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    «Amatevi

    gli uni gli altri,

    come io vi ho amato»

    (Gv 13, 34)

    Una celebrazione meditata

    Carlo Molari

    Iniziamo raccogliendoci per un breve momento in silenzio di fronte a Dio. Chiediamoci quali stati d'animo ci attraversano e quali attitudini caratterizzano ora la nostra interiorità. Possiamo anche interrogarci sulle resistenze che abbiamo incontrato nei primi approcci con gli altri. Siamo riuniti insieme, ma sicuramente fra noi non sono in atto relazioni corrispondenti a quell'amore con cui «lui ci ha amati». Quali ostacoli ci impediscono di farlo? Per entrare in clima di preghiera apriamoci a sentimenti di pentimento e di conversione. L'intento della meditazione è alimentare la nostra vita spirituale per creare un clima che possa favorire i lavori di questi giorni.
    (Pausa con musica di flauto)
    La formula del tema che ci è stato proposto per la meditazione di questa mattina è desunta dal quarto Vangelo: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13, 34). La formula ritorna ancora poco dopo: «Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri» (Gv 15, 17). Qui vengono anche indicati il criterio e la fonte dell'amore richiesto: «Come il Padre ha amato me, così ho amato voi» (Gv 15, 9). Il contesto della lunga riflessione giovannea in cui queste formule sono inserite è l'ultima Cena dopo la lavanda dei piedi.
    Il perno di tutto il messaggio sta nell'espressione come io vi ho amato. Essa definisce anche l'aspetto nuovo del comandamento evangelico. La legge dell'amore, infatti, è antica quanto la specie umana, ma essa ha avuto nel tempo uno sviluppo notevole.
    Le domande perciò cui cerchiamo risposta sono: quale tipo di amore Gesù ha vissuto e sviluppato? Quale forza di vita comunicava a coloro che accostava? Con quali criteri e a quale fonte ha attinto? In una parola: come Gesù ci ha amato? La risposta a queste domande non è semplice perché le formule che ci hanno tramandato l'esperienza di Gesù sono filtrate dall'amore cui erano pervenuti i testimoni, e inoltre la nostra comprensione è condizionata dal tipo di amore che ciascuno di noi è in grado di sviluppare. Noi, infatti, siamo in grado di capire pienamente l'amore di un altro solo secondo il tipo di amore di cui noi stessi siamo capaci. Questa mattina dovremmo quindi partire dalla consapevolezza dell'impossibilità di sintonizzarci compiutamente con l'esperienza vissuta da Gesù. Qualcosa, forse l'aspetto più importante e più specifico della sua esperienza, ci sfuggirà. Questa consapevolezza dovrebbe stimolare la nostra attesa, la tensione verso un traguardo: la conoscenza dell'amore e della fedeltà di Gesù; il segreto della sua vita di Figlio. A quale forma di amore egli è pervenuto? Quale dedizione ha esercitato?
    Con questa attesa interiore, consapevoli di dover restare sempre e molto al di sotto della sua esperienza e di poter ogni giorno scoprire qualcosa di più del suo segreto, cerchiamo di analizzare il tipo di amore espresso da Gesù, come ci è narrato dai testimoni.
    Raccogliendo le diverse indicazioni del Nuovo Testamento potremmo riassumere le caratteristiche dell'amore di Gesù in tre formule. Egli nella sua vita pubblica: 1) «è rimasto nell'amore del Padre» (cf Gv 15, 10), ha sviluppato, cioè, un amore teologale; 2) «ha amato sino alla fine» (cf Gv 13, 1), non solo dal punto di vista temporale, ma anche di contenuto e di intensità; 3) ha amato in modo salvifico, in modo cioè da «portare il peccato del mondo» (cf Gv 1, 29).
    Credo che queste tre caratteristiche spieghino perché l'amore di Gesù sia stato il momento più elevato della rivelazione di Dio nella storia umana e offrano i criteri per capire quale tipo di amore egli chieda ai suoi discepoli.
    Esaminiamo brevemente le tre caratteristiche dell'amore di Cristo e le due conseguenze.

    1) Amore teologale. Gesù amava consapevole di «rimanere nell'amore del Padre» (cf Gv 15, 10), di esprimere, cioè, e di rivelare la misericordia divina. Rimanere nell'amore del Padre implicava in Gesù la consapevolezza della presenza di Dio e la sintonia fedele alla sua azione. In tale modo egli era in grado di accogliere il flusso di vita che perveniva dal Padre e costituiva la sua realtà di Figlio. Questa consapevolezza è espressa in modo esplicito nella formula: «Come il Padre ha amato me, così ho amato voi» (Gv 15, 9).
    Il verbo agapào, come il sostantivo agàpe, è specifico della tradizione biblica e in particolare del Nuovo Testamento. Già era stato utilizzato dai Settanta per tradurre i verbi ebraici dell'amore quando si trattava di Dio e del rapporto dell'uomo con lui. D'altra parte i cristiani non potevano utilizzare i comuni verbi greci dell'amore. L'esperienza, infatti, dell'amore di Dio e della comunione con i fratelli nel suo nome non poteva essere indicata né con i termini greci di eros (amore passionale) e di philìa (amore di amicizia), né con i verbi corrispondenti (erào e philéo) perché troppo segnati dalle caratteristiche istintive, possessive e interessate dei rapporti iniziali delle persone. Ma soprattutto tali termini non potevano indicare la fonte divina dell'amore, che è caratteristica essenziale dell'agàpe. Per Gesù e i suoi discepoli la fonte dell'agàpe non è l'uomo ma Dio. Come credenti siamo sollecitati a scoprire che non siamo noi ad amare Dio, ma egli in noi esprime il suo amore. L'amore di Dio è fontale, è gratuito, è creatore. È fontale perché è origine di tutto, è creatore perché non suppone nulla, ma tutto offre, è gratuito perché non attende nulla in contraccambio se non di essere accolto. In questo senso però anche il termine agàpe utilizzato per parlare dell'amore di Dio non è adeguato. L'amore di Dio, infatti, non dovrebbe essere chiamato amore, ma noi purtroppo non abbiamo altri termini per indicarlo. Dio in senso proprio non ama, ma fa molto di più. Noi però non abbiamo i termini per dire il di più che l'azione di Dio contiene rispetto al nostro amore. Di una cosa però siamo certi: che in noi l'azione divina è giunta ad esprimersi come amore. Questo consente l'analogia di attribuzione, quella cioè che con l'uso del nome ci consente di indicare la fonte di una perfezione. Parliamo quindi dell'amore di Dio solo nel senso che la sua azione creatrice, la sua infinita perfezione in noi, è giunta ad esprimersi come amore. Con il termine agàpe quindi diciamo primariamente la trascendenza dell'amore di Dio nei confronti del nostro amore, e insieme la dipendenza del nostro amore dal suo.
    Gesù viveva nella consapevolezza di una forza che lo attraversava e lo costituiva, di una Parola che in lui prendeva carne, diventava, cioè, pensiero, sensibilità, decisione e azione. Per questo egli poteva dire: «Non faccio nulla da me stesso» (Gv 8, 28); «Le parole che io vi dico, non le dico da me; ma il Padre che è in me compie le sue opere» (Gv 14, 10); «La Parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato» (Gv 14, 24). Anche nei Sinottici appare tale consapevolezza, come quando al notabile o giovane che lo interrogava chiamandolo «buono», Gesù sorprese tutti dicendo: «Perché mi dici buono? Nessuno è buono se non uno solo, Dio» (Lc 18, 19). Come dire: io non sono buono. Se vedi bontà in me, essa è un riflesso dell'azione divina. Il mio amore non è mio, ma è dono del Padre. Questo dato, essenziale per vivere l'agape, è presente in modo continuo nella vita di Gesù.

    2) Amò sino alla fine (Gv 13, 1: éis telos egàpesen autoùs). Questa espressione non indica solamente la continuità nell'amore di Gesù nel tempo (sino alla fine dei suoi giorni), bensì anche la qualità e la ricchezza alla quale pervenne nella sua morte (sino all'estremo). Per capire il senso di questa fedeltà occorre ricordare la posizione che egli assunse nei confronti della morte.
    Quando si delineò il conflitto con i capi del popolo e poi il rifiuto della sua proposta Gesù si pose certamente il problema della scelta da compiere. Quando si accentuò il movimento di resistenza, Gesù cominciò a parlare dei profeti che non sono accolti e il cui destino è la morte violenta. Anche il pianto di Gesù in vista di Gerusalemme è indicativo del suo intimo tormento per il rifiuto opposto alla sua predicazione: «Quando fu vicino, alla vista della città, pianse su di lei, dicendo: "Oh! Se tu pure conoscessi, in questo giorno, quello che occorre alla tua pace! [...] Tu non hai conosciuto il tempo in cui sei stata visitata"» (Lc 19, 41-42.44). Nella preghiera del Getsemani il pianto diventerà angoscia e sudore di sangue (cf Lc 22, 44).
    È probabile che inizialmente Gesù temesse di essere lapidato perché veniva accusato di essere un bestemmiatore, a causa del suo atteggiamento nei confronti del sabato, del tempio, delle tradizioni. La bestemmia, secondo la legge mosaica, doveva essere punita con la lapidazione. Di fatto Giovanni narra dei tentativi di lapidare Gesù: «Presero allora delle pietre per scagliargliele addosso. Gesù però si nascose e uscì dal tempio» (Gv 8, 59; cf 10, 31-32). Gesù ha cercato di evitare la morte ingiusta e insensata, però sapeva che il profeta, fedele alla sua missione, deve anche sapere morire per realizzarla. Egli dopo tutti i tentativi compiuti si rese conto che l'inizio nuovo auspicato, la venuta del regno di Dio che egli annunciava, passava attraverso la sua fedeltà. Questa intuizione, alimentata nella preghiera, ha condotto Gesù ad affrontare il rischio della morte e a continuare sino alla fine la sua missione, per amore degli uomini.
    Diverse alternative si sono certamente presentate al suo spirito: tornare indietro? Aspettare tempi migliori? Tentare un compromesso con le autorità? Gesù intensificò la preghiera e la riflessione e alla fine decise di andare fino in fondo, assumendo un atteggiamento molto chiaro. Luca richiama la connessione tra questa decisione di Gesù e la sua morte: «Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato tolto dal mondo, decise risolutamente di salire a Gerusalemme» (Lc 9, 51). In un certo senso egli lancia l'ultima sfida ai sommi sacerdoti e ai capi del popolo con piena consapevolezza del rischio che sta correndo. La presa di posizione nei confronti della morte ha conferito un senso nuovo alla sua missione.
    Il Vangelo più volte, nel riferire le parole di Gesù relative alla sua fine violenta, utilizza il verbo greco déi (è necessario). Gesù era giunto alla convinzione che per le resistenze dei sommi sacerdoti e dei capi del popolo i sentieri del regno di Dio attraversavano la sua sofferenza e la morte. Nella prima predizione della fine cruenta Gesù afferma: «Il Figlio dell'uomo deve soffrire molto ed essere riprovato ...] ed essere messo a morte» (Lc 9, 22). Dopo aver appreso che Erode vuole ucciderlo (Lc 13, 31), Gesù esclama: «Però è necessario (déi) che [ ...] io vada per la mia strada, perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme» (Lc 13, 33). Poco prima aveva esclamato: «C'è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato finché non sia compiuto» (Lc 12, 50). «Il figlio dell'uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10, 45). Precisiamo bene il senso di queste affermazioni.
    Gesù non ha affrontato la morte come l'esecuzione di un decreto divino, perché la sua morte è stata decisa dagli uomini, in modo ingiusto e violento e perciò contrario alla volontà di Dio. Gesù tuttavia ha vissuto la sua condanna e la sua morte come momento storicamente necessario per il compimento di un progetto divino che egli si era impegnato a realizzare. «Le circostanze lo spinsero a dare alla morte imminente un posto nella propria fiducia radicale in Dio» (E. SCHILLEBEECKX, Gesù. La storia di un vivente, Queriniana, Brescia 1974, p. 313). Il senso della fedeltà di Gesù sta nell'immagine di Dio che egli vive e che rivela, nella certezza della misericordia che professa e che induce.
    Parafrasando Michea 6, 8 si potrebbe dire che Gesù vede con chiarezza sino alla fine quello che Dio richiede a ogni essere umano: bisogna seguitare a praticare la giustizia e ad amare con tenerezza. Vede pure con chiarezza che bisogna seguitare a camminare con Dio nella storia umilmente. Vede che questa è per lui una cosa buona e gli viene richiesta (J. SOBRINO, Gesù Cristo liberatore. Lettura storico-teologica di Gesù di Nazaret, Cittadella, Assisi 1995, p. 351).
    La volontà di essere fedele fino in fondo alla sua missione ha fatto sì che diventasse necessario (déi) affrontare la morte. La necessità della sua morte è quindi legata al volere di Dio, non nel senso che Gesù dovesse morire per una decisione del Padre, ma perché l'annuncio del regno, che corrispondeva alla volontà del Padre, nello sviluppo degli eventi ha richiesto di fatto l'amore sino alla fine, la fedeltà nella morte.
    Per questo il Nuovo Testamento può dire che egli si offre per la morte, consegna la sua vita.
    Questa offerta d'amore non si è sviluppata senza resistenze. Nel racconto dell'agonia, soprattutto in Luca (22, 39-46), appare con chiarezza la lotta sostenuta da Gesù di fronte alla morte. Egli avvertiva la difficoltà di essere fedele in quelle circostanze. Come sarebbe stato possibile amare, perdonare, esprimere misericordia nelle condizioni ingiuste, violente e crudeli che si stavano delineando? Come avrebbe potuto vivere l'annuncio che aveva fatto, in quelle circostanze ingiuste e violente, senza misura? D'altra parte, la verità della sua proposta sarebbe apparsa solamente dalla sua fedeltà sino alla fine. La preghiera costituì il segreto della sua forza e la fedeltà all'annuncio del regno prevalse sulla paura. La forma che ha acquistato l'amore portato all'estremo è stato in Gesù il perdono degli uccisori, la disponibilità a morire per la salvezza del mondo. La morte di Gesù è la morte di un derelitto, di un condannato ingiustamente come delinquente, di un abbandonato da tutti, che pone fiducia in Dio e mostra a quale grado di amore tale fiducia può condurre. Egli così compie la rivelazione di Dio che era la sua missione.

    3) Amò in modo da portare il peccato del mondo. Giovanni Battista, indicando Gesù ad alcuni suoi discepoli, lo qualificò quale «l'agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo» (cf Gv 1, 29). In tale modo Giovanni ha intrecciato l'immagine dell'agnello con quella del servo di cui parlavano i carmi del libro del profeta Isaia. «In aramaico la stessa parola talja' designa l'agnello e il servo. È possibile che il Precursore abbia usato intenzionalmente questa parola, ma l'evangelista, scrivendo in greco, abbia dovuto scegliere» (Bibbia di Gerusalemme, in Is 53, 7). Giovanni usò un'espressione polisemica che nella traduzione greca dovette essere delimitata.
    Nella figura dell'agnello confluiscono tre valori simbolici di grande rilievo biblico. Il primo significato deriva dal riferimento al rito pasquale, memoriale dell'epopea dell'Esodo e della liberazione dalla schiavitù. Gesù infatti è morto nel tempo pasquale quando si immolava l'agnello. Il secondo significato deriva dal riferimento ai carmi del servo di Dio, di cui si dice che è «come un agnello condotto al macello» (Is 53, 7), «trafitto per i nostri delitti e schiacciato per le nostre iniquità» (Is 53, 5). Il terzo significato deriva dal riferimento al rito di espiazione dello Yom Kippur, il giorno della purificazione del popolo dai peccati. Nella concezione ebraica la purificazione dell'uomo avveniva attraverso il sangue dei sacrifici. La ragione è indicata nel libro del Levitico: «La vita dell'essere vivente è nel sangue e io la do a voi per espiare all'altare per le vostre vite; il sangue infatti, in quanto vita, espia» (Lv 17, 11). Il rito di espiazione (descritto nel capitolo 16 del Levitico) consisteva nel versare il sangue, che contiene forza di vita e la comunica agli uomini purificandoli dal peccato.
    Il versetto chiave del Levitico 17, 11 dice che il sacrificio è un qualcosa donato da Dio all'uomo, un dono fatto in risposta a un bisogno umano. È perciò sbagliato dire (come fanno molti esegeti dell'Antico Testamento) che il significato fondamentale del sacrificio consiste in un'offerta o un dono fatto a Dio (J.A. MOTYER, Il senso del sacrificio cruento, in AA.Vv., Guida alla Bibbia, Paoline, Roma 1980, p. 178).
    Esso è piuttosto un dono fatto da Dio agli uomini per liberarli dai peccati e renderli santi. «Perché il sangue è la vita» (Dt 12, 23): viene da Dio e purifica gli uomini.

    4) Rivelazione di Dio. La morte di Dio in questo senso costituisce un momento eccelso della rivelazione di Dio. Per lungo tempo in tutte le culture, e quindi anche in quella ebraica, era normale pensare che Dio era dalla parte dei potenti, dei ricchi, di coloro che venivano unti come capi del popolo: essi erano rappresentanti di Dio, perché parlavano per conto di Dio, stabilivano le leggi per suo mandato. La religiosità umana è passata per questa fase. Gesù rappresenta un momento di svolta: egli rivela Dio dalla parte degli ultimi. Gesù non solo propone la nuova immagine di Dio con il suo insegnamento, riprendendo e portando a compimento annunci precedenti, ma la vive nella sua carne, rivela cioè Dio diventando lui stesso icona della misericordia di Dio come ultimo, abbandonato e sconfitto. In questo senso il versetto del Salmo 22 che egli cita sulla croce, e che in Matteo e Marco rappresenta il grido della sua morte, traduce l'esperienza della desolazione: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15, 34; Mt 27, 46). L'opposizione alla sua proposta e il rifiuto del suo insegnamento concentrato nella rivelazione di Dio misericordioso sono di tale gravità che egli deve giungere alla suprema abiezione per poter compiere la rivelazione di Dio. Proprio sulla croce perciò Gesù rivela il progetto del regno, perché abbandonandosi fiduciosamente a Dio mostra nella sua morte la misericordia nei confronti di coloro che soffrivano con lui e il perdono per i suoi uccisori. La morte di Gesù quindi è stata un momento supremo della rivelazione di Dio. Gesù ha vissuto la sua morte come fedeltà alla missione epifanica della sua vita. Anche se, iniziando la sua missione, Gesù non immaginava una fine di questo tipo, man mano che gli eventi si sono succeduti la fedeltà al compito che egli aveva assunto, alla Parola che egli aveva incarnato nella sua esistenza, l'ha condotto ad accettare la morte crudele e infamante della croce come momento necessario della rivelazione di Dio.
    La rivelazione si è compiuta nella croce anche in rapporto al valore delle vittime. Nelle culture arcaiche le vittime erano sempre considerate in un modo o in un altro colpevoli. In Gesù, vittima innocente, è apparsa la possibilità, prima impensabile, che la vittima possa costituire ragione di salvezza per tutti.

    5) Criterio dell'amore dei discepoli. L'amore esercitato da Gesù nella fedeltà della croce diventa la ragione e il paradigma della vita ecclesiale perché proprio la fedeltà di Gesù alla sua missione costituisce la ragione del cammino della Chiesa. Anche se si prescinde dalla risurrezione e dalla glorificazione di Gesù, se si esamina solo la storia, si constata che tutto è cominciato per il modo con cui Gesù si è posto di fronte alla sua morte. È stata questa fedeltà radicale a fiorire nella fedeltà dei tanti che hanno percorso e che percorrono tuttora il suo cammino. Per questo l'atteggiamento che Gesù ha maturato nei confronti della morte è la chiave per interpretare non solo la sua avventura, ma anche la storia della Chiesa, per capire quindi il cammino di tutti coloro che hanno perpetuato nei secoli la fedeltà con cui Gesù ha vissuto la sua missione e sono stati quindi in grado di testimoniare anche nella morte l'efficacia del Vangelo.

    6) Conclusione: chi ama conosce e rivela Dio. Nella sua Prima lettera Giovanni riassume questo messaggio del Vangelo in modo molto chiaro:
    Amati [agapetòi, amati da Dio; tradurre carissimi può sembrare una semplice formula di cortesia, non indica questo aspetto essenziale], amiamoci gli uni gli altri, perché l'amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. In questo si è manifestato l'amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui. In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati (1 Gv 4, 7-10).
    Dio è invisibile e ignoto. Non possiamo sapere che cosa è Dio, ma sappiamo che in noi la sua azione diventa amore. Conosciamo Dio a livello umano solo se in noi la sua azione diventa amore. Altrimenti non conosciamo Dio perché egli non rimane in noi. Se amiamo, riveliamo Dio e quindi dall'amore e solo dall'amore gli altri possono riconoscere che siamo discepoli di colui che ha rivelato Dio come amore e misericordia.
    Da questo abbiamo conosciuto l'amore. Egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli. [.. ] Da questo conosceremo che siamo nati dalla verità e davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa. ] E da questo conosciamo che dimora in noi: dallo Spirito che ci ha dato (1 Gv 3, 16.19.24).
    La conoscenza di Dio è legata all'esercizio dell'amore. Se amiamo con amore teologale, conosciamo Dio e lo riveliamo. Facciamo cioè percepire che in gioco nella vita e nella storia c'è un'energia più grande e una forza immensa: la potenza della Vita. La Vita esiste già in pienezza perché Dio è, ma solo dove essa viene accolta la vita si rivela. In coloro nei quali l'azione divina diventa amore, la vita fluisce e in essi risplende la sua gloria.
    Raccogliamoci ora in silenzio mentre il flauto accompagna la riflessione e la preghiera.

    (AA.VV, Da questo vi riconosceranno, Ancora 2002)

     


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