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    L'indispensabile

    dimensione comunitaria

    della carità

    Spunti e orientamenti biblici
    sul rapporto carità e solidarietà sociale

    Cesare Bissoli


    Introduzione

    1. Leggiamo il titolo: esso vuol metter in chiaro che la carità cristiana, intesa secondo la sua autenticità, comporta una dimensione comunitaria, si realizza insieme, chiede una assunzione solidale di obiettivi ed impegni, si fa compagnia di carità piuttosto che gesto individuale o isolato di piccolo gruppo chiuso in se stesso.
    Quindi nostro scopo non è tanto parlare di carità, ma del carattere sociale che deve rivestire per essere tale.
    Lo faremo da un punto di vista biblico, motivazionale, alla luce della Parola di Dio, ma ascoltando insieme la situazione.
    È fondamentale infatti ricordare per noi credenti, che Dio fa "discorsi nuovi" con "l'alfabeto e la grammatica" di ieri, al tempo delle nostre radici, nella rivelazione biblica dunque. E d'altra parte Dio non ripete cose già sapute, ma "profetizza" cose inedite, attuali per noi. Anzi la Bibbia interagisce, dialoga con le nostre parole, le nostre invocazioni, i nostri presentimenti: "È apertura ai propri problemi, risposta alle proprie domande, allargamento ai propri valori ed insieme una soddisfazione alla proprie aspirazioni" (Rinnovamento della Catechesi, n. 52)
    Sicchè è ultimamente rispettoso della Parola di Dio chi la coglie nell'incrocio tra testimonianza biblica, quella di Gesù al centro, e situazione attuale, e la vede come Parola alta e decisiva"sale, luce", Mt 5, 13-14); all'interno delle nostre parole, delle scienze e competenze umane, pur così necessarie.
    Sarà peculiare di questa relazione continuamente intrecciare "l'alfabeto di Dio"con i fatti e le situazioni di oggi, percepite come parole, anzi invocazioni di Assoluto.

    2. Ne esce fuori facilmente un cammino in tre parti, visto come un ascolto in tre fasi:
    - partiamo dalla situazione, mettendoci in ascolto della parola, meglio dell'invocazione che viene dai fatti;
    - ci riferiamo poi alla Parola di Dio, cioè ascoltiamo la parola di risposta e proposta insieme che viene dalla sorgente della fede: la Bibbia;
    - per tirare delle conseguenze, accogliendo la promessa, la consegna e il compito che derivano per la nostra identità cristiana dal dialogo che scaturisce tra l'invocazione della situazione e la proposta della Bibbia.

    IN ASCOLTO DELLA PAROLA CHE VIENE DAI FATTI

    3. Siamo coscienti che questo mondo che ci circonda chiede carità, ha bisogno di aiuto in tantissime forme, come è vero anche che è vigorosamente cresciuta la coscienza che si è gente di carità, o cristiani non si è. Come diceva, il card. Martini, la "carità è", semplicemente.
    Solo che ci rendiamo conto più di ieri che fare la carità è cosa complessa, esige conoscenza e competenza, non basta l'istinto del dare (cosa: scarponi agli africani, od ombrelloni da sole agli esquimesi ?). La carità o è intelligente o manca all'appuntamento.
    Ebbene un fattore di chiara rilevanza riguarda appunto la concezione comunitaria della carità, o il praticare la carità in compagnia. Come? In che senso? I fatti parlano. E dicono tre cose, che ci aiutano a precisare il senso di dimensione comunitaria.

    4. I fatti dicono che davanti a noi sta non un uomo, ma tanti che soffrono, e soffrono secondo cause comuni (sottosviluppo, salute, solitudine, malattie...). Per cui è comunitaria quella carità che percepisce la comunanza dei bisogni e dei motivi di essi. È insensato chiudere un rubinetto di inquinamento, in una città come Milano, se non si affronta il problema globale che crea tale malessere. E certamente il problema che si fa drammatico dei terzo-mondiali non si risolve con pesche di beneficenza.
    Forse nel passato la carità individuale, che pure ha sempre ragione di sussistere, poteva sopperire notevolmente. Oggi essa riveste un tratto necessariamente sociale, politico, a partire appunto dai bisogni comuni, essendovi una omologazione sociale di malessere e benessere, vicino e lontano. Nessun uomo è un'isola.
    Diremo che qui senso di carità comunitaria si manifesta come apertura in ampiezza e profondità sui bisogni, come percezione della loro rilevanza sociale, capacità di considerazione del "mercato comune dei problemi". Comunitarietà vuole socialità di visione.

    5. Ma i fatti dicono ancora non basta il gesto isolato del volontario, per risolvere i problemi della città attuale, della società attuale. Qualche tempo, in Italia, assistemmo ad un fatto clamoroso e commovente. Angela Casella, mamma di un rapito dalla mafia calabrese, visto che non si riusciva ad ottenere la liberazione dei figlio Cesare dopo tanti mesi, andò da sola in Aspromonte quale segno di protesta e di coinvolgimento della gente.
    Fu uno splendido segno, in sé debole, ma che stimolò le energie per una effettiva possibilità di soluzione, che rimaneva e rimane tuttora in un investimento di uomini e mezzi secondo una certa progettualità strategica.
    Qui balza fuori un altro aspetto del concetto di comunitrietà della carità: non più sul versante dei problemi, ma delle risposte, degli uomini che rispondono, i quali soltanto insieme hanno possibilità di incidere. L'interazione dei bisogni e dei bisognosi, anzi la reciproca appartenenza è tale, che solo nell'interazione dei soggetti, anzi in una comune appartenenza di ideali e di competenze si può combinare qualcosa. Si è parlato di solidarietà come via di carità.
    Diremo allora che oltre al senso di socialità, la carità è comunitaria quando si fa senso di solidarietà e compagnia di intervento.

    6. Ma la lezione dei fatti non si ferma qui. Proprio la risposta data dallo stato dopo la sollecitazione della mamma di Cesare Casella, una solidarietà militare in Aspromonte dimostra con la necessità di tale mezzo, la sua fragilità e sostanziale fallimento, o comunque mezzo di aiuto dotato di corto respiro. Infatti nelle stesse ore circa in cui Cesar Casella era liberato, una bambima veronese, Patrizia Tacchella, spariva, forse rapita.
    Sentiamo tutti che di fronte ai sequestri, come all'inquinamento delle città, al flagello dell'AIDS, alla droga e all'emarginazione, alla solitudine degli anziani, l'atto di carità parte da più lontano e profondo: sentiamo che occorre cambiare la qualità della vita, dare volto morale, umano alla convivenza, introdurre un ordine di principi di riferimento, di motivazioni di valore più alto, e solido più che sia possibile. E dunque la socialità e la solidarietà della carità si deve ispirare ad un sentimento comune di chi la carità opera che si chiama "comunione", koinonia nel linguaggio del NT, per cui si esprime concretezza dell'intervento, una intima aderenza a valori più profondi e alla condivisione dei medesimi valori. Qui la dimensione comunitaria della carità, va oltre l'apertura sociale della carità, oltre l'intervento di solidarietà, e si radica su un terreno comune che prende il via da ideali, motivazioni, atteggiamenti le cui radici sono più che umane, si rifanno - per noi cristiani - all'esempio di Gesù di Nazaret, al suo modo di sentire e fare la carità. La dimensione comunitaria della carità richiede dunque uomini e donne di comunione, capaci di ricevere e dare comunione, e per questo capaci di solidarietà e di sguardo sociale dei bisogni. Anche quando - e sovente capita - uno deve agire da solo, da singolo.
    Ma come è possibile questo? Vi sono delle indicazioni nella fede dei cristiani? Cosa dice la Parola di Dio alla sorgente, la Bibbia appunto?

    IN ASCOLTO DELLA PAROLA CHE VIENE DALLA SACRA SCRITTURA

    Il mondo biblico è un mondo di intensa carità. Nel NT, come dice Paolo, è la carità la virtù eterna, che rimane per sempre (1Cor 13) e il precetto dell'amore è il comandamento del Signore (Giov 13, 33-35).
    Vorrei esaminare insieme la grande esperienza biblica sempre stando in prospettiva comunitaria, confrontandoci con i tre livelli di tale accezione colti dall'ascolto dei fatti: l'apertura sociale, l'intervento solidale, l'atteggiamento profondo comunitario.

    La carità come apertura sociale

    8. La Bibbia conosce diversi livelli di apertura sociale: parte da una struttura sociale di tipo familiare, centro nevralgico sempre della società biblica (la famiglia di Adam ed Eva con Caino, ed Abele), si allarga a struttura di tipo patriarcale, clanico con i Patriarchi, riveste forma tribale o anfizionica al tempo della conquista, si amplifica in stato (regno), per diventare collettività religiosa (politicamente oppressa) nel dopo esilio, e lungo i tempi di Gesù, mentre con il primo cristianesimo si manifesta ancora il contesto familiare verso però apertura inedite.
    Di queste fasi sociali, tocchiamo alcuni momenti:

    9. Al primo livello, quello di inizio, familiare, la Bibbia si apre letteralmente con un inno all'amore tra uomo e donna (Adamo ed Eva), inteso come superamento provvidenziale della reciproca solitudine ("Non è bene che l'uomo sia solo, Gen 2, 18), mediante la comunione profonda del matrimonio (Gen 2, 23); subito dopo la Bibbia esprime una dura protesta - anche questo all'inizio - per l'iniquo disinteressamento di uomo verso uomo ("sono forse io il custode del mio fratello?"dice Caino di Abele), cui fa seguito inevitabilmente la violenza di fratello contro fratello (Caino contro Abele) e la condanna radicale di Dio (Gen 3).

    10. Nel tempo dei Patriarchi con la struttura patriarcale della società si mette bene in risalto l'attenzione verso chi è nel bisogno ovviamente entro tale struttura, quindi nella dinamica frequente di fratelli e sorelle: ad es. per la donna che cerca avere marito. Ebbene ecco la cura di venire incontro a questo bisogno vitale: emblematico e bellissimo il racconto della sollecita cura di Eleazaro per trovare moglie ad Isacco in Gen 24; non solo, contro il patriarcalismo rigido di siffatta struttura sociale, Dio stesso dà una lezione di apertura guardando con cura concreta Agar, la donna ripudiata da Abramo, cui però Dio va incontro con squisita sensibilità sociale (Gen 21) (si ricordi che da Agar nascono i "nemici" arabi).
    La storia di Giuseppe e dei fratelli esprime questo convenire nei bisogni reciproci come fraternità veramente magnanima che rende Giuseppe modello di ogni giovane ebreo (Gen 37ss).

    11. Ma è soprattutto nella grande legislazione del Sinai, dentro il quadro dell'alleanza e come suo effetto, che le tribù diventando popolo, trovano nel dono di amore di Dio che li ha liberati dalla schiavitù la spinta per una apertura e attenzione sociale, anzitutto nel popolo stesso, gli uni verso gli altri e specificamente verso il povero la vedova, il forestiero, insomma gli elementi deboli della società, "i terzomondiali", gli zingari di allora.
    "Amerai il prossimo tuo come te stesso" (di Lev 19, 18) diventa lo slogan che supera i limiti del sangue, e fa di ciascuno un consanguineo, un fratello, anche- si noti per la piena attualità-lo straniero residente in Israele.
    Dice il testo di Lev 19, 15-18: "Non commetterete ingiustizia in giudizio; non tratterai con parzialità il povero, nè userai preferenze verso il potente; ma giudicherai il tuo compatriota con giustizia. Non andrai in giro a spargere calunnie fra il tuo popolo nè coopererai alla morte del tuo prossimo. Io sono il Signore... Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore".
    Si vorrà notare in questo brano significativo, con cui converge tanta predicazione del Deuteronomio e dei Profeti diversi aspetti:
    - il paradossale accostamento tra il "voi non commetterete", impegno in solidum per tutti e il tu del singolo ("non tratterai con-parzialità") in certo modo blocca ogni evasione di responsabilità. Il "tu", ciascun singolo ha una responsabilità verso tutti, in quanto incarna in se stesso il sentire della comunità;
    - le qualità di tale interesse sono fortemente sociali, con apertura alla totalità dei bisogni, materiali e spirituali.
    Al centro dell'interesse sta il popolo israelitico come comunità solidale e giusta, in cui deve essere riconosciuta la buona causa dei ceti poveri e delle minoranze etniche, deve essere aiutato a riprendersi chi sbaglia, devono essere risolti pacificamente i conflitti inevitabili senza dover ricorrere alla vendetta o a mezzi violenti guidati dall'odio. Come nota bene G. Barbaglio "il comandamento intende portare ogni singolo israelita a inserirsi nel popolo come persona responsabile della costruzione di una società giusta e solidale, in cui deve regnare il diritto e non la legge della giungla, la protezione del debole e non il privilegio del potente, il riconoscimento dell'altro e non il predominio di sé".
    - vi è infine da notare una formula motivazionale: "Io sono il Signore": chiaramente è la storia concreta di amore di Dio, creatore e salvatore, il gesto assolutamente gratuito della creazione affidata agli uomini e la liberazione loro donata con l'esodo, che fanno del popolo una comunità di responsabili gli uni degli altri, non di uno per un altro o qualche altro, ma di uno per tutti, per i potenziali bisogni di tutti, e di tutti per uno.
    Senza una precisa coscienza comunitaria motivata da ragioni più che umane, non certo da contratto sociale, ma da fattori di comunione che provengono da Dio stesso, la carità non potrà essere comunitaria, perché non sarà capace di restare aperta ai bisogni del popolo come tale nè coinvolgerà globalmente la comunità. Allora non è carità biblica.

    12. Il senso popolare nel mondo ebraico tende però a diventare reciproca protezione, difesa di consanguineità, e quindi chiusura verso terzi. La componente sociale si rimpicciolisce, per cui "il fratello saluta solo il fratello", denuncierà Gesù, e chi invita a pranzo sarà invitato a sua volta" (cfr Mt 5, 46) ; il samaritano sarà odiato, e il pubblicano, il peccatore emarginato come il lebbroso. Ai tempi di Gesù si era creata una selettività isogni sociali e quindi dei bisognosi.
    in questo innova radicalmente, proprio sulla qualità comun la dell'amore di Dio e del prossimo, che pure esisteva come precetto prima di lui (cfr Deut 6, 4-5):
    - rompe i confini, va letteralmente oltre: va presso gli stranieri di Tiro e Sidone (Mc 7, 24-37), non solo li aspetta (riusciamo immaginarci noi europei che andiamo a cercarli i terzomondiali?);
    - vede i bisogni dei tanti : ha la percezione negli occhi (vede), la compassione nel cuore (si commosse), la decisione nei piedi andò verso) e la concretezza nelle mani (prese nelle sue mani) : così sfama cinquemila persone rispondendo così alla prudenza miope di chi voleva inviare "tanta gente"a casa propria (Mc 6, 36), ed insieme nota il bisogno del singolo tra i tanti (la donna in perdita di sangue: Mc 5, 30);
    - interviene direttamente a favore degli emarginati sociali per eccellenza come il lebbroso (Mc 1, 40-45), i peccatori (2, 16); Gesù stesso si definisce come l'uomo venuto per tutti gli altri ("sono venuto per portare il vangelo anche là"), e non solo come voleva Pietro, per quanti l'avevano già incontrato qui a Cafarnao e lo volevano bloccare (Mc 1, 38) ;
    - può così consegnare in una parabola-testamento il suo senso di amore del prossimo nella figura esemplare del samaritano che fa della visione di un nemico ferito prima un interesse, poi un intervento pratico, infine accende una assicurazione per bisogni ulteriori (Lc 10, 25-37).
    Per Gesù amare il prossimo, non si esaurisce nell'amare il vicino (= prossimo), ma nel rendersi prossimo ai lontani, avvicinarsi a chi è lontano fuori dell'orbita consueta della propria visione

    13. La prima chiesa, con una certa fatica ma decisamente, sente l'invito di oltrepassare i confini: episodi come quelli di Cornelio (Atti 10-11), e soprattutto Paolo, nella grande epopea missionaria (in Atti e nelle Lettere) manifestano una Chiesa dal "muro abbattuto"tra ebrei e pagani (Ef 2, 14), ormai senza frontiere. I poveri sono riconosciuti ed aiutati radicalmente secondo la più bella tradizione biblica (Atti 4, 32- 37). Il livello sociale è di tipo familiare, ma la sensibilità agli altri, e ben oltre i vicini, ne è segno distintivo: si ricordi nella prima comunità la pianificazione vera e propria di aiuto a chiunque era indigente perchè non lo fosse più (Atti 2, 42ss); si ricordi anche l'attenzione stimolata da Paolo verso i poveri di Gerusalemme con il gesto della colletta, vera sintesi di socialità, solidarietà e comunione.
    Da sola vale come paradigma per un tema come il nostro.

    La carità come intervento solidale

    14. Le cose fin qui dette, mentre intendevano mostrare la sensibilità sociale senza frontiere cui il popolo di Dio era chiamato, popolo di un Dio senza frontiere pur nella scelta di un popolo, hanno dentro di sè una implicanza fondamentale: l'uomo biblico è chiamato a vedere, a rendersi conto dei bisogni altrui, perchè tutto un popolo è chiamato ad intervenire, senza esenzioni. La socialità dei bisogni chiede solidarietà di intervento. Ma prima e meglio ancora, nella logica biblica, è il potenziale di carità di un popolo, e non di pochi esaltati, che lo costringe ad avere una visione a campo lungo. A tutto un popolo la totalità dei bisognosi. La solidarietà non si esprime anzitutto nel fare materialmente insieme le medesime cose (talvolta si dovrà farlo), ma certamente di camminare nella stessa direzione, e quindi con la consapevolezza di fare per quanto da solo, sempre in condivisione di obiettivi, di contenuti, di metodologia. Alle cause comuni del malessere, occorre una risposta comune.
    Qui vorrei richiamare alcune schegge bibliche:

    15. La prima scheggia la chiamiamo il gioco caratteristico di " tu e voi"all'interno delle leggi dove si contiene anche quella della carità.
    Lo abbiamo già visto sopra: nell'AT (nel Lev, e soprattutto nel Deuteronomio) la singolarizzazione del precetto (Tu farai...) serve per sottolineare che il compito di tutti tocca singolarmente ciascuno. E viceversa, il passaggio dal "tu"del singolo al"voi"del popolo vuol indicare che la personalizzazione della carità va intesa come condivisione plenaria dei compiti di una intera comunità.

    16. Altra scheggia questa a volta al negativo, sul come non deve essere la carità, ci viene dai profeti. I profeti denunciano non solo il male del singolo verso il singolo (Davide verso Uria, Acab verso Nabot), ma anche la non cura, anzi la violenza di intere categorie malvage verso singoli, deboli, poveri: sono additati i capi, i cattivi profeti, sacerdoti, le persone ricche, lo stesso popolo visto come un io ribelle collettivo (cfr Amos 1-2; Is 1; Ger 23; Ez 22-24). Appare fortemente sottolineato il coinvolgimento di tanti nella responsabilità di amore o di non amore, per cui il venire meno di uno o di alcuni, tanto più se rappresentativi, a rilevanza sociale, ammorba l'aria di tutti. In questa prospettiva di comunità resa tale da un dono di Dio,i1 solidarismo biblico, pur condizionato da culture patriarcalistiche, è meno opprimente e imperfetto di quanto sembra, rivela piuttosto la matrice profonda, la forte coscienza di una comune appartenenza ad una sola famiglia, al popolo di Jahvè. Per cui il bene e il male di tutti è bene e male per ognuno, ed anche reciprocamente il bene e il male di tutti è dovuto alla fedeltà o alla inadempienza di ciascuno.

    17. Con la venuta di Gesù - terza scheggia biblica - sembra a prima vista che emerga il contrario di quanto fin qui detto: sembra che Gesù voglia fare tutto lui e da solo. E infatti nella storia dell'interpretazione di Gesù, si è esaltato la sua singolarità romantica, la statura di eroe che si erge sulla massa del gregge. Certo Gesù appare fare da solo, ma è più la novità della missione inaudita di annunciare il Regno e di mostrarne i segni, piuttosto che l'individualismo dell'esecutore solitario. È più la solitudine del primo di una compagnia che seguirà che l'inaccessibile isolamento dell'unico. In realtà vediamo questo Gesù tanto singolare quanto subito unito a dei discepoli, di cui si dice espressamente che "li scelse per averli per sé e per mandarli "a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demoni"(Mc 3, 14-15): in sostanza perché attuassero la sua missione di evangelisti del Regno.

    18. Alcuni indizi significativi di questo invito alla solidarietà intesa come assunzione di responsabilità:
    - Per Gesù il seguace si pluralizza, sono i discepoli. Gesù conosce e parla del singolo, magari conferisce, come a Pietro poteri personali, ma per rinviare e collocare il singolo entro un ambito di comunità, di impegno comune e da fare insieme (Giov 21; Mt 16, 16ss). I Dodici rimangono sempre tali, indivisibili e perciò efficaci. Chi esce dall'albo, si perde. Giuda, che rinfaccia a Gesù il gesto di lasciarsi onorare dai profumi di Maria, mostrando di non saper riconoscere un gesto di finissima apertura e solidarietà spirituale, dice questo ricordando i poveri, in realtà "non lo disse perché si curava dei poveri, ma perchè era ladro"(Giov 12, 6): una solidarietà affermata, ma elusa.
    - Quando moltiplica il pane e i pesci, Gesù non solo respinge l'idea di disimpegno dei discepoli ("lascia andare la gente"), ma li coinvolge in misura sorprendete: "Date voi qualcosa da mangiare a questa gente"(Mc 6, 37).
    - Più avanti li manda anche loro a fare la sua medesima missione, a due a due, nel numero di settanta due, e dà loro di essere come moltiplicatori dello stesso suo messaggio ("dite: Il regno di Dio è vicino") (Lc 10, 11), nei segni concreti della carità della parola e dei gesti di liberazione dalla malattie, dai demoni (Mt 10, 7-8)

    19. E qui ci è dato di assistere quanto profonda ed oltre una pura imitazione esteriore fosse il legame di Gesù con il suo gruppo, con una reale condivisione di missione, di fatica, di persecuzione, di successo apostolico. Giovanni nei discorsi della Cena lo dice ampiamente. Insomma per Gesù il Regno, ossia l'ultima decisiva volontà di Dio di salvare il mondo avviene quando persone insieme se ne fanno carico con lo spirito del Maestro. Giustamente quello che dirà Paolo di Gesù, di essere nella sua interezza un corpo unico di cui lui è Capo e noi le membra, ebbene tutto ciò si esprime germinalmente nella persona di Gesù di Palestina: lui capo, maestro e i discepoli coinvolti nello stesso destino. L'io di Gesù è l'io di una personalità corporativa: di fronte a Lui sta il plurale del noi. L'individuo non può avere udienza da Gesù se non solidarizza assumendo con gli altri la missione di amore di Gesù. Al "come il Padre ha mandato me", egli aggiunge "così io mando voi", non te, ma voi, il nei, perché solo i tanti, anzi tutti i suoi discepoli riescono'ad esprimere la ricchezza del suo"io grande".

    20. Si può ben capire come la Chiesa fin dai suoi inizi conosca vero movimento di solidarietà, per cui cristiani diversi per cultura, paese, bisogni, convergono nell'assumere compiti comuni.
    La Chiesa è veramente tutta verso gli altri, perchè formata di tutti verso gli altri.
    Alcuni segni vistosi:
    - la prima comunità di Gerusalemme vive una circolarità di solidarietà all'interno, verso i poveri, talmente che chi bara, come Anania e Zaffira, volendo la compagnia dei soldi invece che quella della comunità, cadono fuori comunione, muoiono (Atti 5); e la comunità mostra pure una compattezza di solidarietà verso l'esterno: si diceva che "tutti insieme spezzavano il pane nelle loro case e mangiavano con gioia e semplicità di cuore. Lodavano Dio ed erano ben visti dalla gente. Di giorno in giorni il Signore faceva crescere il numero di quelli che giungevano alla salvezza"(Atti 2, 46-47). È l'attrazione del decoro cristiano su cui Paolo sovente richiamerà le sue comunità (Fil 4, 5).
    - Altro segno vistoso è la carismaticità o ministerialità che avvolge del tutto il corpo di Cristo. I carismi sono doni dello Spirito dati a tutti, gerarchizzati e plurimi nelle forme (iCor 1214; Rom 12, 1-8), ma che devono provocare non il nascondimento dell'unico talento da parte del servo solitario, ma l'investimento per il bene comune del Corpo. Più persone possono esercitare lo stesso ministero (apostolo, didascalo, servitore delle mense) e tutti il proprio carisma.
    Espressione tipica della solidarietà dei primi cristiani è la colletta (che abbiamo già nominato). La colletta è una liturgia, un ministero che Paolo suscita presso tutti i cristiani: non gli basterebbe la generosità del benefattore di turno: vuole una comunità (Filippi, Corinto) che se ne faccia carico, perché il loro dare insieme altro non è che il giusto restituire quanto si è ricevuto: il carisma appunto dell'amore(Cor 8-9). Per Paolo la solidarietà non è dunque data dall'immensità del bisogno che chiede unità di sforzi, ma scaturisce dalla coscienza del dono ricevuto di essere comunità e per la comunità e quindi il dovere di esprimersi come tale.
    - Altro segno vistoso di solidarietà nell'amore verso gli altri è dato da un fenomeno singolare cuí forse si è poco badato. Si sa che la prima chiesa erano le case dei cristiani, dato che tutta la famiglia si faceva battezzare (cfr Atti 16, 33) e quindi diventava chiesa.
    Ma quando successivamente, ai tempi ad es. della 1 Pietro, avveniva che singoli membri diventavano cristiani- e molti, notiamolo in riferimento alla nostra situazione, potevano essere schiavi, stranieri- poteva capitare che essi finissero con il diventare "esuli e pellegrini", espulsi dall famiglia propria e senza trovarne un'altra. Ebbene, e questo è interessante notarlo, se era la casa che prima si faceva chiesa, ora sarà la chiesa a diventare famiglia per accogliere appunto questi senza famiglia. A chi dunque si faceva cristiano, non era dato solo un riro e un ricordo, un applauso ed una festicciola, ma era tutta una famiglia che si offriva, una comunità ospitale e quindi consapevole e solidale nell'esserlo. Non sarà questa una istanza che lo Spirito ci propone attraverso i ter--# zomondiali, quelli in particolare che condividono la nostra fede?

    21. Da tutto questo si ricava bene di quale solidarietà nel NT si tratta: dalle mense ai poveri, ai tanti servizi nella comunità, al dono della comunità a quanti fossero scacciati e sperduti. E ciò assunto come compito di tutti. Per loro andare a messa senza fare la carità con lo stesso senso comunitario con cui facevano messa, sarebbe stato peccato grave: un tradimento della stessa celebrazione eucaristica.

    La carità come comunione (koinonia)

    22. Fare la carità cristiana nelle prospettive di grande apertura sociale e di coinvolgimento solidale è tanto allettante quanto impegnativo, diciamo pure difficile: vi è lo sforzo di uscire da sè e guardare gli altri (e aprirsi è difficile), vi è la necessità di incontrarsi con i fratelli nella fede nella diversità talvolta stridente dei caratteri ed anzi nella inevitabilità di una certa dialettica nelle concezioni; e questa socialità e solidarietà non è solo un giorno, ma una vita. Quale ragione per motivarlo e quale forza per realizzarlo?

    23. Qui subentra un fattore profondo, appaiono le radici,della socialità e solidarietà che nel NT ha assunto una parola prestigiosa: la comunione, in greco koinonia. La dimensione comunitaria della carità raggiunge qui il vertice e la basilarità del mistero, dell'incontro con Dio medesimo. Dimenticarsene, si rischia pregiudicare validità di visione e costanza di attuazione, e quindi compromettere gli altri due sensi di comunitarietà.
    Ma vediamo brevemente questa ultima e fondamentale accezione di comunitarietà della carità.

    24. Koinonia riveste globalmente il senso di comunione, partecipazione nel triplice senso di dono, di prendere parte, di stare insieme. Un coinvolgimento dunque nell'ordine dell'essere, dell'agire, del presentarsi in pubblico.
    Ma quello che più conta tra chi avviene questa comunione, partecipazione:
    - come primo e fondamentale senso koinonia svela il legame profondo che í cristiani hanno con Dio in Cristo, di cui i sacramenti del battesimo e della cresima sono gli atti iniziali essenziali (1Cor 1, 9; 10, 16). A questo livello la comunità raggiunge la profondità mistica o misterica: si parla di comunione con "il Figlio di Dio, Gesù Cristo nostro Signore" (1Cor 1,9), con il suo spirito e con il Padre (2Cor 13, 13; Fil 2, 1; 1Giov 1, 3), con il suo corpo e sangue (1Cor 10, 16), le sue sofferenze (Fil 3, 10; 1Piet 4, 13), il suo vangelo (1Cor 9, 23).
    - la comunione con Cristo ha immediato risvolto ecclesiale, di comunione cioè tra i credenti: lo Spirito produce la comunione dei cristiani (2Cor 13, 13), mediante specificamente l'adesione al vangelo di Gesù (1Giov 1, 3ss; Atti 2, 42), la partecipazione agli stessi beni spirituali(Rom 15, 26), la condivisione delle gioie e dei dolori (Rom 12, 13; Fil 4, 14).
    Qui convergono tre celebri rappresentazioni del NT: il tema dell'unanimità di Luca negli Atti, dell'amore e dell'unità di Giovanni, dell'unità variata del Corpo di Cristo di Paolo
    - infine la koinonia uscendo quasi dal mistero e dall'interiorità si fa solidarietà cristiana, concreta collaborazione e servizio dei cristiani tra loro e con l'Apostolo. Due notissime espressioni: la colletta di Paolo e la condivisione dei beni della prima comunità di Gerusalemme. Le abbiamo viste sopra.

    25. Ora ci è dato di vedere che il livello della carità come solidarietà nasce ben più che da un vago sentimento filantropico, bensì dalla carità come comunione, che nella Trinità la sua fonte e la sua esemplarità.
    Soltanto arrivando a questo livello di mistero teologico, cristo-logico ed ecclesiale è dato al cristiano di capire la ragione suprema per cui è la comunitarietà è dimensione indispensabile della carità.
    Ma qui è tempo arrivare a delle indicazioni conclusive.

    IN ASCOLTO DELLA PAROLA CHE IMPEGNA

    26. Abbiamo ascoltato la parola dei fatti, l'invocazione della situazione. Poi ci siamo confrontati con l'esperienza normativa della Bibbia. Ora ritorniamo alla situazione, ai fatti, carichi di prospettive originali, per capire e fare la carità da cristiani secondo la sua esigenza comunitaria. Sono breve affermazioni sintetiche su cui maturare noi e far maturare la nostra gente.

    27. Una carità autentica, e dunque comunitaria, è tale secondo la triplice accezione di attenzione ai bisogni dei più (apertura sociale), secondo una risposta di molti, anzi di tutti (solidarietà), entro una prospettiva motivazionale trascendente (comunione. Tutti e tre questi livelli sono circolari, accostabili per via più induttiva (i bisogni degli altri) o applicativa(le nostre risorse interiori), in ogni caso necessari:
    - una sensibilità sociale rischia la pura analiticità teorica se non si fa decisione motivata di intervento proporzionata ai bisogni riscontrati. Sarebbe una carità che non sa e non opera: dunque non è;
    - una volontà di intervento per quanto solidale rischia la sterilità se non si avvale di sensibilità e percezione dei problemi reali della gente da un parte e di forte motivazioni partecipative dall'altra. Resterebbe il gesto di un momento, una carità euforica;
    - infine un alto senso mistico di comunione, condividere cammini spirituali di insieme sulla base del Corpo mistico, che non si facessero prassi comunitaria e concreta, riuscirebbe verbalismo infecondo già condannato da Gesù: "Non chi dice 'Signore, Signore'..." (Mt 7, 21-23).

    29. La comunitarietà come apertura sociale esige capacità e volontà di aprire gli occhi sui bisogni comuni ed insieme sul bisogno del singolo in prospettiva sociale: quindi sulla verità di cause ed effetti. Ciò porta assai concretamente a costituire nel proprio ambiente, tramite il centro caritas, o cosa analoga, un osservatorio attento ai problemi dei territorio in due direzioni: verso il territorio che è il mondo, la cui avvertenza dona respiro grande, umiltà, impegno, visione cattolica, partecipazione generosa a problemi di altri secondo un principio di gratuità ed insieme capacità di ridimensionamento dei propri problemi; ma attenzione anche verso il territorio che è il quartiere, la città: il problema anzitutto dei terzomondiali - diventata questione urgente e in prospettiva "la questione" per eccellenza del prossimo futuro -, il problema degli emarginati, dei disoccupati, degli anziani, degli indigenti spiritualmente, e per noi della famiglia salesiana, in particolare i giovani (Cost Sales, 33; CEI, Evangelizzazione e testimonianza della carità,n. 44ss).

    30. In secondo luogo, carità comunitaria vuol dire coinvolgimento dei più, di tutti, vuol dire effettivo esercizio di solidarietà, anche quando si fa da soli. Ma un fare da soli che parte dall'insieme progettato, realizzato e valutato. Qui si tratta di fare una sorta di reclutamento della carità di tutta la comunità, avvertendo il duplice impegno che i volontari non si isolino dal resto (è più facile fare da solo, ma non sempre è più cristiano) e che per le diverse età si possa progettare una possibilità di carità.

    31. Ma chiaramente i due livelli precedenti si fondano su una accoglienza di carità comunitaria assunta come mentalità di fede, nell'ordine delle motivazioni (del "chi me lo fa fare") e della metodologia di comunione. Qui si pongono precisi impegni per la catechesi, riassumibili in questi slogan:
    - fa la catechesi nella fede della chiesa chi la carità non tratta solo come tema, ma come componente trasversale di ogni tema, mostrando il suo radicamento teologico, le sue implicanze pratiche, il suo profilo altamente e gravemente etico. Ama dire L. Tavazza: "Il parroco accusa di peccato grave chi potendolo non viene a Messa; perché non dice altrettanto a chi non fa la carità che tutti invece possiamo fare?";
    - già un parlare pubblico e in pubblico della carità determina una comprensione di comunità. Ulteriormente va evidenziato - cosa originalissima del cristianesimo - che la dimensione comunitaria della carità è un imperativo che è preceduto da un indicativo: ossia dall'indicativo, dall'annuncio sorprendente che il Dio in cui crediamo lui stesso opera carità comunitaria verso di noi: egli vive la comunione con noi come Padre, Figlio e Spirito Santo. La benedetta ed ineffabile Trinità vive contemporaneamente nei nostri confronti una apertura sociale verso i nostri bisogni, in latitudine spaziale (veramente tutto il mondo) ed in estensione temporale (lungo tutte le epoche della storia umana); condivide solidariamente l'impegno amoroso nella economia del loro intervento come Padre, mediante Gesù nello Spirito Santo; fa comunione intima, ci ama dal di dentro, per la logica dell'amore che si dà, generoso, personalizzato, insistente, fedele.

    32. Tutto ciò esige una catechesi come processo educativo, articolato e organico, un processo, paziente e lungimirante come l'educazione.
    Nodi centrali su cui educarsi ed educare sono:
    - senso di appartenenza alla comunità nel mondo, per cui si è un io cristiano se ci si radica in un noi comunitario e non viceversa, come talvolta si crede;
    - maturare l'idea che il dono di carità completo è l'offrire un posto nella comunità, offrire nel proprio gesto al bisognoso una comunità di accoglienza e di condivisione e non solo dei pacchi-dono targati comunità. Anche la azione più volontaria e solitaria in certi casi può avvenire) altro non è, per un cristiano, che il gesto concreto di Cristo mediante un membro del suo corpo. Quindi facendo la carità occorre tendenzialmente restituire a Cristo, all'area del suo Corpo questo nuovo membro toccato dal suo amore;
    - abituarsi a fare insieme, progettare insieme (per categorie) come segno di comunione voluta da Dio e strategia voluta dall'intelligenza pratica dell'uomo (l'unione fa la forza). Ciò indubbiamente richiede un training partecipativo che talvolta cozza contro l'esuberanza del volontarismo. Si tratta di un esercizio di comunione ad intra- e non è facile- ed uno ad extra, con gente impegnata ma che ha motivazioni di ordine talvolta non religioso: come mantenere una comunione nel fare senza oscurare la comunione delle motivazioni dell'essere gente di carità?
    - le forme associative di carità (gruppi, movimenti) non esauriscono la dimensione di comunitarietà della carità se non quando si confrontano e si nutrono di ecclesialità, si fanno cioè, talvolta in modo sofferto, artefici di una carità di cui non possono avere la privativa, ma piuttosto si sentono antenne di moltiplicatori pazienti e credibili presso la massa della gente;
    - infine nuova frontiera della carità sociale e solidarietà, così profondamente attuale e contemporaneamente così squisitamente biblica, è l'accoglienza dell'altro, dello straniero, attraverso una cultura della differenza e della convivialità, così urgenti in Europa di fronte alla sfida umana ed evangelica del Terzo Mondo.


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