Lo sguardo incantato
sul lavoro dei campi
Thomas Merton
Ecco come Thomas Merton descrive il lavoro nei campi durante un'estate all'inizio degli anni Quaranta. Da una descrizione delle attività manuali passa a considerare il paesaggio esteriore e, infine, quello dell'anima. Si può notare lo slancio lirico di un monaco ancora agli inizi del cammino e portato a idealizzare aspetti che, da lì a poco, dovrà osservare con maggiore realismo.
Sul principio di luglio eravamo nel pieno del raccolto, occupati a portare il grano nei granai. La grossa trebbiatrice era sistemata all'estremità orientale del chiuso delle mucche, e i carri pieni di covoni continuavano ad affluire da ogni direzione, da tutti i campi. Si vedeva il magazziniere capo che, dall'alto della macchina, stagliato contro il cielo, dava ordini, mentre un gruppo di fratelli laici novizi lavorava a riempire i sacchi, a legarli e a caricarli sugli autocarri con la stessa velocità con cui il grano fluiva dalla trebbiatrice.
Alcuni novizi monaci portavano il grano al mulino, scaricavano i sacchi e li rovesciavano nel granaio; ma noi eravamo quasi tutti fuori per i campi. Quell'anno ci fu un raccolto eccezionale, anche se le piogge minacciavano continuamente di rovinarlo. Così quasi ogni giorno i novizi andavano nei campi a smantellare le biche e a distendere al sole i covoni bagnati prima che incominciassero ad ammuffire; poi tornavamo ad ammucchiarli e rientravamo a casa, ma subito si scatenava un altro acquazzone. In definitiva però fu un ottimo raccolto.
Com'è dolce trovarsi nei campi alla fine dei lunghi pomeriggi d'estate! Il sole non picchia più implacabile e i boschi incominciano ad allungare ombre azzurre sui campi di stoppie dove si drizzano covoni color dell'oro. Il cielo è fresco e si vede la mezzaluna pallida sorridere in distanza sopra il monastero. Forse dai boschi, con la brezza, scende su di voi un puro aroma di pini, e si confonde con il sentore caldo dei campi e della messe. E quando il maestro in seconda batte le mani per dare il segnale della fine del lavoro, e si lasciano ricadere le braccia e ci si toglie il cappello per asciugare il sudore che scende sugli occhi, si sente in quella pace che tutta la valle palpita del canto dei grilli, un tremolo costante e universale che si leva a Dio dai campi, che sale nel cielo limpido come l'incenso della preghiera serale: laus perennis [lode perenne]! E si toglie di tasca il rosario, si prende posto nella lunga fila e ci si avvia serpeggiando verso casa, mentre gli scarponi risuonano sull'asfalto e una pace profonda scende nel cuore.
Sulle labbra continua a formarsi, silenziosamente, continuamente, il nome della Regina del Cielo, di colei che è Regina anche di questa valle: «Ave Maria, piena di grazia, il Signore è Teco...». E il Nome del Figlio suo, per il Quale in primo luogo tutto questo fu fatto, per il Quale tutto questo fu ideato e destinato, per il Quale tutta la Creazione
fu modellata perché fosse il Suo Regno. «Benedetto il frutto del seno Tuo: Gesù!». «Piena di grazia!». Questo pensiero, che si torna sempre a ripetere, ci colma il cuore di grazia sempre maggiore, e chi può dire quanta grazia si diffonde nel mondo da questa valle, da questi rosari, nelle sere in cui i monaci ritornano a casa dal lavoro!
(La montagna dalle sette balze, 468-469)