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    La spiritualità

    nel postmoderno

    Pierangelo Sequeri


    Esiste un «problema di spiritualità» nella nostra cultura, nel nostro orizzonte di linguaggio?
    Di primo acchito, la domanda mi fa venire alla mente quelle estemporanee uscite del linguaggio comune, in cui si lamenta la prevalenza ormai ossessiva degli interessi materiali ed egoistici, denunciando appunto la mancanza di «spiritualità»: o equivalentemente di «idealismo», di «interiorità», di «altruismo». Tale uso del termine è aforistico e privo di forza. Esprime una costatazione rassegnata più che un'interrogazione propulsiva. Equivale al proverbiale «non c'è più religione». Un motto di spirito, più che un moto dello spirito.
    La questione della crisi dei «valori spirituali» è ripresa – con le molle, come fosse un reperto di altri tempi – nella lingua colta delle inchieste e delle riflessioni sociologiche o psicologiche. Vale come «citazione» dell'inerzia di una lingua tradizionale, che evoca genericamente qualcosa di cui si lamenta la mancanza o si denuncia il bisogno. Qualcosa che ha remotamente a che fare con la fede religiosa, la cura dell'anima, la coscienza morale, una certa idealità del senso della vita. «Remotamente» diciamo, perché, se ci impegniamo ad approfondire la domanda con più preciso riferimento a questi ambiti dell'esperienza, abbiamo la sensazione di allontanarci dalla sua portata più generale. Il senso comune odierno percepisce in termini costitutivamente plurali stici la sfera «del-
    le» religioni, delle metafisiche, delle morali, degli ideali.
    La questione «della spiritualità» appare subito il tema di un confronto/conflitto ermeneutico interno a questo insuperabile multiculturalismo. Il modo stesso in cui viene evocato il tema, nei suoi termini generali, è culturalistico. Il suo referente non è più la realtà del rapporto teologale, ma neppure la forma morale della coscienza o lo sviluppo qualitativo dell'interiorità dell'uomo. È invece lo scenario delle loro molteplici interpretazioni: religiose, filosofiche, politiche, psicologiche, sociologiche e quant'altro.
    In realtà che cosa possiamo pensare tutti insieme quando diciamo «vita spirituale» e «spiritualità»?

    Identità spirituale e identità civile: distanza voluta e patita

    Il «senso del sacro» va e viene, si eclissa o ritorna, a seconda dei sondaggi. Da quando è ritornato sulla bocca di tutti (ma proprio tutti) è anche diventato un referente un po' banale. Oggi lambisce il fascinoso e il tremendo, domani la foca monaca e la sfera di cristallo. Una volta era terribile, dispotico, maniaco. Ora si è fatto materno, seduttivo, avvolgente. In termini ancora più generici (indifferentemente più laico-pensosi-del-problema o più catechistico-fedeli-a-Dio-e-alla-terra), è un non meglio identificato «bisogno di senso»: che azzarda investimenti e si procura risorse, si destreggia fra la domanda e l'offerta, cerca di realizzare e di realizzarsi. Intanto, si sta mangiando il capitale accumulato da intere generazioni. In tempi di povertà estrema ci restano i poeti: l'ultimo-è-sempre-un-dio (dice il Filosofo). Magari adesso è un cantautore (con filosofo incorporato).
    La mia prima tesi è semplice e rozza. Penso anzitutto questo: il fatto che esista - se esiste - un problema contemporaneo della spiritualità, consiste anzitutto nel fatto che la nostra società è culturalmente priva di una teoria decente a proposito di quella costitutiva dimensione dell'umano che è la vita dello spirito. Appunto per questa ragione, il senso comune è anche in grave difficoltà nel formulare la relativa domanda.
    La possibilità di istruire in termini universalmente accessibili i temi e le questioni della vita dello spirito chiede in effetti che essa venga daccapo fenomenologicamente riconosciuta e corrispondentemente pensata nella sua struttura antropologica universale. La sfera della coscienza credente, che è struttura originaria dell'accesso alla vita spirituale, è però priva di pubblica legittimazione (ma anche nel privato non sta tanto bene). Come realtà condivisa semplicemente non riesce a esistere. Non ha referente, non ha riconoscimento, non ha linguaggio. Troppo precipitosamente, è subito già «una» fede, «una» religione, «una» morale, «un» senso possibile. Piuttosto che niente una «scelta». La faccenda rende ovviamente più facile la discussione ideologica. Più difficile una fenomenologia realistica.
    Nonostante tutto quello che abbiamo imparato sul cucciolo dell'uomo «da zero a cinque anni» (che è molto, e molto interessante), la formazione spirituale e la vita dello spirito non costituiscono una dimensione dell'esistenza nella quale il moderrio citoyen possa riconoscere l'esperienza fondamentale della sua identità umana. Non c'è (quasi) più un referente obiettivo di quell'esperienza che la identifichi come un tratto comune, del quale si possa parlare come di una realtà condivisa al di là delle sue molteplici interpretazioni. Come per esempio avviene, poniamo, per «affetti familiari» o «ricerca scientifica».
    La realtà della vita spirituale è una dimensione dalla quale la sfera pubblica della modernità civile «doverosamente» prescinde. a quanto sembra, per due ordini di motivi. 'Il primo è che la vita spirituale, qualunque cosa significhi, indica una sfera rigorosamente privata del modo di concepire l'esistenza, sul merito della quale non ci si deve pronunciare: se non appunto rinviando a quella sfera. Il secondo motivo riguarda il fatto che la vita spirituale indica un tipo di esperienza immediatamente connotato dal riferimento. sostanzialmente arbitrario, a opzioni di tipo ideologico. morale e/o religioso. “Culturale», insomma: nell'accezione scipita e generica che ha fatto del termine una vera e propria parola «nera». «Cultura» è ormai un concetto che è «morto» della morte di mille qualificazioni. In questo senso, una problematica di tipo spirituale può essere trattata pubblicamente soltanto in riferimento ai dati delle sue molteplici oggettivazioni esistenziali e socio-culturali (opinioni e dichiarazioni di principio, opzioni morali e appartenenze religiose). Né si registra un ovvio consenso sulla qualità reale di ciò a cui l'idea di spiritualità allude.
    Il paradosso che ne deriva sta in questo. La tutela della libertà individuale ha il suo contrappasso nella censura sociale della coscienza che ne è il soggetto reale. Il paradosso vale dai due lati. L'equalitarismo burocratico della sfera civile tutela i processi di personalizzazione dell'esistenza, affidandoli peraltro interamente alla libertà del singolo. E ciò aggrava, sino al limite dell'impotenza, il carico individuale del discernimento richiesto nell'attuale complessità. I tratti dell'identità civile che marcano l'eguaglianza e gli elementi comuni si definiscono, d'altro canto, in proporzione della loro sovrana indifferenza ai temi dell'identità spirituale. E ciò accresce l'insoddisfazione del singolo per l'aridità spirituale della vita civile, che appare sempre più burocraticamente amministrata. Il circolo è vizioso per sua natura. Il difetto non è di per sé difficile da individuare. La sua composizione rivela infatti uno sbilanciamento assolutamente emblematico. Le domande e i bisogni di senso sono riconosciuti come figure universali dell'umano: però soltanto in termini di formali diritti civili, non più di istanze morali. Le risposte e le responsabilità spirituali nei confronti del senso, d'altra parte, sono del tutto ininfluenti per l'istruzione della dignità civile dell'umano. La loro elaborazione è semplicemente rinviata al mittente: le istituzioni civili si limitano-a-determinare le regole della circolazione e dello scambio.
    Nella realtà, tutti sanno che non è così. L'identità spirituale del singolo, ovvero la coscienza effettiva, è la dimensione nella quale ognuno riconosce ciò che è veramente degno dell'umano. La coscienza è il luogo del giudizio che decide l'impegno della libertà, l'orizzonte degli affetti ai quali è affidato il riconoscimento della verità. Nella sua nominazione pubblica l'allusione a questa dimensione deve però farsi elusiva e ammiccante, sottodeterminandosi come sfera dell'opinione che si può avere o non avere. In ogni caso, infatti, la dignità civile della coscienza è indifferente alle qualità spirituali che interpretano l'effettività sociale del suo esercizio.

    Dall'ideologia moderna alla burocratizzazione dell'esistenza

    Le forme dell'esperienza spirituale - che riguardano essenzialmente i legami dell'umano irriducibili a quelli biologici. economici, ideologici - hanno un bisogno vitale di riconoscimento sociale e culturale collettivo. Quello intersoggettivo di. nascita e d'elezione - della famiglia, dell'amicizia, del gruppo -non basta. La sfera della vita spirituale evoca una dimensione profonda e vitale, che desidera essere riconosciuta, non solo appagata. Il non appagamento potrà anche produrre una frustrazione dolorosa; ma è sicuro che il non riconoscimento genera un'angoscia mortale. Per la vita spirituale - ovvero per la qualità morale di quella coscienza credente che l'uomo è - appare fondamentale l'esperienza dell'essere riconosciuta come elemento che accomuna più di quanto le sue interpretazioni non dividano. La sua odierna rappresentazione culturale però - proprio come per una sorta di ascesi laica dell'age contra - impone in ogni circostanza di mortificare questo impulso e questa esigenza. La comunicazione sociale sembra imporre che si rinunci pregiudizialmente a un'identità pubblica fondata su quel riconoscimento. I legami dei quali la coscienza vive (e muore) devono così essere immediatamente iscritti nel fatidico operatore della modernità cartesiana e civile: «a prescindere da», «al di là di». Il contenuto di questa parentesi, però, è proprio il tema della nostra identificazione spirituale: che è plasmata da ogni atto della libertà nei confronti dell'istanza morale suscitata dall'esperienza soggettiva dell'agire.
    Il progressivo abbassamento della soglia di coinvolgimento delle istituzioni civili con la qualità etica e l'identità spirituale può essere propagandato anche come un coefficiente assoluto di rispetto democratico e di rigore deontologico.
    Un tale abbassamento infatti risulta direttamente connesso con un allargamento della sfera dell'autonomia e della partecipazione. Il disimpegno dell'amministrazione collettiva (ossia delle istituzioni politiche e culturali) nei confronti della coscienza effettiva/affettiva, che in realtà non vive e non opera in alcun modo senza riferimento alla qualità etica del sentire e dell'agire, ne emerge riqualificato in termini di cura politicamente corretta e razionalmente avanzata della qualità civile complessiva. Nella realtà, tuttavia, quel disimpegno si traduce in un sostanziale incremento di burocratizzazione del legame sociale (regole di regole, e procedure di procedure), e in un altrettanto sostanziale alleggerimento di qualità dell'identità individuale (ciò che è decisivo per la dignità spirituale del singolo è variabile indipendente dall'identità democratica del cittadino).
    La modernità esegue qui la secolarizzazione di se stessa, prendendo distanza dalle ultime tensioni spirituali che l'hanno abitata. Con tutto il suo positivismo, e a dispetto della pericolosa arroganza (per altro largamente transitata nel nostro tempo) che accompagnava il suo ingenuo idealismo, infatti, la scienza ottocentesca occupava lo spazio di una tensione spirituale che oggi ha perduto: consegnandosi al mediocre e instabile profilo deontologico dei suoi sviluppi tecnici e dei suoi limiti legali. Il conflitto delle ideologie, a cavallo dei due secoli fino a lambire gli ultimi decenni del nostro, ha pur anche tenuto in vita – persino sub contrario e drammaticamente – la temperie di un'idealità spirituale: che si è poi consegnata al primato dell'economia come a una religione della civiltà. La distanza da questa modernità era necessaria (e. sotto certi aspetti, sacrosanta). Ma la perdita che ha accompagnato una transizione non pensata a dovere è altrettanto seria.
    Il moto di adattamento ha ormai trovato anche la sua cifra di omologazione. La capriola del pensiero che ha incominciato a chiamare postmoderno il tempo presente è una mistura di calcolo strategico e di assestamento spontaneo. Anticipando il contenitore dei prossimi adattamenti in termini di ulteriore libertà del costume individuale di vita. ci abitua a tollerare la maggiore burocratizzazione amministrativa dell'esistenza resa progressivamente necessaria dalla nuova egemonia della ragione economica su quella politica.
    La ricerca di valori comuni senza fondamento favorisce la libera circolazione delle merci. Anche il mercato, infatti, ha bisogno del suo ecumenismo: il cliente (che paga) ha sempre delle buone ragioni. Lo sviluppo dell'interazione comunicativa senza condivisione della responsabilità dei fini isterilisce però la qualità spirituale dell'interazione umana che si propone di favorire. Il mezzo non è solo un vettore, è un messaggio: fargli trasportare parole buone non basterà.
    Di fatto, nel costume occidentale, soltanto un capello divide ormai le forme culturali del dialogo da quelle economiche dello scambio. Ed è un fatto assai sintomatico che le pretese universalistiche che ci sono inibite culturalmente rimangono sotterraneamente (si fa per dire) operanti nella sfera dell'economia globale. La visione della società come «sistema di bisogni», al quale corrisponde oggi una visione del mondo come «mercato globale», non è affatto una rappresentazione ovvia quanto vorrebbe farci credere la chiacchiera corrente. (E tanto meno innocua). Il fatto che in questa rappresentazione siano oggi reintegrati come essenziali i bisogni spirituali (culturali, estetici. etici, religiosi) non significa tanto l'apertura del diritto e della politica alla trascendenza della forma spirituale, quanto la testimonianza della forza che il primato della sfera economica è in grado di esercitare anche sul linguaggio e sulla comunicazione.
    La città moderna è il simbolo stesso della contemporaneità pluralistica e politeistica che si produce e si riproduce mediaticamente ed economicamente in modo indipendente dallo spazio locale dell'insediamento e dal tempo reale dell'azione. Come per un fenomeno di centrifugazione urbana, i tratti spirituali della relazione che la coscienza intrattiene con il mondo e con l'altro si depositano nelle viscere nascoste di un'interiorità sempre più invisibile e inafferrabile. Quando affiorano, si trovano irrimediabilmente inquadrati e metabolizzati in qualche loro oggettivazione: «fenomeno» e «prodotto» dell'opinione, del costume. della biografia. del comportamento, dell'appartenenza. dell'organizzazione. Questi fatti. già sempre inquadrati come dati della realtà sociale, sono immediatamente marcati in termini di funzionalità rispetto a bisogni individuali di carattere astrattamente generale. E assumono un senso civile soltanto in quanto vengano iscritti nella cornice di un'identità separabile dall'intenzione che originariamente li abita, per circolare come «dati» e «significati» che si possono osservare, scambiare, utilizzare, consumare liberamente.
    Per ritrovare la loro fisionomia reale, per custodire la loro qualità spirituale dal fraintendimento, essi devono perciò sottrarsi a questa visibilità e a questo consumo. Devono rifugiarsi nella dissimulazione, nel privato, nell'esoterico. Ma in tal modo devono anche rimanere dolorosamente separati dalla biografia civile del singolo e dalla stabilità delle relazioni sociali che la alimentano. E di nuovo perdono sostanza corporea e riscontro obiettivo nella realtà del mondo abitato e vissuto, aggravando il meccanismo della dissociazione e delle relative compensazioni.
    L'evaporazione spirituale della coscienza e l'anonimato urbano delle sue oggettivazioni si attraggono e si respingono in qualche modo a vicenda. Da un lato l'oggettivazione moderna dei rapporti sociali è una condizione favorevole e' necessaria alla libertà della coscienza. Dall'altro essa oppone una concreta resistenza alla possibilità di coniugare quella libertà con una proporzionale qualità dei legami sociali.
    Nella città moderna si può nuovamente parlare del bisogno religioso e del bisogno di senso. Purché ciò avvenga etsi fides non daretur, ossia indipendentemente dalla fede. In effetti, l'espressione più frequente della lingua cristiana medesima, quando essa parla «a tutti» del rapporto con Dio, del Vangelo, del cristianesimo, è appunto questa: «a prescindere dalla fede che poi uno può liberamente avere o non avere». L'espressione evoca una verità teologicamente indiscutibile, servendosi di una retorica realmente inevitabile: utile a dissipare un equivoco dannoso per la comunicazione cristiana medesima. E tuttavia questa abitudine linguistica, che suggerisce l'irrilevanza della qualità spirituale della libera autodeterminazione, pronuncia una censura della coscienza credente difficilmente rimediabile. Sia dal punto di vista antropologico, sia dal punto di vista cristiano. Perché la disponibilità a lasciare che il Vangelo parli alla coscienza e interpelli la libertà non è una limitazione dell'universale accessibilità della verità di Gesù.
    Ritornando per un momento ancora alla questione del referente antropologico della vita spirituale, ci chiediamo ora: qual è il referente elementare e concreto dell'esperienza spirituale, che sia riconoscibile dall'«io minimo» del moderno citoyen come indice condivisibile della sua esistenza? La mia seconda tesi – semplice e rozza come la prima – la formulerei così. Nella configurazione attuale della città moderna, l'unica coscienza universalmente condivisibile dell'esperienza spirituale è oggi quella iscritta nel circolo dell'emozione individuale e del sentimento d'amore.

    Emozione e innamoramento: il possibile avvio

    La faccenda va presa seriamente. Intendo dire che quel doppio profilo dell'odierno sentire è realmente un punto di partenza essenziale per l'istruzione della questione.
    La duplice figura ha il vantaggio anzitutto di fornire a ogni individuo di questa epoca un referente effettivamente apprezzabile, immediato e non intellettualistico. di ciò che significa un'esperienza spirituale. Le figure hanno molti vantaggi. Esse infatti alludono facilmente, spontaneamente e universalmente al profilo dell'interiorità in quanto sperimentata dall'uomo. Per una cultura di senso comune, che non pensa più metafisicamente l'esperienza, l'emozione e l'innamoramento non sono più la parte esteriore e superficiale dello «spirito». dell'«anima», della «coscienza» di sé o dell'amore per l'altro. Emozione e innamoramento s(iiro già la concretezza apprezzabile di tuttequelle realtà. Sono un modo adeguato per pensarle e immaginarie; nella loro specifica irriducibilità agli elementi organici e materiali, empirici e utilitaristici dell'esperienza che l'uomo fa di sé.
    La riduzione fenomenologica dell'idea di esperienza spirituale (interiore, personale, qualitativa) al profilo dell'emozione e dell'innamoramento ha il vantaggio di fornire un referente facile da intendere e ideologicamente non compromesso. Il rimando dell'interiorità spirituale alla profondità dell'emozione e all'intensità dell'innamoramento fornisce un'indicazione relativamente precisa e sufficientemente semplice. Elude infatti la necessità di fare riferimento a una figura troppo sofisticata e impegnativa dell'esperienza spirituale, pur essendo in grado di raccoglierle tutte intorno al tratto di un'esperienza comune. E fa passare in secondo piano il conflitto delle interpretazioni, evocando una figura di autenticità universalmente apprezzata, legata al profilo di una qualità personale ed etica che è fuori discussione. In più, si tratta di un profilo dell'esperienza che, per essere immediatamente allusivo dell'interiorità e della qualità etica, è largamente ospitale nei confronti del più ampio spettro di posizioni ideologiche o pratiche. Vale per la relazione dell'uomo e della donna come per la mistica religiosa, per la natura inanimata come per la musica classica, per l'apertura oblativa e altruistica come per la riuscita dell'esperimento e della professione.
    Non si dovrà troppo superficialmente dequalificare la straordinaria estensione della pertinenza di questi referenti: oggi largamente «sostitutivi» dell'esperienza spirituale. Liquidarli come aspetti «puramente» psicologici, in un senso radicalmente oppositivo nei confronti della qualità «spirituale» non mi sembra né pertinente, né saggio. Analogamente, cercare di ricollocarli nello spazio di una «fenomenologia» dell'esperienza che li considera variabili esteriori e indipendenti rispetto a una «ontologia» dell'anima, della coscienza morale e della relazione teologale, significa non intendere la portata sostanzialmente diversa che la semantica di questo lessico riveste nell'uso odierno. Di fatto, queste figure abbracciano intenzionalmente – per quanto ambiguamente – un campo più vasto: che in gran parte include la «realtà» che in precedenza era pensata dentro le forme razionali della coscienza soggettiva e dell'anima spirituale.
    Con tutto questo, l'ambivalenza rimane: e deve essere accuratamente elaborata. Di più: rimane anche il fatto che, nella condizione sociale e culturale che abbiamo più sopra abbozzata, la compressione dell'esperienza spirituale dentro la ridotta di quella duplice figura referenziale, è anche il segno dell'impotenza e della resa. La cultura «dotta» rimane ostinatamente incapace (diciamo così) di restituire ampiezza e dignità di vita dello spirito all'esperienza del pensiero, della coscienza e degli affetti. L'estetizzazione dell'esperienza spirituale, che è tutt'altra cosa rispetto all'integrazione del momento estetico nella vita dello spirito, è legittima difesa. Ma certo anche sintomo della sua rassegnazione all'impotenza. La constatazione del fatto che l'eccitazione prodotta dall'evento speciale (in realtà ripetitivo) e l'aura del sentimento erotico (in verità intellettualistico) siano l'unico codice di intesa universale per l'accesso alla dimensione dell'interiorità personale, è anche desolante.
    In effetti, più che segno della vita spirituale e della sua sensibile emergenza, le emozioni sono diventate l'unica evidenza universale della sua esistenza. Ormai, nella lingua correntemente usata in pubblico, ognuno riassume in termini di emozioni «date» o «provate» esperienze fondamentali dell'esistenza che sino a ieri venivano iscritte in una costellazione più variegata di categorie dello spirito: come relazioni affettive e relazioni sociali, come libere scelte e come convinzioni personali, come giudizi etici e legami responsabili.
    Nulla sembra più personale, ricco e coinvolgente, dell'emozione. Eppure niente è più generico ed elementare, e dunque più capace di circolare e di essere consumato anonimamente, del tutto indipendentemente dalle qualità personali e interiori della coscienza, dell'emozione (ovvero dell'eccitazione corrispondente). Per rassicurare circa la qualità oggettiva del loro senso, le emozioni hanno bisogno di simulacri e catalizzatori collettivi della loro condivisione. Nella città moderna, pluralistica, anonima, irrimediabilmente frammentata, questi elementi di polarizzazione devono essere enfatizzati come-elementi disponibili per una libera condivisione, in linea di principio universale. Devono cioè apparire come notizia mondiale, evento collettivo, fenomeno di massa. In corrispondenza con questa caratteristica, le forme capaci di far uscire la sfera del sentire dall'isolamento e dal nascondimento devono dissimulare il loro rapporto con tutto ciò che a priori indica un legame ulteriore a quello che appare funzionale all'indiscriminato riprodursi dell'emozione medesima. La mortificazione imposta alla vita dello spirito dalla civiltà urbana si riorganizza così immediatamente.
    L'emozione appare. nella realtà, assai più vuota della sua ammiccante promessa di interiorità (alla quale è certo originariamente associata, nell'esperienza dell'uomo). E sollecita pertanto il nuovo prodursi di notizie o eventi capaci di rassicurare la coscienza circa la sua possibilità di avere una vita interiore, reale e perciò condivisa. Purtroppo però, si tratta di una condivisione che unisce nell'esteriorità dell'emozione. Ossia la parte più superficiale della vita dello spirito. La più disponibile, in effetti, a generare la percezione di una sintonia molto intensa, a fronte della necessaria elusione di ogni più impegnativo assetto deliberato (e deliberante) dello spirito.
    Allo stesso modo, lo svilimento burocratico della convivenza nella città moderna esalta il valore compensatorio del sentimento d'amore in una misura ossessiva. Nella realtà esso viene sostituito dalla sua mimica erotica e dalla sua metamorfosi estetica. Non ci sono però spostamenti e sublimazioni: il disagio della civiltà incoraggia la regressione pura e semplice alla interpretazione del rapporto erotico come scenario virtuale di ogni relazione possibile dell'umano.

    La riduzione romantica di Dio all'amore

    L'evocazione del sentimento d'amore, la sua poetica e la sua tecnica, la sua fisiologia e la sua patologia, forma una sorta di esperanto dell'anima e requisisce ogni immagine del fondamento e del progetto dell'esistenza. Non vedo sintomo più demoralizzante della cupa disperazione e dell'obiettivo nichilismo che sono indotti dall'aridità dello spirito nella città moderna, di questo bisogno di raccogliere l'intera destinazione dell'ordine degli affetti nella simulazione dell'innamoramento che requisisce tutte le figure di valore dell'estetico, dell'etico, del religioso. La perfetta parodia (nel senso musicale) di agape vive parassitariamente del suo spirito e della sua forza, all'ombra del supremo comandamento: con tutto il cuore, con tutta la mente, con tutta l'anima. Ed è in grado di simulare tutti i legami dello spirito: della fede, della speranza. della carità.
    È tempo che il cristianesimo incominci a fare criticamente i conti con la deriva romantica che ha filosoficamente sostituito alla sapienza e al legame dell'amore la mania e la malattia del sentimento d'amore. Sulla colonizzazione romantica della religione dell'amore la teologia non ha vigilato così puntigliosamente come è avvenuto a proposito della risoluzione razionalistica della coscienza.
    La minore vigilanza è anche dovuta al fatto che il romanticismo ha iscritto la sua polarizzazione dell'amore dentro un'idealità religiosa – e persino mistica – della vita dello spirito. L'equivoco (acutamente individuato nel commento di Kierkegaard al Don Giovanni di Mozart) è rimasto parzialmente coperto dal fatto che, mentre il lessico della razionalità illuministica era platealmente plasmato dall'opposizione alla religione e alla fede, quello dell'innamoramento romantico era altrettanto platealmente iscritto nell'orizzonte mistico della spiritualità.
    La versione post-moderna del sentimento e dell'eros romantico rilancia la loro idoneità a polarizzare la forma spirituale in chiave materna più che paterna, orfica più che prometeica. Il suo modo di sostituire in chiave laica e secolare la tensione spirituale biblico-cristiana di fede, speranza e agape passa di nuovo attraverso l'orizzonte naturalistico della religione umanistica dell'amore e del benessere di Feuerbach (Luc Ferry, [1] poniamo), di cui è stato volgarmente equivocato il materialismo e perciò sottovalutata l'inquietante anticipazione profetica, [2] più che non attraverso la passione rivoluzionaria di Marx. Simmetricamente, la mistica della disperazione e del degrado, che vive con paradossale affiato religioso il disincanto dei valori, e sperimenta fino in fondo l'elemento tragico iscritto nella promessa di spiritualità alternativa (anti-illuministica, anti-burocratica, anti-borghese) iscritta nella deriva dell'emozione e dell'erotico, dovrà essere studiata nello specchio di George Bataille, [3] piuttosto che in quello di Friedrich Nietzsche. È lì che troviamo, infatti, la figura – patetica ed emblematica insieme – dell'eroe spirituale negativo protagonista del post-moderno. Un soggetto cioè che cerca l'improbabile protagonismo erotico e mistico della «vita interiore» nell'«io minimo», prodotto dalla moderna società civile, invece che nell'eroismo tragico del «super-uomo» di Nietzsche, generato dalla rivolta romantica degli «dèi del Nord» contro la civiltà cristiana.
    Se consideriamo l'insieme di questo approccio dal punto vista della storia della spiritualità cristiana, possiamo aver indicazioni istruttive, non prive di sorprese.
    La storia della spiritualità del cristianesimo – una volta che sia concepita al di fuori dalla sua riduzione alla storia delle devozioni e,delle regole religiose, o delle tecniche ascetiche e mistiche di controllo dell'interiorità – presenta nell'epoca moderna due punti di volta. Questi due momenti cruciali, che hanno rilievo generale per la storia della dottrina della fede nella nuova epoca civile, presentano un lato – tuttora incompiuto – che riguarda proprio il rapporto fra spiritualità della fede ed esperienza spirituale dell'uomo.
    I due punti sono quelli che si riferiscono alle figure della fede fiduciale (Lutero) e all'amore puro (Fénelon). La prima pone la questione della rilevanza antropologica della fede salvifica, evocando appunto i tratti della profonda emozione interiore suscitata dalla grazia del riscatto mediante l'azione dello Spirito. La seconda, un secolo dopo. solleva il problema del legame fra la qualità spirituale della fede e la forma – insieme «mistica» e «morale» – del suo compimento nell'intenzionalità perfettamente disinteressata dell'amore. Su entrambi i punti (e in entrambe le confessioni) il cristianesimo mise temporaneamente in stallo la questione del raccordo tra la struttura teologale della fede e l'esperienza spirituale dell'uomo. E in tal modo ne incoraggiò in certo modo la separazione.
    C'era qualcosa di inevitabile nel mancato sviluppo delle potenzialità dell'affectus fidei e dell'amor Dei per l'istruzione di una conformazione della coscienza credente alternativa alla vecchia metafisica naturalistica/soprannaturalistica della separazione fra ontologia e fenomenologia. Sullo sfondo metafisico, come nell'impianto razionalistico. [esaltazione psicologica dell'affectus fidei e l'enfasi mistica sull'amor Dei sembravano troppo facilmente a rischio di psicologismo e di irrazionalismo. L'impressione destata nell'Europa civile e religiosa più sensibile dal fanatismo di una mistica irrazionalistica, dall'accanimento delle guerre religiose, dalla resistenza ecclesiastica alla modernizzazione scientifica e giuridica, hanno fatto il resto.
    Lo spessore spirituale della coscienza sensibile e l'energia strutturante della coscienza morale sono i due grandi momenti della rimozione cartesiana. Con l'età del razionalismo, le due figure escono dalla sfera della conoscenza e della certezza: e incominciano a occupare un ruolo secondario e subordinato nella configurazione dell'autocoscienza come principio umano universale e condiviso della interiorità spirituale.
    È forse venuto il momento di riprendere l'ispirazione teologica di quei due motivi. dell'affectio fidei e dell'amor Dei, per rilanciare l'alto profilo strutturante del momento estetico e del momento morale per la configurazione della relazione teologale in cui la fede cristiana consiste? Se così fosse (e io credo che sia venuto il momento) una nuova cultura religiosa della dignità che compete all'esperienza spirituale dell'uomo trarrebbe motivo di intelligenza proprio dallo sviluppo di una teologia spirituale cristiana della coscienza credente e della coscienza morale.
    La sua strumentazione non sarebbe però quella – gnostica e razionalistica a un tempo – della separazione della mente e del corpo, dell'ontologico e del fenomenologico, del sapere teorico e della decisione pratica. Bensì quella che fa appello all'esperienza universalmente condivisa della loro correlazione. A cominciare dall'elaborazione analitica (critica non retorica) dell'intreccio fra relazione teologale (creaturalmente e redentivamente fondante) e della coscienza sensibile: che passa proprio attraverso l'originaria esperienza morale del mondo («da zero a cinque anni»). Per finire con l'istruzione dell'energia strutturante dell'ordine evangelico di agape: ossia della qualità intelligibile, e produttrice d'intelligenza, che è iscritta nella sapienza capace di ordinare (discernere, collegare, mettere in connessione gerarchica) l'esperienza degli affetti dell'uomo.
    Esperienza sapienziale, da non dissolvere nell'eccitazione dello stupefacente e nell'improbabile compimento di eros, che rappresenta il luogo di nascita e la struttura permanente dell'esperienza morale dell'uomo. Dentro questo legame pratico e interiore, intelligente e deliberato, sensibile e intenzionale, dell'estetico e dell'etico, diviene apprezzabile la dignità spirituale dell'esistenza e la qualità teologale.

    Lo spirituale nel postmoderno: vissuto e radicalità

    Così l'uomo viene a Dio e alla fede: ma anche al riconoscimento della bellezza interiore dell'esistenza sensibile, e alla dimostrazione dello Spirito e della forza che tengono in vita la speranza del compimento degno della creazione contro ogni mortificazione della vita eterna che è in noi. Così Dio e la fede vengono all'uomo. Come amor Dei e affectus fdei che non vivono dei resti, non ancora addomesticati dalla ragione, di un'originaria energia mitica dell'emozione sacra e dell'eros biologico. La felice saldatura fra la manifestazione affettuosa della verità teologale e il dono riconoscente del proprio affidamento, è scritta «con lacrime e sangue» nell'esistenza e nell'esperienza umana del Figlio. È data nell'agape di Gesù che si rivolge anche al samaritano. e nella fede di Gesù che si consegna all'Abbà-Dio. L'evangelo è a disposizione per attizzare il fuoco dello Spirito che accende lumen sensibus e infonde amorem cordibus. Per il riscatto dei molti sin da ora. Per la risurrezione della carne, e il compimento degli affetti più cari, infine.
    Il principio anti-gnostico della spiritualità cristiana, miracolosamente difeso in condizioni di improbabile successo dagli antichi padri della fede, ha qui la sua chance. La «fenomenologia di Gesù» riassicura alla realtà ontologica dello Spirito la forma sensibile e/ corporea del rapporto teologale e della coscienza morale. La separazione delle «menti illuminate» dalla condizione terrena comune, la «fuga dal mondo» che abbandona la città dell'uomo al proprio destino, sono rigurgiti gnostici che devono nuovamente essere espulsi. Non sono soltanto espansioni di una presunta «mistica» religiosa, ma anche sottoprodotti di una «scienza» presuntivamente superiore, che consegna la coscienza comune al succedaneo emotivo ed erotico di una spiritualità per i più inaccessibile.
    La paziente frequentazione. partecipe e critica, delle figure quotidiane e a basso regime in cui vive la spiritualità del nostro tempo, è condizione necessaria dell'intelligenza e della cultura spirituale del cristianesimo. [4] Non per ragioni tattiche o strategiche. Ma proprio in virtù dell'inedito cristologico delta rivelazione di Dio attraverso l'appello dell'ordine di agape alla coscienza del singolo: ordine per sua natura sensibile e spirituale, sociale e teologale, «estetico» e »morale». E in vista della «rianimazione» spirituale della vita più «comune».
    Infine, dopo aver frequentato (del resto non inutilmente) l'epica esodiana dell'evento liberatore e la critica profetica della religione legale, è forse tempo, per la teologia spirituale cristiana. di applicarsi sistematicamente e con rinnovato fervore allo sviluppo di un'intelligenza sapienziale della vita quotidiana. Non è certo un'intelligenza spirituale evanescente e leggera. Include infatti la capacità di misurarsi con la radicalità del dolore (Giobbe) e della disillusione (Qoèlet). di eros (Cantico) e dell'angoscia (Salmi). E tuttavia, possiede un tratto insostituibile per l'intellectus fidei nel nostro tempo: rimane a stretto contatto con le figure dell'esistenza quotidiana. Non si sottrae ai suoi luoghi comuni, si misura con la tradizione popolare delle massime e dei proverbi che la istruiscóno nel bene e nel male, si mette sullo stesso terreno della sua psicologia, delle sue pulsioni, delle sue emozioni, dei suoi odi e dei suoi innamoramenti, dei suoi grovigli legali e delle sue furbizie di sopravvivenza, dei suoi legami familiari e delle sue ingenue emozioni, delle sue pesantezze e delle sue letizie, dei suoi travagli economici e dei suoi godimenti infantili.
    La sapienza che il cristianesimo è in grado di esprimere in questo contesto è ancora assai vaga e leggera. E per altro rispetto, troppo altisonante e dogmatica. Nella vita vissuta ciò accade, naturalmente. Ma la rappresentazione cristiana dell'alto profilo teologale iscritto nel vissuto minimo e più comune è scarsa o invisibile. La sfida è una teologia (un'intelligenza, non una retorica, della fede) di alto profilo e di ampio respiro che si mostra «istruita» da una vita spirituale che vive sul basso profilo e sul corto respiro della condizione quotidiana della città postmoderna, frastornata pluralisticamente e politeisticamente, economicamente e mediaticamente. Questo è l'obiettivo urgente di una teologia spirituale cristiana. O se si vuole, di una cultura cristiana dell'esperienza spirituale dell'uomo.
    Certo, nella situazione attuale, sarà difficile che l'entusiasmo e la tenacia richiesti all'intelligenza della fede si accendano motu proprio. Del resto non sarebbe la strada giusta. Lo sfondo capace di propiziare l'impresa – ormai è chiaro – non verrà dall'ingenuo slancio che si propone di cavalcare le condizioni più favorevoli a una compiacente propaganda mediatica e a una modernizzazione operativa degli apparati. Ma neppure verrà dal prolungato attestarsi sulla soglia della lamentazione infinita intorno al degrado metafisico, morale, culturale dell'epoca. Il punto di accensione verrà probabilmente dalla disseminazione di una nuova santa alleanza fra il principio monastico e il principio domestico della tradizione cristiana. La loro frequentazione reciproca, dimessa e sottotraccia dal punto di vista della visibilità esteriore, ma intensa e radicale dal punto di vista del legame spirituale e pratico, deve candidamente dirottare il senso della spiritualità cristiana per la vita comune dalla programmazione aziendale e dall'irrazionalismo depressivo. E astutamente attrarre il ministero pastorale all'evangelizzazione e alla cura della vita cristiana nella comune condizione civile, più che della sua specializzazione devota e gestionale.
    Da questa frequentazione, il monachesimo dovrà apprendere a fare i conti, una volta per tutte, con la permanente seduzione dell'interpretazione gnostica, e non cristiana, della sua separazione dalla vita nel mondo. Il cristianesimo domestico, a sua volta, dovrà trarre dalla diaconia della vocazione monastica (che non significa necessariamente estraneità di insediamento e di-vita) la forza per abbandonare il proprio stato di soggezione (un po' patita. un po' cercata) nei confronti della possibile radicalità evangelica della vita più comune. Il più elementare, nella forma cristiana, è anche il più radicale. L'ascolto affettuoso della Parola che fa memoria del Signore, la celebrazione dell'eucaristia che fa la presenza del Signore, l'azzardo della fraternità di un comune sentire e operare che fa l'attesa del Signore.
    Fra l'icona cristiana del cristiano del mondo che si trova sullo sfondo della Lettera a Diogneto e quella iscritta fra le righe della Regola di Benedetto non si possono trovare dissomiglianze che non rivelino somiglianze ancora maggiori.

    NOTE

    1 L. FERRY, L'homme-Dieu, on le Sens de la vie, Grasset. Paris 1996. Al posto di Dio. Il bisogno del sacro nel sentire contemporaneo. Frassinelli. 1997.
    2 Assolutamente istruttivo. benché assolutamente trascurato. un brillante saggio di storia delle idee che percorre l'itinerario «filosofico» della separazione/sostituzione ontologica fra l'amore e Dio, segnalando anche le condizioni per la rilettura teologica del processo: J. DELESSALLE - T. VAN TOAN. Quand l'amour éclipse Dieu. Rapport à antrui et transcendence. Cerf. Paris 1984.
    3 G. BATAILLE. La vita interiore. Dedalo. Bari 1994. Ct. G. COMPAGNO, Bataille, Edizioni Tracce, Pescara 1994.
    4 G. ANGELINI. Assenza o ricerca di Dio nel nostro tempo, Centro Ambrosiano. Milano 1997.


    (Regno-attualità 18/98 pp. 637-643)


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