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    Le radici della
    preghiera cristiana

    Giannino Piana

    Forse possiamo capire le cose solo perché da esse percepiamo quell'intimo discorrere della Parola eterna ... Credo realmente che sia così1.

    Il ricupero della preghiera come dimensione essenziale della vita non è per il cristiano soltanto un fatto culturale, la risposta a un'istanza del tempo. E qualcosa di più radicale; è un'esigenza irrinunciabile della propria fede. La preghiera è "il fenomeno centrale della religione" (Heiler): è l'atto fondamentale in cui la religione si esplica e che la fa essere; è l'anima di tutta la vita spirituale dell'uomo e ciò che fornisce alla vita morale l'impulso fondamentale al dono di sé. Vi è dunque una circolarità costitutiva tra fede e preghiera. Se è vero infatti che per pregare bisogna credere, è anche vero che per credere bisogna pregare. Se la fede è un rapporto personale con Dio, è un sì detto a lui, una risposta a un suo appello, essa è dialogo con Dio. La preghiera è fede espressa: non è dunque possibile al cristiano vivere la fede senza alimentarla con essa.

    La preghiera è il caso serio della fede cristiana. Nella preghiera si esprime non solo l'essenza propria dell'atto della fede nella forma più concreta, qui si uniscono anche come in un punto cruciale tutti i problemi dell'attuale crisi di fede. Tutti i tentativi di una nuova interpretazione della fede cristiana si concentrano più o meno in questo punto. Qui ne va dell'essere o del non-essere della fede2.

    La riflessione cristiana sulla preghiera, sul suo significato e sulle sue dimensioni, deve anzitutto partire dalla parola di Dio, che è, per il credente, il fondamentale riferimento per la comprensione del mistero di Dio e dell'uomo. E tuttavia necessario ricomprendere e riattualizzare tale Parola, che ha un valore permanente, nel contesto socioculturale contemporaneo, se si vuole restituire a essa l'efficacia che possiede. Solo così essa può infatti diventare risposta viva ai problemi e alle inquietudini dell'uomo.

    E lo sforzo che faremo in questo secondo capitolo. Non si tratterà di un'indagine esegetica, ma di una proposta di lettura teologica, tesa a evidenziare il senso profondo della preghiera quale emerge dalle tappe più significative della storia della salvezza3.

     

    Il cammino di Israele

    Benedetto sei tu, Signore;
    mostrami il tuo volere.
    Con le mie labbra ho enumerato
    tutti i giudizi della tua bocca.
    Nel seguire i tuoi ordini è la mia forza
    più che in ogni altro bene.
    Voglio meditare i tuoi comandamenti,
    considerare le tue vie.
    Nella tua volontà è la mia gioia
    non dimenticherò la tua parola (Sal 119,12-16).

    La questione dell'originalità della preghiera biblica va affrontata e risolta nel contesto dell'antropologia dell'alleanza. Il tema dell'alleanza esprime la relazione dinamica di Israele con il suo Dio e mette, contemporaneamente, bene a fuoco l'interpersonalità dialogica che qualifica tale relazione. Dio è colui che chiama l'uomo, gli parla, lo conduce, agisce verso di lui in modo sovranamente libero; egli incontra l'uomo in modo analogo a come le persone si incontrano tra loro. Ma, nello stesso tempo, è un Dio trascendente, altro, creatore di tutte le cose, e perciò anche Signore dell'uomo4.

    L'alleanza è l'immagine della possibilità della comunione, ma è insieme attestato dell'affermazione perentoria della distanza. Jpiwil non può essere riprodotto né nominato: la religione di Israele è iconoclasta. E tuttavia questo Dio lontano, inaccessibile, indicibile si manifesta, attraverso l'intreccio complesso delle relazioni umane, nella storia. Israele diviene popolo di Dio in quanto riconosce la propria identità nel mistero di JHWH, che si rivela a lui senza lasciarsi afferrare; scopre il senso del suo cammino in un Dio presente e assente, con lui e al di là di lui5.

    Contemplare questo "piano" - riconoscere nell'intreccio storico questo Altro, al di là della sfera mondana, dunque lontano, ma in essa presente, insieme vicino, nella luce che non sopporta l'oscurità del peccato, l'ingiustizia e la schiavitù - è la preghiera di Israele. Nella contemplazione della "creazione", del mondo delle relazioni, vive la preghiera, l'"atto di parola", la profezia ... La preghiera è vita obbediente: nella comunicazione in cui si legano uomo e origine, la Parola il cui senso viene significato - per questo la Parola biblica non è mai derelazionata al mondo-ambiente, non è puro suono - viene detta e ascoltata e compresa esistentivamente. A quella Parola, in cui Dio "si rivela", si risponde nella vita con la vita. La preghiera è vita avvolta nel mistero di Dio, nella sua Parola, e a esso obbediente: Dio è Creatore e Signore della storia, è l'essenziale, vita nel deserto, e per esso, vita6.

    La spiritualità dell'AT comporta l'adesione all'unico Dio e l'osservanza dei precetti come conseguenza. La fiducia nell'amore fattivo di Dio verso il popolo non si risolve in pura consolazione interiore, ma sollecita l'obbedienza e si manifesta pienamente in essa: come l'amore di Dio per Israele non sussiste indipendentemente dai suoi interventi concreti nella storia, così l'amore del popolo per il suo Dio deve rendersi trasparente nella fedeltà alla sua legge.

    La preghiera è perciò riconoscimento di Dio che opera nella storia per la salvezza del popolo. Essa non nasce dall'iniziativa dell'uomo, non sale a Dio mossa anzitutto dal desiderio e dalla necessità; ma è provocata e resa possibile da Dio. L'atto fondamentale è perciò l'ascoltare la Parola e la chiamata di Dio (cf. Dt 4,1; 6,4). Ma la chiamata di Dio è insieme una richiesta e una promessa. L'ascolto implica perciò una risposta di obbedienza a Dio che salva (cf. Dt 30,20; Sal 95,8).

    La struttura teologica della preghiera veterotestamentaria mette in luce anche il suo contenuto: esso consiste nell'accettazione grata della volontà divina di salvezza che si rivela nella parola di Dio che chiama (cf. Sal I I 9 , I 2-16). La liberazione si fa in essa concreta e tangibile per chi risponde nella fede.

    Il credente vive la preghiera all'interno di due esperienze apparentemente contraddittorie: l'esperienza della prossimità di Dio, della sua paternità nella storia del popolo e nella propria vita, e l'esperienza della maestà di Dio, la quale suscita sgomento e timore, e davanti alla quale l'uomo cerca di nascondersi. Le due esperienze stanno assieme: il Dio della Bibbia è infatti vicino e lontano, misericordioso e santo. Egli non cessa di essere lontano anche quando si è fatto vicino: "Io sono padre, dov'è l'onore a me dovuto? E io sono il Signore, dov'è la riverenza?" (Ml 1,6). Questi aspetti paradossali e ambivalenti spiegano perché il linguaggio che ha il sopravvento, nella preghiera, è il linguaggio simbolico; un linguaggio che non si traduce in forme concettuali nozionali, ma si pone in una logica diversa: intuitiva, evocativa, allusiva; un linguaggio che si serve dell'esperienza umana, ma che ci trasferisce altrove, immergendoci nella comprensione di una verità segreta e vivente; aprendoci, in altri termini, alla percezione del mistero.

    Il senso storico-salvifico delle prove della fede, che mettono in crisi la preghiera, è purificatorio. Il venir meno di appoggi umani convince il credente a cercare la salvezza nei beni intramontabili, provocando così un iter di interiorizzazione della preghiera. La solitudine e l'abbandono aprono il cuore al Signore. Il risultato è il dono di una nuova, più intensa esperienza spirituale di comunione con JHWH, che neppure la morte può annullare. Si chiarisce, in profondità e in interiorità, il senso del rapporto con Dio.

    L'uomo oppresso cerca in Dio il suo rifugio; Dio è per lui il santuario in cui trova asilo (cf. Sal 57,2; 59 , 17; 64,11); cerca protezione nella sua vicinanza (cf. Sal 17,8; 61,5). La sua anima attende in silenzio l'aiuto del Signore (cf. Sal 27,14; 62,2.6). La fiducia nuovamente ricuperata gli fa comprendere la felicità della comunione con Dio, che gli appare più preziosa di tutti i beni di questo mondo (cf. Sal 16,2.5-6; 27,8-9; 63,4). La preghiera crea in tal modo quell'atmosfera in cui Dio inspira all'uomo il desiderio dell'eterna comunione con lui e gli infonde la speranza di ottenerla.

    Qui tocchiamo il vertice della preghiera dell'AT. Essa mostra aspetti di mistica intimità e unione a Dio e scaturisce da una fede purificata. L'orante ha superato il mondo con le sue lusinghe e calamità. Soltanto gli basta la certezza della vicinanza di Dio. Dio è la sua porzione. La sua gioia è stare con lui. Vivere nella mano di Dio significa "essere rapiti in gloria". Chi cerca Dio e ama la sua "sapienza" è "amico di Dio" (Sal 7,27). Ciò è tanto più meraviglioso quanto più le circostanze esterne del popolo di Israele sono sfavorevoli all'orante, una impenetrabile oscurità sovrasta i credenti. Il libro di Qohelet, l'Ecclesiaste, ha sottolineato questa oscurità in modo impressionante. Nessuno penetra più le vie di Dio. L'attenzione del singolo è sempre richiamata su di sé, sul suo personale rapporto con Dio, sulla sua preghiera. Per questo si deve dire dei grandi oranti di questo tempo ciò che la Lettera agli Ebrei dice degli eroi della fede: "Nella fede tutti costoro morirono senza aver conseguito i beni promessi, ma dopo averli veduti e salutati da lontano e dopo essersi professati stranieri e pellegrini sulla terra" (Eb 11,13). L'atteggiamento dell'orante fedele di questo tempo è ottimamente indicato nei versetti del salmo 13o: "Io spero in JHWH con tutta l'anima, mi abbandono alla sua Parola ... Sto in attesa del Signore più che le sentinelle dell'aurora ... Perché presso il Signore vi è misericordia e da lui viene generoso riscatto. Egli riscatta Israele da tutte le sue colpe" (vv. 5-8)7.

    Questi diversi aspetti della preghiera veterotestamentaria si trovano condensati soprattutto nei salmi, che sono il tentativo di tradurre in preghiera la storia del popolo di Israele. Sono storia pregata, azione salvifica di Dio e risposta dell'uomo. Esprimono la consapevolezza che Dio è all'opera e che l'uomo è inserito - con compiti precisi - nel suo misterioso progetto. La preghiera dei salmi esprime, in definitiva, la presa di coscienza della povertà e precarietà umana e l'attesa fiduciosa del dono della grazia del Signore.

    I salmi, d'altronde, non hanno un'andatura univoca; essi manifestano la vicinanza, ma insieme anche la lontananza - basti pensare a quelli di abbandono - di Dio. Il tormento del credente è conseguenza della costante presenza, nella vita, di luci e tenebre: è necessario coltivare un'attitudine di fiducia. La preghiera svolge, nella storia di Israele, questa funzione: essa riflette le inquietudini, che si traducono in domanda e accusa a quel Dio nel quale è possibile trovare forza e consolazione.

    Ma la preghiera è soprattutto il luogo in cui Israele scopre, in modo sempre inadeguato, il volto di Dio, la sua essenza, che è assoluta trascendenza. Il Dio biblico non esiste secondo il modo di un oggetto e non può essere adeguatamente pensato ed espresso in maniera oggettiva. Nella Bibbia la negazione dell'oggettivazione, quindi l'impedimento al formarsi di false concezioni di Dio, si traduce nella proibizione delle immagini. Infatti, l'immagine può riportare soltanto degli oggetti. "Non ti fare nessuna scultura né immagine delle cose che sono su nel cielo, o sulla terra, o nelle acque sotto la terra. Non adorare tali cose, né servire loro; poiché io, il Signore Iddio tuo, sono un Dio geloso" (Es 20,45). "A chi assomiglierete Dio e di quale paragone vi servirete a suo proposito?" (Es 40,18).

    Da ciò si deduce che Dio è, in ultima analisi, indefinibile. Compito delle definizioni è quello di circoscrivere, di fermare l'essenza delle cose e delle persone. Ma il Dio biblico circoscrive tutto il resto, senza mai poter essere afferrato, e quindi compreso da nulla. Questo fa si che egli, a differenza degli dèi delle religioni che circondano Israele, non riproduca la regolarità della pratica naturale e sociale. Non è il Dio dei cicli della vegetazione o dei ritmi della fecondazione né delle ripetizioni planetarie o delle sacralizzazioni del potere costituito, come erano gli dèi di Canaan, dell'Egitto e dell'Assiria. Il vero volto di Dio non è l'immutabilità, ma la novità. Dio è colui mediante il quale il nuovo sopraggiunge nell'immutabilità umana. Egli è sorpresa, perché sconvolge la regolarità sistematizzata e costituisce l'istante dell'inedito; è imprevedibilità instauratrice. Egli appare come l'irregolare della società, l'imprevedibile della storia, la contingenza di una grazia che non è arbitraria, perché testimonia la libertà dell'amore e non il capriccio di un'indifferenza. Egli è colui che afferma la creatività umana, colui che valorizza la storia e potenzia la vitalità del relativo.

    A rendere ragione di questa lettura concorre, in misura determinante, la categoria della ripetizione che - come ha lucidamente osservato Søren Kierkegaard - è una categoria fondamentale per la fede. Senza la ripetizione, infatti, la fede è incapace di comprendere in che modo la contingenza non si riduca continuamente a far esplodere il vecchio per proiettarsi verso un nuovo sempre più irraggiungibile e immaginario. La libertà di Dio, manifestandosi nell'alleanza, crea la novità del reale. Essa è certamente inizio, e non rafforzamento dell'antico, ma è anche ricominciamento dell'antico e non continuo futurismo.

    La preghiera è per Israele il momento privilegiato della presa di coscienza della novità di un Dio che lo stimola a rinnovare profondamente il cuore, convertendosi ogni giorno e in ogni istante; che lo spinge a impegnarsi nella costruzione di un mondo diverso, liberato dall'ingiustizia e dalla paura, a preparare, in altre parole, i "cieli nuovi" e la "nuova terra" vivendo, fino in fondo, la tensione al futuro. Nello stesso tempo, la preghiera è memoria delle grandi gesta di liberazione che JHwH ha compiuto, e annuncio, profezia, promessa di ciò che deve ancora venire, della permanente e sconcertante sorpresa che JHWH riserva al suo popolo. Come tale, la preghiera è rivoluzionaria, perché è stimolo ad assumere l'esistenza per trasformarla secondo il volere di Dio.

    Non c'è dunque frattura tra preghiera e vita, tra il culto di JHWH e la promozione dei valori etici, tra l'adorazione del Dio "tutto santo" e l'impegno per la giustizia e per la liberazione umana. Anzi, è nella preghiera e attraverso la preghiera che questo impegno riceve consistenza, perché il Dio sempre nuovo è il fondamento della possibilità di rinnovare il mondo; è la ragione della permanente contestazione della realtà.

    Questa dimensione della preghiera veterotestamentaria si esprime anzitutto nella letteratura profetica. La preghiera per i profeti deve costruire e rendere manifesta la "religione del cuore"; deve condurre a una profonda trasformazione di tutto l'essere dell'uomo e di tutta la sua religiosità. E il culto della vita e della storia, che va verso il compimento della promessa del Signore. La fiducia nel Dio che viene a salvare l'uomo e il mondo dà al credente un senso di sicurezza, che lo stimola a gettarsi ancora più dentro la realtà per vivere l'avventura del-l' amore .

    Sia pure con accenti diversi, simile è la prospettiva adottata dai libri sapienziali. La preghiera è per essi il luogo della maturazione di una sapienza non contingente - presente tanto nella natura quanto nella storia - attraverso la quale si sviluppa la consapevolezza del disegno

    divino (cf. Sir 17,7.11). La Sapienza è infatti all'origine dell'universo, che non solo ha creato, ma che continuamente illumina e trasfigura; essa è portatrice del pdthos divino trasmesso all'intera realtà creata; ma essa rifulge soprattutto nell'intimità dell'uomo, orientandone la crescita verso la pienezza. La preghiera sgorga dalla contemplazione di tale Sapienza non solo all'esterno - nell'ordine e nella bellezza del mondo - ma anche all'interno, nel profondo della coscienza umana. Ma tale contemplazione non è fine a se stessa; obbliga a una profonda metànoia e all'assunzione di un atteggiamento nuovo verso le realtà create, che vengono percepite come espressione di un pensiero e di un amore infiniti. La possibilità di cogliere il senso ultimo che si nasconde in esse, e nei rapporti che tra esse si istituiscono, sollecita a un impegno di radicale dedizione nei loro confronti. Ma la creazione, in quanto manifestazione della Sapienza, è teofania che esige venerazione e che sollecita l'impegno a portare a compimento ciò che Dio ha inaugurato con la sua opera creatrice.

    Infine, non si può dimenticare che la preghiera di Israele è ancora, prevalentemente, una preghiera di domanda.

    La preghiera mistica che si inabissa e penetra nell'immensità di Dio ... non ha trovato un posto nei motivi dell'AT. Si deve credere (con Heiler e Eichrodt) che, come il Dio dell'AT anziché rivelarsi quale essere che riposa nella propria beatitudine si manifesta piuttosto come re eterno dalla volontà sovrana, così anche l'israelita non è un mistico che rinunci a questo mondo inebriandosi di quello dell'aldilà, ma piuttosto un combattente che lotta anche nella preghiera e che anela a una vita forte in unione al sovrano divino. Fine suo non è l'entità statica del summum bonum, quanto quella dinamica della sovranità divina8.

    Ma il Dio veterotestamentario contesta la pretesa sacrale della preghiera petitiva. JHWH non è un Dio "tappabuchi" né per il mondo interiore dell'uomo, né per il mondo esterno. Quindi non è colui che risponde a esigenze, né della ragione teoretica, fungendo da complemento alle cause naturali insufficientemente conosciute; né di quella pratica, come se potesse essere chiamato in causa ogni volta che nel cuore dell'uomo insorgono il vuoto, il disordine e la confusione. E il Dio che allarga gli enigmi del mondo, interno ed esterno, come emerge dai dialoghi del libro di Giobbe (cf. Gb 7,1-20; 19,1-9; 23,3-8; 27,2-5).

    Il Dio di Israele, il Dio dell'alleanza, che vive nella rivelazione della Torà e dei profeti, nel culto e nella confidenza dell'uomo credente non fa che accrescere l'insensatezza della vita di Giobbe. E scomparso il significato della vita, fondata dal Creatore buono e sapiente ... La sofferenza di Giobbe non può essere neanche considerata come una purificazione, poiché non esiste alcuna prospettiva di tempi migliori, in vista dei quali una purificazione potrebbe assumere un certo significato. Invece no, il fatto che Dio esiste è la più grande fonte di dolore. Dio è fin troppo presente, Dio schiaccia l'uomo, Dio non lo lascia in pace, non gli dà un istante di tregua. Ma, allo stesso tempo, Dio è anche assente e nascosto all'uomo che vuole parlargli. E mentre l'uomo in tutto il suo dolore sente che egli vive, respira e parla, Dio dall'alto del trono fa di tutto per distruggere quell'uomo che egli stesso ha creato. E impossibile lamentarsi. Diritti non ne esistono affatto, poiché il giudice supremo è contemporaneamente avversario, giudice, accusatore e accusato. Ma il peggio è che l'uomo non può vivere senza questo Dio. Anche nella sua miseria ha bisogno di Dio. Perciò deve parlare, gridare verso Dio, pur sapendo che non ha senso. Ben sapendo che Dio non lo ascolterà, deve aggrapparsi a Dio, giacché senza Dio non è nulla. Se è possibile percepire ancora una voce "positiva" nei dialoghi di Giobbe, è questo aggrapparsi a Dio: "Oh, io so bene che vive il mio difensore" (19,25). In tutto il libro di Giobbe la crisi non sembra assumere alcun significato. Ma all'interno di tutta la Bibbia, la crisi del libro di Giobbe ha un senso simile alla crisi di Israele durante l'esilio. Come l'esilio ha distrutto l'immagine idolatrica del Dio dominatore, così nella crisi di Giobbe viene distrutta l'immagine idolatrica del Dio impassibile e imparzialmente giusto9.

    La preghiera di domanda viene in tal modo liberata del suo contenuto sacrale, e perciò purificata. Il Dio biblico è un Dio esigente, vuole che l'uomo se la cavi da solo nel mondo; si assuma con coraggio le sue responsabilità; viva il dramma dell'esistenza con dignità e con fortezza, senza fare appello di continuo a lui. La preghiera è lotta, è conflitto, è dialettica; è invocare J-Hwx come l'ultima speranza, il senso definitivo, senza sottrarsi alla ricerca dei significati immediati delle cose, e soprattutto senza venire meno all'assunzione della propria responsabilità storica.

    La preghiera di Israele è, in definitiva, un cammino vissuto nell'oscurità e nella tensione. Un cammino che conduce alla scoperta della propria povertà e dell'assoluta gratuità del dono di Dio. Un cammino che passa attraverso la storia come luogo entro il quale è possibile cogliere la novità permanente del progetto di Dio e impegnarsi a edificarlo. Un cammino, infine, che ha quale sbocco il mistero inaccessibile della vita di Dio, comunicata parzialmente all'uomo perché, attraverso la sua esistenza, porti a compimento il disegno divino.

     

    L'esperienza di Gesù

    Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà (Lc 22,42).

    La preghiera riceve in Gesù un nuovo e insuperabile fondamento e una definitiva finalizzazione. La riflessione cristiana scopre nella preghiera di Gesù quell'intrinseca unità di parola e di azione, che appartiene costitutivamente alla struttura antropologica del pregare. Gesù raccoglie infatti la tradizione orante di Israele, ma insieme la trascende. La preghiera di Gesù è, nel contempo, fedele alle usanze giudaiche e totalmente nuova: la sua vita di Figlio unico del Padre celeste è tutta sostenuta dall'unione intima con lui, unione che ha la sua espressione visibile nella preghiera.

    Essa è fatta, anzitutto, di ascolto della volontà del Padre e di risposta alla sua chiamata. I momenti cruciali della vita di Gesù, quelli delle decisioni più significative e degli avvenimenti più importanti, sono contrassegnati dalla presenza della preghiera: una preghiera personale e solitaria, che egli rivolge al Padre. Nelle ore difficili, quando si tratta di dare attuazione al progetto che il Padre gli ha assegnato, Gesù prega: al momento del battesimo e dell'unzione dello Spirito al Giordano (cf. Lc 3,21); quando il popolo lo circonda con i suoi affanni (cf. Mc I ,35 ; 6,46); prima della scelta degli apostoli (cf. Lc 6,1 2); prima di conferire a Pietro il primato (cf. Lc 9, 18); prima della trasfigurazione (cf. Lc 9,28); prima della passione (cf. Mt 26,36 ss.).

    Fondata sulla comunione del Figlio con il Padre, la preghiera di Gesù è strettamente legata - come osserva ripetutamente Luca - alla sua missione; è la sua totale, definitiva, irrevocabile risposta al disegno del Padre. Una risposta che è frutto dell'immediata vicinanza a lui, della particolare coscienza del legame filiale che lo unisce a lui. Ma insieme una risposta che cresce quanto più egli vive la sua esperienza umana nel mondo. Su questo sfondo anche i diversi tipi di preghiera di Gesù acquistano il loro significato più profondo: essi sgorgano infatti tutti dall'amorosa obbedienza e sfociano nella radicale adesione al disegno del Padre.

    La preghiera di Gesù è dunque disponibilità, accoglienza, recettività; è un lasciarsi fare da Dio; è consapevolezza che Dio è, anzitutto, colui che parla, in lui e attraverso di lui, perché la stessa essenza di Cristo è Parola, Parola eterna del Padre.

    Dio - ha scritto Romano Guardini - non è soltanto l'Onnisciente, il Potente nel rivelarsi, ma è Colui che parla. Sì, egli stesso esiste in forma di parola: "In principio era la Parola, e la Parola era presso Dio. E la Parola era Dio. Così era in principio presso Dio" (Gv 1,1-2). Chiamando il Figlio Lógos si esprime qualcosa su Dio in sé. La Parola costituisce il cuore dell'essere divino. Dio è in sé Colui che parla, Colui che è parlato e Colui che interiorizza nell'amore il dialogo eterno ... Tutte le cose provengono dalla parola di Dio e portano, quindi, i caratteri della parola. Non sono soltanto delle realtà, non sono neppure dei fatti sensitivi, collocati in uno spazio muto. Sono parole di Colui che parla e crea, rivolte a chi "ha orecchie per intendere". Il mondo non è solo provenuto dalla Potenza, neppure solo dal Pensiero, ma anche dal Linguaggio. Le sue voci formano delle parole mediante le quali il Dio creatore esprime nel finito la sua pienezza di significati. Esse sono inviate a cercare chi le comprende ed entra, per mezzo di loro, lodando, ringraziando, obbedendo, nella relazione a tu per tu con Colui che parla, come creatura e Creatore ... Il fatto che il mondo esista in modo dialogale è anche il fondamento per cui in esso esiste la possibilità di parlare. Essa non consiste solo nel fatto che l'uomo possegga il dono del linguaggio, mentre le cose costituiscono le forme obiettive della percezione che possono essere manifestate per mezzo della parola. Ma consiste anche nel fatto che il mondo stesso ha una forma dialogale, proviene da un linguaggio ed esiste in quanto viene detto. Se così non fosse, l'essere non accoglierebbe affatto un discorso umano. In lui le parole andrebbero vagando come spettri folli10.

    Gesù Cristo, nella dimensione più profonda del suo essere, testimonia questa dialogicità di Dio e della realtà creata, perciò dell'esistenza umana nel mondo. E la parola di Dio, che proviene dal Padre e che da sempre si attua nell'amorevole movimento di risposta al Padre nello Spirito; ma, insieme, è la parola del mondo e dell'uomo che, nella sua origine e nel suo sviluppo, è l'immagine, posta liberamente da Dio, della Trinità immanente. Il Dio della rivelazione cristiana - è questo il messaggio da raccogliere - non è un Dio fuori dallo spazio e dal tempo, bensì dentro; è il Dio della storia, il Vivente, il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe; il Dio di Gesù Cristo. Il mistero dell'incarnazione suggella questa visione: non si può pensare Dio al di fuori di quest'ottica; Dio va cercato e trovato nella concretezza della vita e della storia. Questo significa riconoscere che il mondo possiede una dimensione di interiorità spirituale, in quanto in esso si rende trasparente l'azione salvifica divina, e soprattutto significa fondare la necessità dell'impegno umano per la sua crescita.

    La preghiera di Gesù non è dunque soltanto espressione della sua consapevolezza di essere fatto dalla parola di Dio, ma della percezione di essere la parola di Dio: pregare è per lui riconoscere se stesso, vivere l'autocoscienza del suo essere. Ma essa è, nel contempo, espressione della sua umanità che risponde a Dio con tutta se stessa, con i suoi bisogni e le sue precarietà, con le sue speranze e le sue angosce. Gesù ci insegna, perciò, che la preghiera è, in primo luogo, vivere nella disponibilità, lasciarsi fare, assumere un atteggiamento di recettività, perché Dio parli con noi e in noi. Ed è, in secondo luogo, proiettarsi nel mondo con una lucida coscienza del mistero che circonda la realtà e con quella passione che conferisce a essa pienezza di senso. Così la preghiera diventa la trasparenza dell'essere dialogale dell'uomo com'è stato, fin dall'inizio, creato da Dio (cf. Gen 1,26).

    Nella preghiera di Gesù non si riflette, pertanto, solo la coscienza della profonda e costitutiva comunione con il Padre, che si traduce in colloquio; si riflette anche l'attenzione al piano di Dio per capire la propria vicenda, per maturare la propria scelta, rinnovarla, collocarla nel progetto del Padre, ritrovare il coraggio di continuare il cammino.

    Il grande abisso che si apre tra la preghiera rivolta a Dio perché venga il suo Regno e la richiesta di concedere all'uomo il pane quotidiano è superato dall'invocazione "Padre". Il Padre celeste provvede a tutte e due le cose: bada alle cose grandi, ma si preoccupa anche di quelle piccole. L'abbandono fiducioso, che fa parlare a Dio nel modo con cui un bambino si rivolge al padre suo, e che pone tutto nelle sue mani, dà al Padre nostro il carattere della preghiera propriamente cristiana11.

    La preghiera di Gesù non è perciò una preghiera alienata; è impegnata nella condivisione e nella redenzione del mondo e dell'uomo; è profondamente inserita nelle vicissitudini e nei problemi della condizione umana, che egli stesso ha sperimentato. Ha un respiro universale e politico. E il grido al Padre "perché tutti siamo una cosa sola"; è opera di riconciliazione, cioè di superamento delle distanze, dei conflitti e degli egoismi che dividono gli uomini. Questi tratti sono particolarmente evidenti nella grande preghiera sacerdotale, in cui prorompe il desiderio che Gesù ha di compiere l'opera del Padre (cf. Gv 17,1); ma in cui emerge, al tempo stesso, la sua mutua immanenza nel discepolo e del discepolo in lui (cf. Gv 17,2o-23). In questo contesto la preghiera di Gesù assume i connotati di una permanente intercessione ("Sempre vivo per intercedere a nostro favore": Eb 7,25); diventa preghiera sacerdotale in cui si rivela l'intimità dell'essere di Gesù e la sua radicale disponibilità a offrirsi per la salvezza degli uomini. La manifestazione più alta di questa tensione è sulla croce, dove il giusto che si è unito al popolo per sottrarlo al rischio della perdizione, prega per i responsabili della sua morte: "Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno" (Lc 23,34).

    Gesù vive, nel suo atteggiamento interiore, l'unità di contemplazione e azione. Egli è occupato, totalmente e in ogni momento, nella contemplazione dell'amore assoluto del Padre, che è per lui il metro decisivo della sua azione: ciò che unifica pienamente la sua esistenza è la piena adesione alla volontà del Padre per collaborare alla realizzazione del suo disegno d'amore. L'eccezionale esperienza che egli fa del suo rapporto con il Padre - l'appellativo Abba con cui si rivolge a lui rivela il clima delle relazioni familiari - conferisce unità al suo progetto storico e al suo messaggio. In questa esperienza, del tutto singolare, contrassegnata da un'immediata ed estrema fiducia, si rende trasparente, da un lato, la sua estrema libertà - egli si sente sottratto a ogni vincolo anche nei confronti della stessa legislazione religiosa del mondo giudaico cui appartiene - e si svela, dall'altro, il mistero soggiacente alla sua persona, nel quale si condensa l'intera realtà della salvezza: il Padre si è fatto vicino a noi nel volto di un uomo.

    Ma la preghiera di Gesù esprime soprattutto la sua solitudine: una solitudine che non nasce dalla povertà, ma dalla ricchezza. Gesù era consapevole della sua filiazione divina: mistero unico, originale, irripetibile. Per questo egli si ritira - da solo - a pregare. Non gli era sufficiente parlare con gli uomini: avvertiva un vuoto che solo il Padre poteva colmare; una ricchezza che solo il Padre poteva capire e condividere. Invocandolo, senza nulla pretendere, egli si rimetteva totalmente nelle sue mani, accettando incondizionatamente la sua volontà, fino al sacrificio; ma, insieme, anelando a un incontro pieno che la sua appartenenza al mondo non rendeva possibile.

    La preghiera di Gesù ha, anche in questo caso, un valore paradigmatico. In essa viene infatti alla luce la solitudine del credente, che si sente emigrante, insoddisfatto del presente e proteso al futuro, pellegrino verso Dio e quaggiù straniero, mai perfettamente integrato e capito, mai sufficientemente espresso. La Bibbia è stata giustamente definita "il libro dell'angoscia umana", poiché in essa è chiaramente espressa l'accettazione fondamentale dell'inquietudine e il rifiuto di insediarsi in qualcosa che potrebbe mascherarla. In Gesù essa esplode in modo pieno e definitivo.

    Lungi dal cercare di dissimulare questa angoscia radicale del fallimento e del venire meno con una qualunque speranza mitologica o fantastica, Gesù Cristo pervade invece integralmente quest'angoscia in ciò che essa ha di più apparentemente disperato. I racconti della passione, da questo punto di vista, sono sufficientemente espliciti. Ed è proprio in lui che questa angoscia umana, non più misconosciuta ma al contrario pienamente accettata, esplode in una speranza le cui dimensioni sono inaccessibili tanto all'immaginazione quanto al ragionamento. Libro dell'angoscia umana senza alcun dubbio, la Bibbia si completa e si sviluppa nell'esplosione del senso di quest'angoscia12.

    La ricerca umana è tutta orientata verso questa grande speranza. Le cose del mondo, anche le migliori, sono immagini di Dio, vestigia della sua presenza, ma non Dio. Così la preghiera è il segno che l'uomo è fatto per lui; un tentativo impaziente di accelerare i tempi per ritrovarsi subito con il Padre di cui si è immagine.

     

    La preghiera dei cristiani

    Erano assidui nell'ascoltare l'insegnamento degli apostoli e nell'unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere (At 2,42).

    La preghiera di Gesù è la norma e il fulcro della preghiera cristiana, la quale è, infatti, nel suo significato più profondo, un andare "per mezzo di Cristo al Padre" (Ef 5,2o; Col 3,17). Gesù mette i cristiani in condizione di chiamare Dio "Padre", rendendoli partecipi della sua figliolanza.

    In ultima istanza e conclusivamente, vi è un'unica "sintesi" in cui Dio stabilisce il suo rapporto con il mondo: Cristo, il Verbo del Padre fatto carne. Egli è la misura della vicinanza e della lontananza; egli è l'analogia entis divenuta concreta. Egli è l'evento irripetibilmente unico, che tuttavia è normativo per tutto quanto appartiene al mondo12.

    La discesa del Verbo nell'umanità ha fatto di lui la misura dell'uomo, ma anche la più alta espressione della conoscenza che l'uomo può avere di Dio. La preghiera cristiana deve perciò sempre avvenire "nel nome di Gesù" (Gv 14,13-14; 15,16; 16,23.26), perché, nella misura in cui questo si verifica, si è sicuramente esauditi (cf. Mc 11,24; Gv 14,13-14; 15,7.16; 16,23.26). Ora, preghiera "nel nome di Gesù" significa sull'autorità del suo nome e per mezzo di lui, cioè conformemente alla vera conoscenza di Dio "in spirito e verità" (Gv 4,23-24): indica cioè quella forma di adorazione che è possibile ai figli di Dio, a coloro cui Gesù ha dischiuso l'accesso alla realtà divina o che sono nati dallo Spirito (cf. Gv 3,5). Ma, soprattutto, preghiera "nel nome di Gesù" significa "con i sentimenti di Gesù".

    Quali fossero i sentimenti di Gesù ce lo insegna il Padre nostro; in esso sono menzionate le grandi istanze della preghiera cristiana: la manifestazione della gloria del Padre, la venuta del suo Regno, l'attuazione della sua amorosa volontà, il perdono delle colpe, la preservazione nella grande prova; ma anche il pane quotidiano, perché la salvezza si attua pur sempre in questo mondo e nella sua storia, nella realtà temporale con le sue necessità. Il cristiano può e deve perciò chiedere anche cose temporali, ma appunto in queste è invitato a cercare la volontà di Dio e a non perseguire i propri egoistici desideri. Gli occorre pertanto discernimento, guida e illuminazione. Questi doni sono elargiti al cristiano dallo Spirito santo14.

    La vera profondità della preghiera cristiana, fino alla preghiera mistica in cui l'uomo sperimenta l'unione con Dio e la sua volontà amorosa in modo oscuro e inesprimibile, è nello Spirito. E lo Spirito che prega dentro di noi: "Lo Spirito stesso testimonia nel nostro spirito che siamo figli di Dio" (Rm 8,16). E lui che grida in noi "Padre" (cf. Gal 4,6); è lui che assume la nostra debolezza umana e intercede per noi "con gemiti inenarrabili" (Rm 8,26). La preghiera nello Spirito è capacità di percepirne la presenza nel profondo della coscienza e di sollecitarne l'effusione che non stimola soltanto alla pienezza della conoscenza, ma anche all'impegno fattivo nel mondo nel segno dell'abnegazione di sé e della dilatazione della vita divina. Dallo Spirito viene infatti la sapienza, che non è soltanto una forma più alta di conoscenza delle cose, ma è un'esperienza che implica un coinvolgimento esistenziale globale, e che dà conseguentemente luogo all'adozione di nuovi stili di vita. Per questo Paolo sottolinea la necessità che lo Spirito ci apra il cuore alla sua luce, "affinché sappiamo quale speranza ci dà la sua chiamata, qual è la ricchezza della sua gloria e dell'eredità che avremo con i santi" (Ef 1,17-18)15.

    Ma lo Spirito è dono. Un dono alla cui accoglienza ci si dispone, ma pur sempre un dono. Un dono che esige una risposta sovranamente libera. La preghiera, come la fede, non è la conclusione di un ragionamento, anche se è un'attività sommamente ragionevole. E, in definitiva, un atto di libertà. Essa è riducibile, nella sua natura più vera, alla dimensione del dono: del dono offerto e del dono accolto. E, mentre il dono è un dato obiettivo, e ha tutta la densità metafisica dell'essere e della vita di Dio, la sua accoglienza è un fatto esperienziale, suffragato da una testimonianza psicologica tipicamente ricettiva; al punto di poter affermare che la psicologia della mistica altro non è che la psicologia dell'accoglienza (che è poi, in ultima analisi, la psicologia più tipicamente umana). E proprio dell'uomo infatti il ricevere, com'è proprio di Dio l'essere all'origine prima delle cose, ossia (a prescindere da ogni cosmogonia) l'essere in uno stato effettivo di oblatività e di oblazione, concetto che la fede cristiana ha sviluppato fino all'incarnazione e personificato nella figura dell'Emmanuele: Dio che si fa uomo, Dio con noi, il Dio donato che, a sua volta, fa della vita dono per noi.

    L'esperienza mistica altro forse non è che l'esperienza religiosa, in quanto, di fronte a Dio che si qualifica nel dare, la creatura è creatura nel ricevere; nell'essere, appunto, creata, nel ricevere se stessa e la sua propria crescita. E forse, in modo particolarmente tipico, è l'esperienza cristiana fondata su un Dio che pianta la sua tenda tra gli uomini chiedendo loro l'ospitalità. Se poniamo l'essenza della mistica nel dono, ne arretriamo il discorso e lo dilatiamo sulla misura della fede, ogni fede essendo appunto l'accoglienza di Dio che viene a noi con il dono di sé. A questo punto si rovesciano alcune prospettive; ed è la mistica che precede l'ascetica, e non viceversa, perché è Dio che muove il primo passo quando crea l'uomo e l'attesa nel cuore dell'uomo16.

    La preghiera cristiana è dunque, anzitutto, mistica; è estasi contemplativa; è disponibilità incondizionata a ricevere il dono dello Spirito. Ma la recettività - è bene ricordarlo - non è passività; presuppone la creazione di condizioni soggettive che esigono, da parte del credente, la coltivazione di alcune importanti attitudini interiori - quali il silenzio, la capacità di ascolto, la povertà interiore - e stimola l'insorgenza di una forma di azione tesa ad arricchire la storia di una trasformazione interiore, che rende trasparente la realtà del Regno. La manifestazione del Regno nella persona e nell'azione di Gesù conferisce infatti all'esperienza quotidiana una grande ricchezza di significati; le offre la possibilità di dare vita a un nuovo éthos - quello delle beatitudini - che diventa il programma al quale il discepolo deve ispirare la propria condotta.

    Alla radice della proclamazione delle beatitudini non vi è solo un nuovo programma religioso, ma una diversa e originale esperienza di Dio. O meglio: è la riscoperta dell'autentica esperienza biblica di Dio. Ma la liberazione e la giustizia per i poveri non è solo sperata e attesa per il futuro. La felicità ai poveri può essere proclamata fin dal presente perché Gesù è colui che inaugura la rivelazione della signoria di Dio. Questa attuazione dinamica del regno di Dio costituisce l'elemento qualificante delle parole e dei gesti di Gesù. L'irruzione del regno di Dio per Gesù non può ridursi a una proclamazione verbale, perché essa ha già incrociato la sua esistenza modificando radicalmente l'orientamento della sua missione. Dio si è fatto ora vicino e perciò il perdono e la grazia sono accordati ai peccatori17.

    La novità della condizione inaugurata da Gesù, rispetto alle attese profetiche, è la contemporaneità dell'azione liberatrice di Dio nella storia che dà inizio alla possibilità di un mondo nuovo e reclama pertanto la piena disponibilità del discepolo. Le esigenze etiche, alle quali occorre allora corrispondere, si concentrano nel comandamento dell'amore, che costituisce, nelle sue due facce - amore di Dio e amore del prossimo - la vera sintesi del progetto di Gesù, l'esperienza compiuta della volontà del Padre. Nel contesto della rivelazione di un Dio che non disdegna di farsi fratello degli uomini, le relazioni interumane ricevono una radice religiosa che giustifica la loro gratuità. Modello e fonte di tale gratuità è la bontà infinita del Padre riconosciuto e sperimentato in Gesù come il Padre misericordioso.

    All'origine del progetto etico di Gesù, concentrato nell'amore, non vi è solo e tanto un'intuizione dei valori morali come erano inculcati nella tradizione biblica e nell'insegnamento della sinagoga, ma una nuova immagine di Dio. In questo caso l'amore di Dio, vissuto nella relazione vitale di figlio-padre, non è solo un modello dell'amore tra gli uomini, ma è la fonte interiore delle nuove relazioni definite in termini d'amore gratuito e universale ... Amare Dio con cuore integro è l'esigenza di un dono, la relazione vitale che definisce l'uomo come figlio del Padre. Se Dio si è fatto vicino fino a questo punto a ogni uomo senza distinzioni etniche e religiose, allora anche l'amore del prossimo non è più un comando da eseguire, ma un'esigenza interiore e radicale della nuova esperienza di Dio. In breve, l'amore è la qualità della nuova relazione con Dio e tra gli uomini, perché Dio stesso si è rivelato in Gesù con il nuovo volto di Padre18.

    La preghiera cristiana non solo è inseparabile dall'adesione al comandamento dell'amore, ma è frutto di tale esperienza. L'amore di Dio, che è il senso ultimo della preghiera, rompe la chiusura dell'io per aprirlo alla ricezione di ogni creatura, a un'universalità radicale, all'amore del prossimo senza distinzioni, che altro non è che la sua logica conseguenza: tale amore non è infatti frutto di un'idea, ma dell'apertura sconfinata all'amore che l'uomo può fare propria accogliendola come dono dalla sovrabbondanza dell'amore divino. La preghiera diviene così espressione della vita teologale nella sua originaria unità, in quanto vita di fede, speranza e carità: essa si appoggia sulla fede come a fondamento, è caratterizzata dallo slancio della speranza nel Regno che viene, e appartiene, nella sua sostanza più profonda, alla sfera dell'amore. Più ancora: la preghiera si fa espressione dell'inabitazione trinitaria partecipata al credente, in cui si realizza pienamente il mistero dell'amore e da cui discende la possibilità di vivere, in sé e nei rapporti con gli altri, una forma di intimità interpersonale umanamente impossibile.

    Innestata nel cuore della nostra esistenza cristiana, la preghiera è un'attività che raggiunge la sfera divina. Tale è la sua ambizione e, per la grazia di Dio, quest'ambizione diviene realtà. La vita di preghiera, infatti, lungi dal ridursi a un'espressione accessoria della vita di grazia, scaturisce proprio da questa. In altre parole: non si può separare vita di preghiera e vita teologale, precisamente perché la grazia produce le virtù teologali che abilitano a raggiungere Dio mediante un'operazione spirituale19.

    Tutta la vita è dunque coinvolta in questo nuovo modo di essere, che ha la sua sorgente nell'irrompere di Dio nell'uomo, in una trasformazione interiore che è opera della grazia e che suscita un'attitudine nuova verso il mondo. In questo senso la preghiera del cristiano è adesione alla propria vocazione e alla propria missione nella storia. E disponibilità radicale all'adempimento della volontà del Padre. E impegno che coinvolge l'intero essere personale a preparare le vie del Regno che viene. La volontà del Padre non è infatti qualcosa di vago o di indefinito: ha per oggetto la maturazione di una vita nuova in noi che si traduce in un'assunzione di responsabilità nei confronti del mondo perché in esso si manifesti, in modo sempre più pieno, la venuta del Signore. Nell'autentica preghiera cristiana, infatti, il Regno non dev'essere solo invocato come realtà futura da attendere - "Venga il tuo Regno!" - ma sperimentato come qualcosa che si fa strada nella coscienza credente, che germoglia in lei e la spinge a creare i presupposti perché si consolidi la sua presenza tra noi.

    Paolo e Giovanni confermano questa visione, insistendo sulla profonda unità dell'esperienza cristiana, al punto che Paolo non distingue il momento della preghiera e del culto da quello dell'impegno apostolico, della predicazione o delle mille altre attività al servizio dei fratelli; mentre per Giovanni la fedeltà alla terra e alla storia - fedeltà garantita dall'azione dello Spirito - è una caratteristica distintiva dell'identità cristiana. Per Paolo la predicazione

    è un vero culto non meno di quello che si svolgerà nel tempio, ma che lui presta a Dio nello Spirito (cf. Rm 1,9). Sente che tutta la sua vita apostolica è come il sacrificio di un profumo offerto continuamente a Dio (cf. 2Cor 2,14) ... Tutto questo è significativo. Paolo ... ha, per usare una sua espressione precisa, "un approccio a Dio" (Rm 5,1) che il contatto con Cristo non riduce a tempi, ritmi, feste come quelle del tempio di Gerusalemme, ma è continuo e si ramifica in tutti i dettagli della vita. Paolo avverte che tutta la sua vita diventa davvero una liturgia continuata. È questo uno degli aspetti più caratteristici della sua spiritualità20.

    L'esperienza cristiana, per Paolo, raggiunge l'uomo nella sua concretezza globale, nelle diverse fasi della sua esistenza e nei vari aspetti che la qualificano: è, in qualche modo, una dimensione sottesa ai vari ambiti in cui si sviluppa l'esperienza umana nel mondo. Diversa, ma non alternativa, anzi, in un certo senso, complementare, è la prospettiva di Giovanni, che fa anzitutto leva sulla profonda, intima unione che lega Gesù al discepolo, e perciò sulla necessità che egli agisca in conformità alla sua nuova natura. L'allegoria della vite e dei tralci, che devono portare frutto a gloria del Padre (cf. Gv 15,1.17), delinea, da un lato, la mutua immanenza di Gesù nel cristiano e del cristiano in Gesù (cf. Gv 15,1-8) e, dall'altro, l'invito a rimanere nel suo amore (cf. Gv 15,9-17). L'imperativo è preceduto dall'indicativo: l'essere inseriti in Cristo ha un aspetto attivo e dinamico; esige un cammino incessante di rinnovamento della vita.

    La trascendenza divina che caratterizza tutta la spiritualità giovannea, fondata sulla nascita dall'alto, dallo Spirito, non va intesa quindi come una fuga dalla storia, né come una demondanizzazione mal intesa, in senso gnostico. Il cristiano è chiamato piuttosto a incarnarsi. Il suo movimento spirituale dev'essere dall'alto verso il basso e non l'inverso, dove "dall'alto" è il dono di Dio accolto nella fede e il "verso il basso" è la verifica pratica che questo dono è stato accolto, portando frutti d'amore. Deve perciò assumere questo mondo, trasformandolo ... [con una nuova dinamica]: l'amore stesso di Dio incarnato nel cristiano. A somiglianza di Gesù, che si è incarnato, anche il cristiano dovrà incarnare il suo amore nel mondo per trasportarlo nella sfera dello Spirito di Cristo, sfera e spazio creati dalla fede e dall'amore, che portano comunione e gioia piena (cf. I Gv  1,3-4)21.

    Anche in quest'ottica la preghiera appare una sola cosa con la vita; si alimenta alla vita e alimenta, a sua volta, la vita, diventando fonte inesauribile di un'attività che ha come contenuto fondamentale la crescita della comunione fraterna. L'originalità della preghiera cristiana sta dunque, in ultima analisi - in questo vi è una piena continuità con la tradizione veterotestamentaria -, nella sua assunzione entro il contesto dell'alleanza, cioè entro il mistero della fedeltà di Dio che "crea" il suo popolo in comunione con sé. Il culto spirituale della nuova alleanza è anzitutto l'esistenza cristiana, in quanto esistenza secondo l'alleanza in Gesù Cristo, che ci ha riconciliati con il Padre. In questo senso, essa ha la sua radice nel cuore - la vera preghiera è la "preghiera del cuore" - e si esplicita nel riconoscimento della propria povertà, della condizione di peccato in cui si è immersi e della liberazione da tale condizione che viene soltanto come dono e che è frutto della partecipazione alla vita del Risorto dai morti. Per questo

    nella preghiera del pubblicano evangelico è tutta la Bibbia, tutto il suo messaggio ridotto alla sua essenziale semplicità: confessione della signoria di Gesù, della sua divina filiazione, dunque della Trinità, dopo l'abisso della caduta che invoca l'abisso della misericordia divina. Il principio e la fine sono qui riuniti in una sola parola carica della presenza sacramentale di Cristo nel suo nome. Questa preghiera risuona continuamente in fondo all'anima, anche al di fuori della volontà e della coscienza; alla fine, il nome di Gesù risuona da se stesso e prende il ritmo della respirazione; in qualche modo, esso è "incollato" al respiro anche durante il sonno: "Io dormo ma il mio spirito veglia" (Ct 5,2). Gesù attirato nel cuore è la liturgia interiorizzata e il Regno nell'anima quieta. Il nome riempie l'uomo come il suo tempio, lo trasforma in luogo della presenza divina, lo cristifica. E l'esperienza di san Paolo alla luce di questa preghiera: "Non sono più io, è Cristo che vive in me"22.

    È oggi senza dubbio molto difficile fare questa esperienza di intima comunione. Il nostro mondo vive piuttosto l'esperienza dell'assenza, del silenzio di Dio. Ma questa esperienza fa parte della vita di fede, investe la vita religiosa nel suo complesso; e nella preghiera si fa più acuta, più percepibile, più disarmata. La preghiera è un luogo fragile; è un luogo in cui le tensioni e le tentazioni della fede si incontrano, si fanno più laceranti e, perciò, si purificano; è un luogo in cui spesso la fede è costretta ad abbandonare le illusioni e le false certezze di cui ama talora rivestirsi. Ne fa le, spese soprattutto la preghiera di domanda. E difficile domandare, riconoscersi poveri, in un mondo che presume di avere tutto e di spiegarsi da solo. Ma questo scacco può trasformarsi in occasione per rendere più autentica la stessa preghiera di domanda. Attraverso di esso siamo sollecitati a prendere coscienza che la fedeltà del Dio cristiano è al di là dei nostri progetti, e che pertanto la preghiera cristiana non può essere in nessun modo il tentativo di costringere Dio dentro i nostri schemi o di piegarlo ai nostri desideri. Essa si giustifica come un tentativo di creare uno spazio all'iniziativa divina. E una prima forma di povertà. Del resto,

    l'uomo che crede alla provvidenza, non crede che un intervento speciale di Dio muterà la sua condizione di finitezza e di alienazione. Crede, e con il coraggio di credere conferma a se stesso, che nessuna situazione riesce a impedire il compimento del suo ultimo destino, cioè che "nulla potrà dividerlo dall'amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore" (Rm 8,39)23.

    La preghiera ha, in definitiva, la struttura del linguaggio. Come il linguaggio, essa manifesta, dice il mistero, nel momento stesso in cui lo vela e lo nasconde, perché il contenuto di tale mistero è Dio stesso, che è, per definizione, l'ineffabile24.

    Attorno a questo polo è forse possibile stabilire il punto d'impatto biblico tra preghiera contemplativa e preghiera di domanda; esse sono infatti, nella loro più alta espressione, un colloquio d'amore, un dialogo tra due persone che si amano. In questo dialogo l'uomo impara a distinguere ciò che ha esistenzialmente un significato da ciò che è vano; scopre che è possibile dare a ogni situazione, anche la più ardua, una "possibilità creativa e salvifica", che, per provvidenza di Dio, "non può essere distrutto da nessuna difficoltà"25; sperimenta che la salvezza, che Dio ci elargisce, agisce già in questo momento della storia, come un seme, nelle profondità del nostro essere. Infatti ci è già stato concesso l'anticipo dello Spirito e ci è stato affidato affinché cresca (cf. 2Cor 1,22; Ef 1,35-36).

    La preghiera cristiana è la più alta espressione della fede e la misura più seria della sua autenticità. E espressione di fede, in quanto rivela quel mistero di filiazione che è depositato in noi. E espressione di fede, in quanto coscienza di dipendenza e insieme esperienza della vicinanza di Dio, che dà alla vicenda umana garanzia di consistenza e fa sprigionare un sentimento di gioiosa gratitudine. E misura dell'autenticità della fede, in quanto conversione, che ha origine nel confronto con una Parola la quale, venendo da Dio, ci giudica e ci rinnova interiormente. E, in definitiva, misura dell'autenticità della fede in quanto ci spinge a rifiutare ogni forma di idolatria terrena, che pretenda di imprigionare ed esaurire il nostro desiderio di assoluto.

    (Giannino Piana, Pregare e fare la giustizia, Ed. Qiqajon 2006, pp. 41-83) 

     

    NOTE

    1 R. Guardini, Il Signore, Vita e Pensiero-Morcelliana, Milano-Brescia 2005, parte VII.

    2 W. Kasper, Introduzione alla fede, Queriniana, Brescia 1979', pp. 95-96.

    3 Per un approfondimento del tema della preghiera nella rivelazione biblica, segnaliamo tra i numerosi studi: La preghiera nella Bibbia e nella tradizione patristica e monastica, a cura di C. Vagaggini e G. Penco, Edizioni Paoline, Roma 1964; G. Bernini, Le preghiere penitenziali del Salterio. Contributo alla teologia dell'AT, Apud Aedes Universitatis Gregorianae, Romae 1953; A. Hamman, La prière, I. Le Nouveau Testament, Desclée & Cie., Tournai 1959; F. L. Lefevers, The Piace of Prayer in Hebrew Worship as Reflected in OT, Diss. South-Western Baptist Seminary 1952; W. Marchel, Abba Père! La prière du Christ et des chrétiens, Biblical Institute Press, Rome 1971; H. Schürmann, Das Gebet des Herrn, Herder, Freiburg 1957.

    4 Il Dio personale e creatore della rivelazione ebraico-cristiana è stato storicamente l'irrinunciabile presupposto sia della possibilità di trascendere intellettualmente il mondo da parte dell'uomo, sia dell'affermarsi dello stesso concetto di "persona", cf. R. Guardini, Welt und Person, Werkbund, Wiirzburg 1950, p. 95.

    5 A ben vedere Israele ha avuto una storia lunga e complessa, nella quale si rifrangono le immagini di Dio e si sovrappongono alle immagini degli dèi dei popoli amici od oppressori. In questa storia di esodo e di immagini possiamo ritrovare, nella diversità delle tradizioni raccolte, un'immagine costante, o meglio, un'anti-immagine costante. La religione di Israele, per la sua vita seminomadica, si distingue dalle religioni delle altre popolazioni vicine, stabili, dedite all'agricoltura, la cui esistenza è scandita dall'azione protettrice delle divinità che, storicamente, sovrintendono gli aspetti diversi del reale. Le divinità sovrastano eternamente la vita degli uomini e da questi l'eternità è concepita come un infinito presente, come assenza di tempo, in cui si risolve il ciclo stagionale, cf. G. von Rad, Teologia dell'Antico Testamento, I. Teologia delle tradizioni storiche di Israele, Paideia, Brescia 1972.

    6 G. Camuri, "Preghiera e società", p. 43.

    7 F. Wulf, s.v. "Preghiera", in Dizionario teologico II, a cura di G. Riva, Queriniana, Brescia 1967, pp. 716-717.

    8 J. B. Bauer, s.v. "Preghiera", in Dizionario di teologia biblica, a cura di L. Ballarini, Morcelliana, Brescia 1965, p. 1089.

    9 Th. C. De Kruijf, "Der Kampf mit Gott", in Zerbrochene Gottesbilder 12 (1969), pp. 24-25.

    10 R. Guardini, Welt und Person, pp. 109-11I.

    11 H. Zimmermann, s.v. "Preghiera", in Dizionario di teologia biblica, pp. 1093-1094.

    12 M. Oraison, Superare la paura, Cittadella, Assisi 1973, p. 96.

    13 H. U. von Balthasar, Verbum caro, p. 196.

    14 F. Wulf, "Preghiera", p. 721.

    15 Interessanti osservazioni sull'esperienza cristiana in quanto esperienza nello Spirito, che attinge il livello della mistica, si trovano in C. V. Truhlar, L'esperienza mistica. Saggio di teologia spirituale, Città Nuova, Roma 1984.

    16 A. Zarri, s.v. "Preghiera", in Dizionario teologico, a cura di J. B. Bauer e C. Molari, Cittadella, Assisi 1974, P. 552.

    17 R. Fabris, "La spiritualità di Gesù di Nazareth", in Storia della spiritualità, II. La spiritualità del Nuovo Testamento, a cura di R. Fabris, Borla, Roma 1985, pp. 85-86.

    18 Ibid., pp. 102-103.

    19 Ch. A. Bernard, Teologia spirituale, Edizioni Paoline, Roma 1982, p. 412.

    20 U. Vanni, "La spiritualità di Paolo", in Storia della spiritualità II, pp. 299-200.

    21 G. Segalla, "L'esperienza spirituale nella tradizione giovannea", ibid., pp. 384-385.

    22 P. Evdokimov, La conoscenza di Dio secondo la tradizione orientale, Edizioni Paoline, Roma 1969, pp. 80-81.

    23 P. Tillich, Systematische Theologie I, Evangelisches Verlagswerk, Stuttgart 1956, p. 307.

    24 "Il dire del linguaggio non è necessariamente una formulazione di proposizioni sugli oggetti. Nel suo intimo più profondo il linguaggio è un dire 'di ciò' che si manifesta e si rivolge all'uomo in tante maniere, nella misura in cui l'uomo non si ferma a ciò che si mostra, in virtù del dominio del pensiero oggettivante, e limitandosi a esso" (M. Heidegger, "Quelques indications sur des points de vue principaux du colloque théologique consacré au 'problème d'une pensée et d'un langage non-objectivants dans la théologie d'aujourd'hui'", in Archives de Philosophie 32 [1969], p. 413). Forse, proprio in questa prospettiva, alla quale ci richiama il tema della preghiera, va ripensata l'intera metodologia teologica. La teologia cristiana cerca oggi, faticosamente, di superare la duplice impasse dell'oggettivismo teologico (di matrice illuminista) e dell'esistenzialismo teologico, che non osando più oggettivare Dio per salvaguardare il suo carattere "indicibile" lo riduce al "senso" che ha per l'uomo, diventando antropologia. "La terza via sarebbe quella di una teologia speculativa non-oggettivante che sfugga al destino della metafisica come la intende Heidegger. La teologia non può rinunciare alla sua ambizione speculativa e sistematica, ma deve entrare nella libertà di dire ciò che a essa è stato confidato nella rivelazione. Una teologia che rinunci al movimento intellettuale del pensiero metafisico non cercherà di oggettivare Dio identificandolo con l'Essere supremo, fondamento degli enti. Ma, tuttavia, Dio non è un puro Das, il puro vis-à-vis senza contenuto di un incontro ineffabile. In questa ricerca di un linguaggio ontologico non-oggettivante, il teologo può trovare delle risorse estremamente precise nell"ontologia del linguaggio' dell'ultimo Heidegger, in particolare nella sua meditazione sull"appartenenza del dire all'essere' o meglio sulla 'rivendicazione del dire da parte dell'essere'" (C. Geffré, "Senso e non-senso di una teologia non-metafisica", in Concilium 6 [2972], pp. 127-128).

    25 P. Tillich, In der Tiefe ist Wahrheit, Evangelisches Verlagswerk, Stuttgart 1952, p. 101.

     


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