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    Missione e santità

    di Domenico Savio

    Andrea Bozzolo



    Agiografia teologica

    La teologia spirituale si occupa delle diverse forme di appropriazione personale della fede, ritenendole rilevanti non solo in ordine alla conoscenza di figure esemplari di vita cristiana, ma in ordine alla stessa identificazione della verità di Dio. La vita di un santo, pertanto, richiede necessariamente un accostamento teologico che superi una lettura puramente edificante e individui nei tratti della sua vicenda una grammatica dell’umano e del divino.
    Per elaborare una vera e propria agiografia teologica è però necessario aprire la lettura della vita del santo in due direzioni: in alto, per riconoscerne le radici in un’azione di Dio che si dispiega in essa, e in avanti per discernere dove essa si collochi all’interno dell’oggettiva santità ecclesiale, come la illumini e la arricchisca. Per fare questo, secondo il suggerimento di von Balthasar, ci riferiamo alla categoria di missione. Nell’idea di missione, infatti, è implicato al tempo stesso la precedenza di un compito che viene da Dio e per cui si è suscitati, e l’offerta dell’unica chiave di accesso al segreto ultimo dell’identità personale. Così che solo risolvendosi per la propria missione, e ancor più risolvendosi in essa, si riceve veramente il dono della propria libertà.

    La missione di Domenico: caratteri generali

    Senza poter tracciare dei confini netti, si può osservare abbastanza agevolmente una duplice figura del rapporto che i santi trattengono con la comunità ecclesiale, a seconda che in essi sia in particolare risalto il movimento che dal di dentro del Corpo ecclesiale si protende verso il suo Capo o piuttosto l’iniziativa con cui Cristo Signore conduce e orienta il suo popolo, ponendolo di fronte a una nuova figura di santità da cui lasciarsi istruire. Se osserviamo ora con sguardo teologico la santità di Domenico Savio, per cercare di cogliere ciò che Dio ha voluto compiere attraverso di lui, non è difficile riconoscere molti aspetti per cui la sua figura deve essere collocata tra le forme “rappresentative” che appartengono a questa seconda categoria. Basta, infatti, considerare la rilevante novità che la sua glorificazione introduce nella storia delle canonizzazioni e nella coscienza ecclesiale che vi si riflette; l’introduzione effettiva di un nuovo “modello” di santità – la santità “dei ragazzi”, come vi è quella dei pastori, dei martiri o dei contemplativi – per affermare che la missione che egli ha ricevuto da Dio, gode di una particolare esemplarità e che i prodigi di grazia che, in misura così abbondante, Dio ha voluto dispiegare in lui, erano orientati a illustrare dentro la Chiesa, e ancor più di fronte a essa, una sua parola. La missione di Domenico è stata quella di esemplificare agli occhi della Chiesa e del mondo un’adolescenza riuscita, ovvero una figura dell’umano giovanile totalmente risolta nella forma del dono. Domenico sembra aver attraversato gli anni che seguono l’infanzia proprio al preciso scopo di scioglierne i nodi, di semplificarne i passaggi, di mostrarne le soluzioni, delineando in che modo possa e debba essere realizzata pienamente anche da parte di un ragazzo la logica pasquale che è il cuore del cristianesimo e la chiave dell’antropologia.
    Questa particolare rappresentatività di Domenico va compresa all’interno di due riferimenti: lo sviluppo tipicamente moderno della percezione della peculiarità antropologica dell’età adolescenziale e lo sviluppo della problematica educativa; l’intreccio oggettivo con la missione di Don Bosco, quale fondatore di una famiglia spirituale incentrata intorno all’educazione. Poiché l’educazione è felice attuazione di legami tra una generazione e l’altra, il Signore ha suscitato insieme il santo educatore e il santo ragazzo, perché proprio nella forma del loro rapporto apparisse al massimo la Parola divina consegnata alla loro missione.

    La missione di Domenico: spunti di analisi

    Di fatto, Domenico ha raggiunto la santità, obbedendo all’indicazione di Don Bosco di “guadagnare i compagni al Signore”, ovvero di assumere la propria tensione verso un altissimo ideale di vita come trasparenza dell’agape di Dio a beneficio di tutti, e non come perfezione dell’umano conseguita per l’appagamento di sé. È obbedendo a questa missione che Domenico attua la propria santità (contro la tentazione del ripiegamento su di sé), “risolve” il nodo centrale dell’adolescenza (l’assunzione “deliberata” della propria identità), e smonta dal di dentro l’ideale pedagogico moderno dell’autorealizzazione. Vi è anche però un versante della missione di Domenico rivolta agli adulti, ai suoi educatori in genere e a Don Bosco in specie, in forza del quale Domenico sta di fronte ad essi per illuminarli su ciò che Dio può fare nel cuore di un ragazzo, su quale sia l’efficacia degli strumenti educativi e delle mediazioni di salvezza di cui gode la comunità cristiana, su quanto alta sia la responsabilità di chi ha un compito educativo. Nell’immaginario di Don Bosco (sogno di Lanzo) Domenico è recepito come un portavoce di Dio.

    Verso i compagni: “guadagnare i compagni al Signore”

    Lo stupore che Domenico suscita nei compagni apre loro la possibilità di venire a sapere attraverso di lui ciò che il cristianesimo insegna della Grazia, vedendolo pienamente calato nella vita di un ragazzo. Attraverso Domenico, Dio apre sul suo mistero un varco in cui i giovani possono immediatamente riconoscere qualcosa di proprio e attingere realmente qualcosa di Suo. Emblematico al riguardo è il dialogo con Gavio Camillo (cap. XVIII): “Noi qui facciamo consistere la santità nello star molto allegri. Noi procureremo soltanto di evitar il peccato, come un gran nemico che ci ruba la grazia di Dio e la pace del cuore, procureremo di adempiere esattamente i nostri doveri, e frequentare le cose di pietà. Comincia fin d’oggi a scriverti per ricordo: Servite Domino in laetitia, servite il Signore in santa allegria”. In queste brevi battute, a cui la tradizione salesiana ha giustamente riconosciuto un valore emblematico, il rigore con cui la rappresentazione della santità viene restituita alla genuina prospettiva teologale delle beatitudini, è pari alla freschezza con cui è offerta in termini perfettamente desiderabili per il palato di un adolescente. Vi è insomma un profilo di allegria adolescenziale, la cui piena espansione nella gioia di vivere viene identificato come volontà di Dio e quindi come vero itinerario di santità, e una figura di vita spirituale che, senza fare sconto sulle esigenze della sequela, viene però assunta anzitutto come grazia di poter stare sempre lieti. Troviamo, dunque, in Domenico una vera e propria “figura spirituale” degna della massima attenzione, perché identificata da una peculiarità antropologica irriducibile ad altro e consistente nella totale valorizzazione in ordine al compimento della fede delle caratteristiche antropologiche specifiche della prima età della vita. Il suo frutto è una santità che matura non solo nella situazione eccezionale del martirio, come la Chiesa aveva già riconosciuto attraverso la canonizzazione di ragazzi martiri, ma proprio attraverso la ferialità quotidiana del gioco, dell’amicizia, dello studio e di tutto ciò che costituisce l’ordinarietà della vita di un ragazzo. L’adolescenza non è stata per lui soltanto il tempo in cui maturare una straordinaria esperienza spirituale, ma il vero e proprio oggetto della sua missione.

    Verso gli educatori: “ella ne sia il sarto”

    Lo stupore che Domenico suscita negli educatori consente e impone un radicale ripensamento delle loro certezze educative. Emblematico è il caso dell’ammissione di Domenico alla Prima Comunione, quando don Zucca, il cappellano di Morialdo, è costretto a consigliarsi a lungo con altri sacerdoti per ponderare se si possa concedere a un bambino che a sette anni “sapeva a memoria tutto il piccolo catechismo; aveva chiara cognizione di questo augusto sacramento, e ardeva dal desiderio di accostarvisi” (cap. III. Ma è soprattutto nel rapporto con Don Bosco che si coglie ciò che Dio vuole dire al mondo degli adulti attraverso questo ragazzo. “Io sono la stoffa”: la Parola che Dio dice attraverso Domenico suona non come una dottrina, ma come una promessa. Di questo genere, d’altra parte, è la parola che Dio pronuncia attraverso ogni bambino che viene all’esistenza. Ogni figlio che nasce è, infatti, una promessa che Dio rivolge al mondo degli adulti, una freccia riposta nella loro faretra. “Ella ne sia il sarto”: la responsabilità educativa. La meraviglia spontanea che gli adulti provano di fronte ai bambini ha bisogno di essere interpretata e decisa. Il che avviene, secondo il Vangelo, riconoscendo lo speciale legame che essa ha con l’accoglienza del mistero stesso di Dio (“Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me; chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato” Mc 9, 37) e assumendo le rigorose esigenze etiche che essa comporta. L’educazione come responsabilità morale di attestare il compimento dell’umano. “Mi prenda con lei e farà un bell’abito per il Signore”: la natura discepolare del rapporto educativo. L’affidamento che queste parole contengono è assai più vicino ai contorni di alto profilo della fede religiosa che non a quelli oggettivamente più parziali di un comune credito formativo. Ogni relazione, per essere autenticamente educativa deve appellarsi ad una verità che trascende i soggetti in gioco e che l’educazione, nelle molteplici modalità in cui si attua, intende esattamente testimoniare.

    Attraverso la Chiesa

    Come ogni missione, anche quella di Domenico, non può che compiersi attraverso il ministero della Chiesa e in dipendenza da essa. Proprio perché in lui deve risultare con particolare chiarezza la “soluzione” dei nodi dell’adolescenza, a beneficio dei ragazzi e degli educatori, egli deve vivere con particolare intensità la logica di quella “consegna” di sé che è l’unica via per attingere la pienezza dell’umano. Qui bisogna rileggere l’episodio legato alla predica sulla facilità di farsi santo. Il turbamento di Domenico è anzitutto il segno della profondità con cui Dio ha parlato al suo spirito. Ma vi è anche la componente di un desiderio adolescenziale, che anche nel bene è portato a voler tutto “subito” e “a modo suo”. Solo relativizzandosi alle indicazioni di Don Bosco e assumendo, grazie a lui, il profilo “apostolico” della santità, egli porta a compimento quella luminosa tensione spirituale che da sempre lo abitava, realizzandone la genuina qualità ecclesiale. Se la missione di Domenico era proprio quella di risplendere, egli non può farlo se non attraverso la via kenotica dell’obbedienza e dell’abnegazione, fidandosi della via propostagli dalla Chiesa. Si tratta di un’obbedienza a cui Domenico aderisce con tutto il cuore, ma che pure rimane sottomissione esigente a una logica diversa da quella che gli verrebbe naturale. È il passaggio tipico da un io che si compiace ancora di sé nel bene che compie, ad un io veramente consegnato alla logica della Grazia.

    Conclusione

    I nodi antropologici della maturazione della persona sono in radice questioni teologiche. Non è possibile intendere il senso radicale delle età della vita, la logica che le attraversa e ne spiega le sfide, i compiti, i rischi (l’ordinarsi della risonanza affettiva, il maturare dell’identità, la destinazione del desiderio…) astraendo dall’intenzionalità che ne fonda la struttura e che corrisponde alla predestinazione in Cristo. Anziché l’itinerario sempre aperto di un umano alla ricerca della realizzazione di sé, Domenico attesta che il profilo compiuto dell’umano si ha quando la felice esperienza di ciò che si riceve nei legami più sacri (la fede teologale, la dipendenza generazionale, l’amicizia tra pari) viene ridistribuita come dedizione di sé per il bene dell’altro.


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