l'esperienza della mia vita, ma della Vita, quella vita che non è mia benché sia in me; quella vita che, come dicono i Veda, non muore, che è infinita, che alcuni definirebbero divina: Vita, tuttavia, che si «sente» palpitare, o, per meglio dire, semplicemente vivere in noi. Le interpretazioni che se ne danno naturalmente spaziano da ciò che è definito sentimento oceanico fino alla sensazione biologica di vivere, passando attraverso l'esperienza di Dio, di Cristo, dell' Amore o anche dell'Essere.

    L'esperienza della Vita (zoe), arriva a dire san Giustino nel II secolo, è l'esperienza del datore della vita - dato che la nostra vita non vive di per sé, ma partecipa della Vita.

    Con ciò non si elimina il discernimento e pertanto non si afferma che qualunque esperienza (che va intimamente legata alla sua interpretazione) sia uguale e abbia lo stesso valore, né del pari si nega che attraverso la sua formulazione (interpretazione) si possa dire che vi siano esperienze false o puramente immaginate - non sarebbero allora esperienze. Non parliamo di mistiche, ma dell' esperienza - che non possiamo chiamare che umana e che definisco precisamente mistica.

    Per questa esperienza integrale, ovverosia integra (non toccata da alcuna facoltà riflessiva), della vita, in accordo con la già citata antropologia tripartita, è necessario che teniamo i nostri tre occhi ben aperti, come diremo più oltre. L'euforia moderna del razionalismo (non dico della ragione) ha causato l'atrofia del terzo occhio, quello della fede (quando quest'ultima non si è ridotta in credenza). «Fides enim est vita animae» («La fede infatti è la vita dell'anima»), scrisse san Tommaso d'Aquino, pur non conoscendo il testo della Prasnu-upanisad VI,4: «Dalla vita (prana) proviene la fede (fraddha)». È proprio questa fede che ci permette di godere della Vita - «vita L.,] id in quo maxime delectatur» («la vita ciò in cui troviamo maggior godimento»), ha detto ancora quel maestro. L'esperienza mistica sarebbe quella che ci permette di godere pienamente della Vita. «Philosophus semper est laetus» («Il filosofo è sempre lieto»), scrisse il mistico Ramon Llull; ananda (gioia) è uno dei nomi propri della Trinità del vedanta - secondo un'altra versione del già citato testo upanisadico (ananda invece di ananta). La fede è «la gioia della Vita», non esita a dire il già citato martire Giustino.

    Diciamo esperienza della Vita, ma non dobbiamo confonderla con nessuna delle funzioni del nostro essere. Vivere la Vita non è pensarla, non è sentirla, non è farla, come non è neanche disprezzarla o «volere» porle fine. Non abbiamo un'altra parola. La Vita si vive. La mistica è questa esperienza di Vita anche se, mentre ne parliamo, già la traduciamo in linguaggio, il quale richiede una interpretazione. Diciamo esperienza della Vita e non esperienza della durata della vita, breve o lunga che sia. L'esperienza della Vita non è la coscienza del passare del tempo. Ciò di cui si fa esperienza è l'istante della tempiternità. L'esperienza non si misura col tempo.

    È necessario inserire a questo punto una riflessione interculturale. L'esperienza della Vita ci riscatta dal dominio, per non dire dalla tirannia,  della ragione dialettica, dato che non possiamo pensare alla sua negazione: non possiamo pensare alla morte, ci dicono, perché la identifichiamo con la non-vita. Possiamo pensare con maggiore o minore profondità alla vita ed esserne coscienti, ma non possiamo essere coscienti della morte. Ogni cosa ha una possibile contraddizione: l'albero il non-albero, il Bene il non-Bene, e così pure l'Essere il non-Essere, anche se questo pensiero è un pensieero astratto e probabilmente vuoto. Non possiamo però fare esperienza della non-vita in quanto il soggetto (vivo) pensante non esiste più. Posso pensare la morte di un altro, non fare la sua esperienza, né tanto meno la mia. Si può fare esperienza della Vita, ma non si può fare l'esperienza della morte.

    Non si può certo «sperimentare» la non-vita, ma solo il pensiero dialettico identifica la non-vita con la morte. La morte non è la vita; ne è distinta e anche opposta, ma vita e morte non si contraddicono - se non nel pensiero dialettico. Non possiamo fare l'esperienza della morte, anche se possiamo meditare su di essa e questo pensiero (astratto) ci illumina sulla vita.

    Inoltre, l'esperienza della Vita è l'esperienza del mistero, è la coscienza che si sta sperimentando un qualcosa che non può essere pensato. E proprio per questo che, da Socrate ai nostri giorni, la filosofia è stata interpretata come una «meditatio mortis».

    V'è però dell' altro: l'esperienza della vita porta, a volte, con sé anche l'esperienza del morire. Non è un'esperienza gradevole, ma non deve neanche essere identificata con l'angoscia della morte, che dipende da altri fattori più animici e fisiologici che spirituali. È comunque un' esperienza nella quale anche il corpo è presente, in un aspetto più spirituale quale è la respirazione. Qualsivoglia descrizione implica di per sé una interpretazione. lo la chiamerei una esperienza della contingenza umana, dato che la vita non è nostra, dato che non si regge da sola, ma si sostiene proprio sulla Vita. Se all'inizio della mia esistenza era la Vita (anche se non mia), alla sua fine essa torna alla Vita.

    Se dovessi abbozzare con le mie parole questa esperienza integrale della Vita, direi che è l'esperienza completa tanto del corpo, che si sente vivere con palpiti di piacere o dolore, quanto dell' anima, con le sue intuizioni di verità seppure con i suoi rischi di errore, insieme alle folgorazioni dello spirito che vibra con amore o repulsione. L'esperienza della Vita non è solo la sensazione fisiologica di un corpo vivo, né è esclusivamente l'euforia della conoscenza che deriva dal contatto con la realtà, né l'effluvio dell' amore che nasce dalla partecipazione al dinamismo che muove il mondo. L'esperienza della Vita è l'unione più o meno armonica delle tre coscienze prima che l'intelletto le distingua. Questa esperienza sembra mostrare una complessità speciale - che chiamerei trinitaria. Non è né un semplice piacere sensibile o una pura esperienza intellettuale, né tanto meno una mera estasi incosciente. «La condizione umana», che è la condizione della realtà, ci accompagna sempre. L'esperienza della Vita è al contempo corporale, intellettuale e spirituale. Avremmo potuto dire del pari che è materiale, umana e divina - cosmoteandrica. Sentirsi vivi è sentire la pienezza della Vita nella nostra limitazione concreta. Per questo ho incluso la coscienza dei contrari, del dolore, dell'errore e della repulsione, anche se sono spesso nascosti nel subcosciente delle nostre stesse vite. E se descriviamo questa esperienza come esperienza mistica, non si dica che è un riduzionismo ricondurla a un insieme di tre esperienze perché non sono tre - senza in alcun modo escludere una gerarchia in questa trinità di componenti. Sono un intreccio inscindibile di un'esperienza unica - che abbraccia anche l'esperienza del morire. «Muoio ogni giorno», dice san Paolo.

    La tesi del mio libro dedicato alla mistica si riduce a parafrasare il titolo.

    Il grande ostacolo a che scaturisca spontaneamente in noi l'esperienza della Vita è la nostra preoccupazione per il fare a scapito dell' essere, del vivere. La mistica, quindi, richiede una certa maturità, che è più facile raggiungere al crepuscolo della vita, quando 1'azione, ciò che si è già fatto, è in un certo qual modo superata. O, per usare una forma più accademica, l'esperienza mistica è frutto dell' essere più che del fare, è la coscienza dell'essere come atto, più che dei risultati dell'azione - che è il gran consiglio mistico della Bhagavad-gita e del Vangelo: la supremazia dell' amore.

    A molti costa arrivare all' esperienza della Vita, perché temono l'esperienza della morte che è parimenti ineffabile - e non occorre citare Dogen quando assimila intrinsecamente tra loro le due esperienze. Forse è significativo il fatto che abbia atteso tanti decenni prima di partorire questo scritto.

    Mi aspetto l'obiezione che questo «concetto di mistica» non corrisponde a quello che se ne ha comunemente. Rispondo dicendo, in primo luogo, che la mistica non è un concetto e aggiungendo che l'obiezione non è un' obiezione reale ma solo la constatazione che non seguo la moda. Chi avanzasse l'obiezione non si darebbe per vinto e direbbe che la moda non si segue perché è la moda, ma perché si crede che rappresenti un grado più alto di maturità e riflessione su ciò che in questo caso è la mistica. Riconosco che, se è ben vero che il contesto dal quale muovono gli studi moderni sulla mistica è quello di una razionalità illuminata, non è questa l'idea che sottende il mio lavoro, benché muova essa pure da un' altra determinata fiilosofia - che evidentemente non posso negare. Potrei polemizzare dicendo che i testi riconosciuti come mistici sono più vicini alla filosofia sottesa cui abbiamo accennato che non a quella degli studi sulla stessa - il che d'altra parte non è un'obiezione valida, dato che l'interpretazione di un testo non può ridursi al cercare di indovinare che cosa voglia dire l'autore. Non essendo però la polemica compatibile con la mistica, ho preferito astenermi dalllo scrivere una riflessione su di essa e concentrarmi su una descrizione della semplice esperienza, il che di per sé non la esime dal muovere da presupposti che possono essere ben legittimamente criticati - critica alla quale l'autore dà molto cordialmente il benvenuto, dal momento che è sempre disposto a rettificare e imparare. «Non v'è nulla di più grande per l'uomo che imparare e assimilare costantemente», pare dicesse già l'ateniese Sofocle nel V secolo a.c. (ricordato nella cosiddetta «Carta di Aristeas» del III secolo a.c.).

    (Vita e parola, Jaca Book 2010, pp. 11-19)

     


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