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    L'orizzonte condiviso

    di un amore

    Enzo Bianchi

    In una lettera inviata dal carcere in cui attendeva la morte che il regime nazista gli avrebbe inflitto, il teologo protestante Dietrich Bonhoeffer scriveva: «La perdita della memoria morale non è forse il motivo dello sfaldarsi di tutti i legami, dell’amore, del matrimonio, dell’amicizia, della fedeltà?
    Niente si radica, niente mette radici: tutto è a breve termine, tutto ha breve respiro. Ma beni come la giustizia, la verità, la bellezza e in generale tutte le grandi opere richiedono tempo, stabilità, memoria; altrimenti degenerano». Parole profetiche, che leggono bene il tempo presente, contrassegnato da provvisorietà e instabilità in tutti i rapporti.
    I dati forniti dall’Istat riguardanti i matrimoni tra il 1995 e il 2008 registrano un raddoppio del numero di separazioni e divorzi, mentre la durata media del matrimonio scende fino a soli quindici anni. Sono statistiche che ci confermano quanto anche noi verifichiamo nel nostro tessuto quotidiano: nella cerchia di familiari e conoscenti abbiamo quasi tutti coppie separate e anche all’interno di legami «ecclesiali» constatiamo l’aumento di quanti si «separano» o dalla loro vita presbiterale o dalla comunità religiosa di appartenenza. Ormai, quando riceviamo la notizia di una coppia che si sposa, non ci è più estranea la domanda inconscia «fino a quando durerà?», così come nell’interrogarci sul futuro delle forme di vita che prevedono impegni o voti di celibato, non vi è più solo la preoccupazione per il numero calante di nuove vocazioni, ma anche quella per la perseveranza di quanti già hanno abbracciato questo itinerario religioso.
    Anche chi ha assunto impegni, chi ha celebrato l’alleanza con fratelli o sorelle nella vita religiosa contraddice la scelta compiuta - anche se in percentuale minore rispetto al matrimonio - viene meno alla parola data, alla promessa esplicitata e pensa di cambiare vita, anche in età ormai matura, a cinquanta o sessant’anni, esattamente come avviene tra gli sposati. Persone ormai invecchiate e quindi obbligate a contare gli anni che restano loro da vivere, smentiscono un intero itinerario di vita già percorso e si dicono addio, nel sogno di poter trascorrere l’ultima parte della vita - la cui aspettativa si è sempre più allungata - nella libertà, senza dover più «fare i conti» con qualcun altro.
    È l’epifania dell’egoismo anzi, dell’egolatria celebrata secondo le proprie possibilità, è il non voler più riconoscere che l’amore esige anche sacrificio, rinunce: se infatti il cammino è condiviso con altri, allora occorre riconoscere l’altro che ci sta accanto nella sua differenza, assumendo che ci siano assieme ai giorni di gioia e di piacere condivisi anche quelli in cui il rapporto si fa difficile, in cui si è chiamati a perdonare l’altro, in cui far uso di sapienza, a volte accettando perfino di restare nel «buio», attaccati alla promessa fatta, alla parola data. Nessuno nega che la vita comune nel matrimonio o nella convivenza possa diventare un inferno: il problema è discernere come uscire dall’inferno, se fuggendo la relazione o tentandone insieme un riscatto.
    D’altronde, conosciamo bene gli esiti di separazioni, divorzi, rotture di fedeltà: sono cammini in cui c’è molta sofferenza e fatica, vicende dove a volte il tradimento e la menzogna appaiono in tutta la loro capacità di fare del male. Senza dimenticare che, per chi è nato dall’incontro di due persone e dal loro amore, la separazione è un dolore ancor più lacerante perché avvertito come non dipendente dalla propria responsabilità: significa sentire che le proprie radici si sono separate, aver paura di perdere le radici - l’una o l’altra o entrambe - perché trapiantate su nuovi percorsi separati e sovente in guerra tra loro. Chi nasce ha diritto all’amore dei suoi genitori anzi, a un unico amore: lo hanno generato insieme, insieme lo devono amare.
    Certo, con ragione si dice che non si deve restare insieme per convenienza sociale, che non è bene essere ipocriti, che non è sano vivere nella doppiezza di vite sentimentali o sessuali. Ma occorrerebbe anche domandarsi se sovente si è giunti al matrimonio con sufficiente maturità, con la consapevolezza di quello che si celebra. Molti matrimoni, indipendentemente dall’essere celebrati in chiesa o meno, non hanno conosciuto le fasi necessarie a costruire un progetto da realizzare insieme, per dare avvio a una «storia d’amore» e non semplicemente a un’avventura sull’onda delle emozioni di un momento, in preda alla sensazione del «mi piace», «mi sento di...». In realtà, diventare soggetti di «storia», capaci di amore, maturi al punto di fare promesse non è che un cammino di umanizzazione perché la vita sia un’arte.
    Ma chi oggi insegna o perlomeno aiuta, avverte di questa esigenza le nuove generazioni che si affacciano ad assumere impegni duraturi nel tempo? In questo senso oggi una nuova famiglia nasce più fragile rispetto a solo pochi decenni fa, soprattutto a causa di una carenza di riferimenti saldi: i genitori non hanno trasmesso valori come la capacità di sacrificio, la perseveranza di fronte alle difficoltà, la responsabilità verso le persone cui si è data una parola, la cura costante per il legame affettivo, la consapevolezza del prezzo da pagare per le proprie scelte. Resto tuttavia convinto che quello che manca maggiormente oggi è una capacità di fede: non fede in Dio, innanzitutto, ma capacità di fare fiducia, di credere nell’essere umano, negli altri, nel domani. Credere è un atto umanissimo essenziale per ognuno di noi a partire dal momento stesso in cui viene al mondo: cresciamo solo se troviamo qualcuno di cui fidarci. Oggi c’è una crisi di fede, un crollo della fiducia e così la storia del matrimonio come di ogni vicenda legata a una promessa di fedeltà è fortemente minacciata. Non è un caso che un tempo, quando due innamorati decidevano di «fare storia insieme», si chiamavano «fidanzati» - cioè legati da fiducia: persone che mettono fiducia l’uno nell’altra - e al momento del matrimonio si scambiavano l’anello cui era dato il nome di «fede»... Sapienza di un tempo che non c’è più e che è inutile rimpiangere, ma sapienza di umanizzazione che dovrebbe intrigarci ancora oggi.
    Senza fiducia, quest’atto essenziale a ogni essere umano, non vi è spazio nemmeno per la fede in Dio: se non si è capaci di fede negli altri, in chi si vede e si ama, come si può essere capaci di credere in Dio, che nessuno ha mai visto? Quanti si lamentano di mancanza di fede in Dio dovrebbero prima di tutto piangere per questa crisi di fede nell’uomo, nella possibilità di una storia d’amore: si tratta di «credere nell’amore» perché senza questo atto non è possibile fare della vita un’opera d'arte, non è possibile la speranza che è sempre un desiderare insieme, un attendere insieme. Credere è il modo di vivere la relazione con l’altro: non c’è cammino di umanizzazione senza gli altri, perché vivere è sempre esistere con e attraverso l’altro.
    È davvero triste sentire certe spiegazioni date al sempre più precoce e frequente fallimento di unioni matrimoniali: il benessere, la liberazione della donna e la parità tra i coniugi, l’allungamento della vita... come se l’essere umano anziché trovare una promozione nella migliore qualità di vita raggiunta, si fosse infilato in una situazione che lo depaupera proprio nella sua identità umana.
    Oppure, all’inverso, vi è chi legge le cause dell’instabilità dei legami nella crisi economica, nell’incapacità dei figli a uscire di casa, nella precarietà del futuro occupazionale... Ma ci ricordiamo delle difficoltà che le generazioni precedenti incontravano quando decidevano di «mettere su» famiglia? E la decisione di non fare figli, non è forse un segno che non si crede al nuovo che può irrompere?
    Più in profondità, dire che «vivere più a lungo rende difficile sopportare sempre le stesse persone» significa negare all’essere umano la capacità di amare anche in situazioni nuove. Se si vive più a lungo e meglio, occorre allora imparare a umanizzarci anche in una stagione della vita fino a ieri non facilmente ipotizzabile: l’anzianità e la vecchiaia, oggi più «attive» di un tempo, dovrebbero diventare anche uno spazio nuovo in cui imparare a proseguire con modalità diverse l’incessante opera di umanizzazione, nostra e di chi ci sta accanto. Davvero oggi è più necessaria che mai una grammatica della storia d'amore, del vivere insieme con un orizzonte condiviso.

    “La Stampa” del 25 luglio 2010


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