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    La vita

    come benedizione

    Introduzione al Quaderno di Servitium

    Armido Rizzi

     

    Da alcuni anni Servitium si va segnalando, nel panorama delle riviste religiose italiane, per una sua tenace volontà di riprendere i grandi temi della tradizione biblica e cristiana ma gettandoli nel crogiolo delle problematiche, esistenziali e intellettuali, del presente. Naturalmente, essendo e volendo restare una rivista di "spiritualità", i temi scelti non rispondono a interessi puramente teoretici ma fiancheggiano il cammino dell'esperienza e della pratica cristiana, attenti a nutrirle di riflessione ora più ordinata e sistematica ora più travagliata e frammentaria, sempre condotta con libertà e probità di spirito.
    Il motivo della "benedizione" non si sottrae a questa tensione; ne è anzi come lo specchio esemplare. Motivo biblico quant'altri mai, la benedizione si trova come contestata o, più radicalmente ancora, rimossa dalla coscienza di un'epoca che vive in bilico tra l'autoesaltazione e l'autodistruzione. Benedire è un atto ec-centrico; noi siamo auto-centrati. Di qui l'inattuale attualità" del tema e dell'invito a ripensarlo.
    Il nostro quaderno offre una serie di dati e di spunti, distribuiti secondo la divisione ormai classica delle "fonti" e dell'"oggi". Sia l'una che l'altra sezione risentono, per motivi diversi, di una incompiutezza anche superiore al previsto. Tuttavia il quaderno ha, come sempre, una sua linea, disegnata in redazione e proposta come filo conduttore ai collaboratori. Proviamo a ripercorrerla, rilevandone sia il tratteggio generale che le singole figure ed esecuzioni.

    Le fonti

    Il lavoro sulle fonti non poteva che distinguersi lungo quel duplice movimento che nei testi biblici ha trovato la sua sedimentazione, e che resiste ancor oggi nel nostro vocabolario della benedizione: benedire come dare qualcosa di buono (un favore, una protezione...) e come lodare, esaltare, dare rilievo alla bontà di qualcuno.
    Già a partire dal titolo, che ha valore programmatico (Dio benedice l'uomo: creazione e salvezza), Antonio Bonora ci annuncia che la benedizione donata da Dio all'uomo abbraccia sia i beni elementari che colmano la vita quotidiana di ogni uomo, sia quelli che più specificamente caratterizzano la storia del popolo di Dio. Benedizione e salvezza «sono due facce dell'attività di Dio: la salvezza è piuttosto "liberazione da", mentre la benedizione è "libertà per"». Ma questo atto che libera e instaura libertà ha esso stesso come condizione di essere accolto con quella libera decisione che è l'obbedienza: nell'antico testamento la benedizione, lungi dall'essere un contatto magico, corre sul filo di una reciprocità personale: il dono va accolto e va riconosciuto.
    Per i Salmi come testo biblico della benedizione-risposta abbiamo dovuto ricorrere a una specie di collage, essendoci venuto a mancare il contributo richiesto. Le pagine a essi dedicate (L'uomo benedice Dio: i Salmi) sono perciò un insieme di citazioni di due o tre grandi esegeti contemporanei, cui fa da tessuto connettivo un sobrio intervento redazionale. Nella benedizione ascendente si devono distinguere la lode e l'azione di grazie: più legata a benefici specifici (sia per l'individuo che per la collettività) quest'ultima, di tenore più generale la prima; ma, l'una come l'altra, reazione stupita e gioiosa alla manifestazione della gloriosa generosità del Dio d'Israele.
    Benedetti in Cristo Gesù (Giancarlo Bruni) è il leit-motiv della benedizione neotestamentaria. Ma che ci è stato donato in Gesù?
    Lo Spirito. «La chiesa ha individuato nello Spirito il culmine della benedizione da parte di Dio...». Perciò il testo centrale su questo motivo, Ef 1, 3-14, parla di "benedizioni spirituali": l'elezione-predestinazione, la chiamata alla santità, la redenzione, la rivelazione del «mistero»: la chiamata universale alla salvezza. Universale vuol dire di tutti e di tutto: la benedizione «raggiunge anche gli aspetti più ovvi e quotidiani della vita: il cibo, il riscatto politico, il proprio fare, il perdono dei peccati, esemplificazione di quell'ogni cosa" che va dal sole alla pioggia, da una sposa ad un figlio, da una guarigione a un amico, fino agli aspetti più contraddittori dell'esistenza».
    La celebrazione eucaristica (Carmine Di Sante, Dalla berakah ebraica all'eucaristia), se da una parte concentra il contenuto (cioè senso e novità) della benedizione cristiana, dall'altra ripete lo schema teologico/letterario della benedizione ebraica: ammirazione e lode per i mirabilia Dei e invocazione/supplica perché la loro efficacia si rinnovi. Sono due i momenti strutturali che innervano anche la celebrazione cristiana e che, con termini greci, vengono chiamati anamnesi (= ricordo, memoriale) ed epiclesi (= invocazione). Anamnesi della creazione e della storia di salvezza, che sfocia nella vita, morte e risurrezione di Gesù; epiclesi allo Spirito: sul pane e sul vino, perché diventino presenza di Gesù Cristo, sulla chiesa, perché ne diventi il prolungamento vivo e attivo.

    L'oggi

    Con l'oggi entriamo in pieno nel campo della problematicità. E già per il fatto che diverse sono le accezioni secondo cui l'"oggi" viene inteso nei vari contributi di questa seconda parte. L'oggi di cui parla Sergio Quinzio (Benedire Dio nel tempo del suo silenzio) è tutto il tempo della storia umana come lontananza dalla benedizione. «La benedizione è legata alla tangibilità dei doni, è riconoscibile in essi. E quando questi doni mancano, quando si fa, al contrario, l'esperienza della privazione, della perdita, del bisogno non soddisfatto, della preghiera non esaudita, della malattia, dell'esilio, della persecuzione che colpisce il giusto ad Auschwitz, dov'è allora la benedizione di Dio?» Dov'è, questa benedizione, nella morte del Giusto in croce e di tutti coloro che si trovano identificati a lui nell'abbandono di una stessa morte? Dov'è la benedizione nel bimillenario esilio del popolo ebreo, il popolo delle benedizioni? Trasformare il negativo in positivo attraverso una mistica della sofferenza è tradire lo spirito più autenticamente biblico. Il quale indica invece un'altra strada per ritrovare la lode anche nel più buio patire: sollevare lo sguardo dal presente e fissarlo nel futuro, sul filo di luce di quella promessa che è certa e vicina, e che in noi è il gemito dello Spirito stesso di Dio.
    Con il contributo di Gianni Tognoni (Scienza e tecnica lodano Dio o lo nascondono?) l'"oggi" ricupera il suo più comune significato epocale: di questo nostro oggi scienza e tecnica sono i qualificatori più accreditati. Il saggio di Tognoni, attraverso un andarivieni tormentato, sfocia su una dualità che è antitesi (dialettica?): scienza e vita, ricerca oggettiva ed esperienza biografica. «Dovrebbe essere chiaro che la scienza, se vuole essere fedele a se stessa, deve ignorare Dio. Non benedirlo, né maledirlo... La sfida e la coerenza della scienza è di fare a meno di Dio, della sua ipotesi all'inizio, delle sue promesse alla fine del percorso. Lo faccia per potere-arroganza o per gioco-liberazione, la scienza deve difendere gelosamente la impossibilità del passaggio tra ragionamento-prova scientifica e benedizione». Ma «a una scienza che crede in ciò che è riproducibile, documentabile, visibile, oggettivo, risponde il racconto di coloro che narrano con la loro vita ciò che hanno visto, udito, sperimentato del segreto della vita. Nessuno ha visto, né vedrà, né nasconderà, né saprà mai diversamente chi è e se c'è Dio».
    Anche l'arte contemporanea è attraversata dal dilemma benedizione/maledizione, lode/disperazione. Ne sono testimoni eloquenti, tra tanti altri, due pittori, rivisitati con partecipazione - al di fuori di ogni intendimento accademico - da Alberta Rizzi (L'arte contemporanea tra urlo (Munch) e lode (Chagall). Nella pittura di Munch si sente, come scrive egli stesso riferendosi al suo quadro più noto, «l'urlo immenso, infinito della natura»; un urlo senza risposta, senza liberazione, perché - continua Alberta Rizzi - «l'umanità e la natura sembrano fissate per sempre in questa maledizione che toglie loro volto e forma e senso; nessuna alleanza è stata stretta con loro; abbandonate a se stesse, non sono più se stesse; nessuna benedizione sembra essere mai scesa su di loro, ed esse non potranno mai ritrovarsi nella benedizione, dopo aver così a lungo sofferto». Anche Chagall passa attraverso la sofferenza e la notte (perché «non esiste, nell'arte contemporanea, l'innocenza e la tranquillità maestosa di altri periodi»), ma ne emerge cantando la vita dei fiori, degli animali, degli amanti; una vita in cui pulsa tutt'intero - come forse in nessun'altra espressione odierna - il soffio della benedizione biblica.
    «Nella benedizione scritta sulla carne degli oppressi non si è mai abbastanza imparato a leggere con intelligenza spirituale e a vivere con passione ardente la benedizione dei poveri. Con gli occhi di carne, rifatti lucidi da ogni mistificazione, e con gli occhi della fede, liberati da ogni evasione, non bisogna mai smettere di vedere dentro e oltre. Nel Crocifisso vive il risorto e il liberatore». Con queste parole Umberto Vivarelli (La benedizione degli oppressi) apre un'altro spiraglio, diverso e complementare, su come lodare Dio nell'oggi del suo silenzio. Il fatto paradossale è che ad avere disimparato la lode siamo noi, che viviamo nella sufficienza e rasentiamo l'opulenza; mentre i poveri ne sono ancora capaci, malgrado tutto.
    La seconda parte del quaderno si chiude con una meditazione sull'oggi" minimo: lo spazio della giornata e, in essa, il risveglio del mattino (Armido Rizzi, Il mattino, tempo di benedizione). Se ogni istante e ogni giorno è tempo di benedizione, il mattino ne rappresenta il simbolo vivo, perché annuncia ogni giorno la creazione e la risurrezione, e - quasi in forma sacramentale - annunciandole le rinnova. Ma il mattino si fa benedizione di ritorno, lode e azione di grazie, soltanto se l'uomo ne assume in un movimento di libera adesione il simbolismo naturale, vincendo nella luminosità della fede la vertigine del non-senso o la tentazione del grigiore. Anche la nostra preghiera, come la nostra arte, non può più essere naif.

    Le note

    Vengono qui ripresi alcuni dei luoghi classici della benedizione.
    I sacramenti, o benedizione delle persone (Giuseppe Ferraro, La benedizione nelle formule della liturgia dei sacramenti): «le formule sacramentali possono essere considerate come le più grandi benedizioni di cui la chiesa dispone per comunicare la benevolenza divina; tali formule, insieme con l'elemento e con l'atto nel quale ogni sacramento si compie sono lo strumento per significare il bene che viene dato e per dare il bene che viene significato».
    I sacramentali, o benedizione delle cose (Silvano Maggiani, La benedizione delle cose) non perché esse siano cattive e vadano strappate al potere del male (concezione che, presente in alcuni Rituali del passato, avvicina la benedizione all'esorcismo) ma, al contrario, proprio per evidenziare la bontà con riconoscimento della loro origine divina.
    La mensa (Mauro Todde, La benedizione della mensa) «non costituisce soltanto il soddisfacimento di una esigenza biologica»; la tradizione cristiana l'ha sempre riconosciuta come un dono e culturalmente ha mantenuto la consuetudine del pio israelita che «non osava mangiare neppure un pezzo di pane della dimensione di una oliva e bere un bicchiere di vino senza prima avere sollevato gli occhi e la mente verso Jahvé, fonte di ogni dono».
    Il canto (Eugenio Costa jr. Il canto della lode) da sempre ha dato corpo alla lode, ma secondo modalità espressive cangianti: l'acclamazione, l'inno, la canzone, la forma responsoriale. Questa varietà asseconda le diverse funzioni della lode, lì dove essa si struttura nel culto, ma anche le diverse inflessioni esistenziali del soggetto lodante. E noi? «Vi sono giorni e tempi; vi sono vicende e contesti; vi sono lunghe stratificazioni culturali o pesanti situazioni sociali, che non permettono di cantare. O forse, se si cantasse, ne uscirebbe un grido. Lo spirito di benedizione è lontano; soltanto una dolorosa esperienza pasquale può forse gettarne ancora il seme, da cui un giorno il canto rifiorirà».
    È su questa confessione, che dice insieme impotenza e speranza, che il quaderno chiude il proprio discorso e lo affida all'ascolto del lettore.


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