«Dare del tu» a Dio
Roberto Fornara
Quando Gesù insegna ai suoi discepoli a pregare (cf Mt 6,9; Lc 11,2) non insegna tanto una formula di preghiera, quanto piuttosto uno stile di relazione. Fa percepire la bellezza e l’essenzialità di tale relazione. Suggerisce che l’essenza della preghiera è la capacità di entrare in rapporto con il Tu di Dio e di chiamarlo Padre. La preghiera nasce nel momento in cui si percepisce questo desiderio di relazione, anzi, la preghiera preesiste a questa coscienza. La preghiera è, essenzialmente, relazione.
Non occorre allora sprecare le parole come i pagani (cf Mt 6,7), ma lasciarsi educare dalle parole per scoprire il senso di una paternità e di una figliolanza che costituiscono il centro dell’intera vita cristiana. Pregare il Padre nostro è come entrare nel cuore del Figlio, nella sua esperienza unica di Dio, contemplare la sua relazione con il Padre. È lasciarsi ammaestrare, condurre per mano da lui. È avere in noi gli stessi sentimenti, gli stessi valori, gli stessi desideri, gli stessi pensieri che furono in Cristo Gesù.
Fra tutte le parole rivelate di Gesù, le espressioni del Padre nostro sono quelle che maggiormente hanno la capacità di rigenerare come figli e figlie di Dio. Esse insegnano a desiderare e a chiedere quanto è in sintonia con la condizione filiale. In tal senso, non si può separare la preghiera dei figli dalla preghiera del Figlio, i desideri dei cristiani dai desideri di Cristo. Pregare è essere resi partecipi della sua comunione col Padre, partecipare alla sua filialità, gioire con lui del suo amore per il Padre e – soprattutto – dell’amore del Padre.
La preghiera insegnata da Gesù invita ad un rapporto con Dio intessuto di tenerezza e di confidenza, colme di rispetto. Secondo l’apostolo Paolo, il grido dello Spirito riversato nei nostri cuori (Abbà: Gal 4,6; cf Rm 5,5) è l’inizio della preghiera cristiana, è tutta la preghiera cristiana. È l’invocazione affettuosa e calda del bambino che si rivolge al genitore nell’intimità della vita familiare. È il passaggio dal discorso freddo e razionale sulla paternità divina alla percezione esperienziale di Dio come Padre: c’è un abisso fra il teologo distaccato, che parla come un libro stampato, e il bambino che sorride a colui che gli ha dato la vita.
Il grido dello Spirito è l’invito a rimanere con il Figlio nel seno del Padre, riscoprendone anche il volto materno, le “viscere di misericordia”, per usare un’espressione cara alla rivelazione biblica. Chi prega il Padre nostro è così invitato, fin dall’inizio, a fissare lo sguardo su Dio anziché su se stesso, ad aprirsi a lui e alla sua azione trasformante, invece di ripiegarsi sui propri orizzonti limitati, a lasciar crescere in sé la nostalgia della vera patria, come il figlio prodigo della parabola lucana, secondo una celebre espressione di Gregorio di Nissa.
Partecipare all’intimità del Figlio con il Padre attraverso il dono dello Spirito che prega in noi: ecco la dimensione trinitaria della preghiera del Signore. Abbiamo ricevuto, infatti, uno Spirito da figli adottivi (cf Rm 8,15). Il suo grido (Abbà), centro della preghiera del cristiano, è il grido della libertà offerta in dono gratuitamente. Commenta in proposito Pietro Crisologo: «Oggi Cristo… dice Padre nostro. Ha voluto che fosse in tuo potere ciò che è proprio della sua condizione…: “A quanti hanno creduto diede il potere di essere chiamati figli di Dio” (Gv 1,12). Tuttavia ti ordina di dire così, affinché queste parole siano il frutto di un dono e non di una presunzione temeraria».
Fin dalle prime espressioni (e per tutta la durata della preghiera) i figli sono invitati a pregare al plurale, aprendosi ad una relazione fraterna. Non si invoca il Padre mio, ma il Padre nostro; non gli si chiede: dammi… rimetti a me… non mi indurre in tentazione… liberami dal male, ma: dacci… rimetti a noi… non ci indurre in tentazione… liberaci dal male.
La preghiera è una scuola di fraternità perché è prima di tutto uno sguardo su quel Dio che è Padre di tutti, che fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti (cf Mt 5,45). Se in un primo tempo l’aggettivo nostro si può riferire in modo esclusivo al credente e a Cristo, la verità di tale relazione apre il cuore ad una dimensione universale, per cui lo stesso aggettivo assume un valore infinito.
La prima parte della preghiera di Gesù è un invito a guardare a Dio, ai suoi desideri, alla sua volontà. Lo sguardo posato su di lui lo contempla nella sua vicinanza (Padre) ma anche nella sua trascendenza (…che sei nei cieli), con un accostamento paradossale che ricorre anche nel Te Deum: «Padre d’immensa maestà».
In Dio i due aspetti coincidono perfettamente, perché egli è l’onnipotenza posta al servizio dell’amore; anche l’orante è invitato a mantenere saldamente uniti i due estremi: la fiducia e l’intimità non annullano il rispetto e l’adorazione del mistero divino. Il Dio di Gesù Cristo è il Padre tenero e misericordioso, e insieme il Santo, il Totalmente Altro rivelato ad Israele. Egli – come specificherà poco oltre la stessa preghiera – abita in cielo, mentre l’uomo è l’Adamo fragile e peccatore, plasmato dalla polvere del suolo, che abita in terra.
La serie di domande rivolte al Padre inizia con il desiderio della santificazione del Nome. Chiediamo a Dio che manifesti la sua santità, che si renda presente per quello che è, che gli uomini – tutti gli uomini – lo possano riconoscere come Padre. In prima persona, gli chiediamo: «aiutaci a ricordare chi sei per noi» (anche nel momento della sofferenza, il Figlio ritorna a questa coscienza filiale: cf Lc 23,33.46).
Tale domanda del Padre nostro, così come le successive, è insieme un dono e un impegno, perché – come ripetono spesso i padri della Chiesa – se chiamiamo Dio Padre, il nostro impegno deve corrispondere al dono. Pertanto possiamo pregare con san Giovanni Crisostomo: «fa’, o Signore, che la nostra vita sia un tale specchio di purezza e trasparenza che tutti, vedendo noi, rendano gloria a te». È impegnativo e compromettente “dare del tu” a Dio, perché ci introduce in una relazione, e ogni relazione è un impegno, una responsabilità, cioè una “risposta”, secondo l’etimologia del termine.
Chiedere che venga il regno di Dio non significa entrare nella logica del potere o del dominio, perché ogni invocazione va letta alla luce della paternità divina. Venga il tuo regno significa entrare più pienamente in un rapporto d’amore, nell’intimità con Dio Padre. Le parabole evangeliche del regno (cf ad esempio il capitolo 13 del vangelo di Matteo) chiariscono che cosa si intenda per regalità divina: non dominio e possesso, ma amore, pazienza, misericordia, fecondità… Mentre pronunciamo questa invocazione, ci lasciamo evangelizzare da essa, poiché comprendiamo che la venuta del regno si affretta più con l’invocazione e la preghiera che con l’opera e l’attività umana: è difficile per il credente rinunciare a conquistarsi la salvezza con le proprie mani! San Giovanni della Croce ricorda, a questo proposito, il supplemento di fecondità che riveste un’ora di preghiera e di amore puro, rispetto a mille attività e a mille progetti umani.
La domanda fondamentale della prima parte della preghiera (che riassume anche le due richieste precedenti) è: sia fatta la tua volontà. È la preghiera costante di Gesù, del Figlio, anche nel momento della prova del Getsemani, quando tutto l’orizzonte si oscura; eppure sembra essere questo il momento in cui Gesù percepisce maggiormente l’importanza e l’urgenza di “dare del tu” a Dio e di affidarsi alle sue mani. È la preghiera di Maria, che si consegna docilmente alla Parola fin dall’annuncio dell’angelo, lasciandosi plasmare e modellare da questa Parola. È la preghiera del discepolo, chiamato ad un continuo discernimento per non conformarsi alla mentalità del secolo presente, ma a trasformarsi, rinnovando il proprio modo di pensare, «per poter discernere la volontà di Dio», cioè «ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12,2).
Non è una preghiera fatta con rassegnazione, una preghiera “da ultima spiaggia” (“se non si può fare altrimenti…!”), ma la sete di ricerca del vero bene e della vera gioia. Nel linguaggio comune è invalso l’uso di ricorrere a tale espressione soprattutto in contesti di lutto, di difficoltà, di sofferenza, ma la volontà di Dio è che nulla vada perduto, che l’uomo abbia la vita eterna (cf Gv 6,39-40), che tutti gli uomini siano salvati (cf 1Tim 2,4). “Dare del tu” a Dio significa anche familiarizzarsi a tal punto con lui da conoscerlo sempre più in profondità, perché la fede (accoglierlo così come egli è e come si dona a noi) prevalga sulla religione (ciò che noi possiamo e vogliamo fare per lui).
La richiesta del pane quotidiano apre la seconda serie di invocazioni, rivolte alle necessità dell’orante. Nel rapporto d’amore che ci lega al Padre, noi ci preoccupiamo di Dio ed egli si preoccupa di noi nella sua provvidenza senza limiti. Lasciamo a sant’Agostino il compito di commentare la richiesta del cibo di ogni giorno: «quando dici: Dacci oggi il nostro pane quotidiano, confessi di essere un mendicante di Dio. E non diventare rosso di vergogna quando lo dici: per quanto uno sia ricco su questa terra, è pur sempre un mendicante di Dio». Tutto è grazia, e convertirsi – così è stato per san Paolo, ad esempio – significa in primo luogo passare dalla logica del merito a quella della grazia, entrare nel mondo della gratuità e del dono.
Ogni pane è sempre donato, e l’uomo vive essenzialmente di questo dono, vive di ciò che riceve in dono per amore. Chiedere il pane non significa forzare la mano a Dio, ma riconoscerlo come sorgente di vita: è lui il Padre misericordioso che – come nella parabola di Lc 15,11-32 – dona il cibo in abbondanza non solo al figlio che si è allontanato dalla casa paterna, ma anche al figlio maggiore, riluttante ad accogliere il dono, e a tutti i salariati. Ci si riferisce spesso a questa parabola con il titolo fuorviante di “parabola del figlio prodigo”, mettendo l’accento soprattutto sull’atteggiamento del figlio minore che sperpera le sostanze del padre, vivendo da dissoluto. Qualche esegeta propone, giustamente, di chiamarla “la parabola del padre prodigo”: è lui, nel racconto, il personaggio che sperpera di più, che dona gratuitamente, senza fare distinzione di persone…
Leggendo sempre la preghiera di Gesù sullo sfondo della parabola lucana, il pane quotidiano, ciò che permette all’uomo di rimanere in vita, assume poi un volto particolare: la misericordia del Padre. Pregando: Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori, riconosciamo che l’esperienza di Dio quale Padre è l’esperienza di essere amati così come siamo, con tutti i nostri limiti, con tutto il peso del nostro peccato, che a volte noi stessi facciamo fatica ad accettare e sopportare. Allo stesso tempo, quel come ci interroga e ci provoca.
Sperimentata la misericordia di Dio, siamo chiamati ad essere testimoni di misericordia (cf Mt 18,23-35). Ciò significa che Dio ci perdona nella misura in cui noi perdoniamo ai nostri fratelli (cf Lc 6,37-38), ma significa anche che – se Dio ci perdona – siamo resi più liberi e più capaci di amare e di perdonare a nostra volta. Anche nei rapporti umani, infatti, solo l’esperienza liberante di sapersi amati e accolti apre tutte le potenzialità del cuore, abilitando all’amore e all’accoglienza verso l’altro.
Sperimentiamo spesso la prova, la difficoltà, la tentazione. Con l’invocazione successiva (non ci indurre in tentazione) chiediamo a Dio di essere Padre anche in simili situazioni. La traduzione italiana risulta essere, in verità, un po’ fuorviante. Non chiediamo direttamente al Padre di non tentarci, ma di non permettere che la prova divenga per noi una gabbia che ci imprigiona: gli chiediamo di non permettere che soccombiamo nella prova e nella tentazione. Dio, infatti, non tenta nessuno al male (cf Gc 1,13-15), ma veglia con amore sui figli perché non soccombano nel momento della tentazione.
Ancora una volta, la nostra preghiera è la preghiera del mendicante, perché ci riconosciamo poveri davanti a Dio e bisognosi del suo aiuto. Per questo lo preghiamo anche dicendo: liberaci dal male. Non si tratta più di un assalto contro cui difenderci, ma di una libertà da riconquistare giorno dopo giorno. Cristo, infatti, ci ha liberati perché restassimo liberi (cf Gal 5,1.13). “Dando del tu” a Dio, preghiamo perché questa intimità e familiarità si traduca in una fonte di fiducia, di protezione, di sicurezza. Non una semplice liberazione da qualche pericolo è in gioco qui, ma una liberazione ben più radicale: la liberazione dal male, anzi, dal Male.
La preghiera, iniziata nel segno del Padre, si conclude con il desiderio di essere liberati dal Maligno: tutta l’orazione del Figlio è contenuta fra questi due estremi, nella responsabilità di una scelta necessaria perché si realizzi in pienezza il dono d’amore di un Dio che è Padre di tutti. “Dare del tu” a Dio, essenza della preghiera dello Spirito in noi, è un’opzione, una scelta di campo che coinvolge tutta la vita.
(Rivista di vita spirituale 63 (2009), pp. 375-380)