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    La santità frutto

    dello Spirito

    Bruno Forte


     

    «Compiuta l’opera che il Padre aveva affidato al Figlio sulla terra, il giorno di Pentecoste fu inviato lo Spirito Santo per santificare continuamente la Chiesa e affinché i credenti avessero così attraverso Cristo accesso al Padre in un solo Spirito» (Concilio Vaticano II, Costituzione sulla Chiesa Lumen Gentium, 4). Con queste parole il Concilio Vaticano II ha indicato la santificazione come scopo e frutto principale dell’azione dello Spirito Consolatore nella Chiesa, quale partecipazione alla vita del Dio trinitario, uno nell’eterno Amore. Il discepolo del Signore Gesù, dunque, per la grazia dello Spirito Santo, è chiamato a vivere nel suo cuore e nella sua carne l’incontro dell’avvento divino e dell’esodo umano, che si è compiuto in maniera normativa e fontale in Colui, che è morto e risorto per noi. L’azione dello Spirito Santo nella storia è tutta al servizio della realizzazione di questo incontro, che Egli rende possibile anticipando nel presente degli uomini il domani della promessa di Dio. È pertanto triplice l’opera dello Spirito nel tempo: in primo luogo, è Lui la vivente memoria di Dio, che attualizza le meraviglie dell’avvento “già” avvenuto del Suo Figlio fra noi e trasmette il dono della santità, offertoci nel Verbo incarnato; quindi, è Lui che trasforma gli “oggi” degli uomini nell’“oggi” della grazia che salva e che santifica; infine, è Lui che incessantemente coniuga il presente del mondo al “non ancora” dell’ultimo giorno, facendoci pregustare qualcosa della santità infinita di Dio. Grazie a questa triplice opera del Consolatore l’acqua della vita scorre con sempre nuova freschezza nei giorni degli uomini e rende possibile a loro di corrispondere alla chiamata alla santità, che nel disegno dell’Altissimo è rivolta a ogni creatura umana...

    1. Lo Spirito e la memoria di Dio: “de Trinitate sanctitas”

    È lo Spirito la memoria vivente di Dio, è Lui che la dona alla Chiesa. Perciò, è Lui che fa entrare i credenti in tutta la verità del Padre, rivelata una volta per sempre nel Suo Figlio Gesù: «Quando verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera» (Gv 16,13). Secondo la concezione biblica la verità non è l’alétheia greca, il toglimento del velo per l’esibirsi alla visione di ciò che era precedentemente nascosto, ma è l’‘emet, termine ebraico che dice la fedeltà, il dimorare nell’alleanza con Dio obbedendo al patto stabilito con Lui per iniziativa del Suo amore. In quanto Spirito della verità, il Paráclito è dunque Colui che attua la fedeltà di Dio, rendendo presente a ogni tempo e in ogni luogo l’evento del Suo dono. Nella storia lo Spirito realizza così il memoriale dell’alleanza, facendo risuonare nel tempo le parole di vita in cui si dicono la Parola e il Silenzio di Dio: è la Scrittura, allora, il luogo per eccellenza dell’azione dello Spirito, perché in essa la Parola di Dio viene ad abitare nelle parole degli uomini grazie all’azione del Consolatore.

    a) La santità e l’ascolto della Parola di Dio. Nello Spirito la Parola si offre come forza veniente dall’alto, «viva ed efficace, più tagliente di ogni spada a doppio taglio: essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4,12). La Parola di Dio produce ciò che annuncia: «Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e 1 fatta germogliare, perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata» (Is 55, 10s). Perciò la Scrittura ispirata da Dio - custode della Parola - «è utile per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona» (2 Tm 3,16). Alla Parola, consegnata nella Scrittura, si deve allora ascolto, «fiducia ed obbedienza, in vita come in morte» (Karl Barth): in essa parla il Dio vivente e santo. In essa lo Spirito realizza il dialogo dello Sposo con la Sposa, la Chiesa. La Scrittura è la fonte dell’esistenza credente: da essa la fede attinge il suo oggetto, in essa trova il suo criterio, da essa riceve la sua forza, grazie ad essa è perennemente giovane e capace di parlare alle diverse generazioni degli uomini, bisognose di ascoltare la Parola dell’Altissimo, che sola è Parola di vita eterna (cf. Gv 6,69).
    Per ascoltare correttamente la Parola nelle parole della Scrittura, la fede avrà bisogno dell’esegeta, che le fornisca il contatto più fedele col testo e il messaggio che vi dimora: l’esegeta, che solo attua pienamente il ponte fra la Parola e la vita, consentendo di interpretare la lettera perché schiuda il suo tesoro nascosto, è appunto lo Spirito. «Il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v’insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (Gv 14,26). Se il Verbo incarnato è l’esegeta del Padre (cf. Gv 1,18), lo Spirito è l’esegeta del Figlio, Spirito di verità, che glorificherà Gesù manifestando le ricchezze del Suo mistero: «Quando verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve l’annunzierà» (Gv 16,13s). Lo Spirito è la forza di attrazione, l’amore estatico di Dio, per il quale Egli esce dal silenzio e si comunica nella Parola, suscitando un amore di risposta, parimenti estatico, bisognoso di uscire dal chiuso del proprio mondo, per immergersi nei sentieri senza fine del Silenzio, cui fedelmente conduce l’evento di rivelazione. «A Dio che rivela è dovuta l’obbedienza della fede (cf. Rm 16,26; Rm 1,5; 2 Cor 10,5-6)»: perché si possa prestare questa fede, però, «è necessaria la grazia di Dio che previene e soccorre e gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi della mente, e dia a tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità» (Costituzione sulla divina rivelazione Dei Verbum, 5). Lo Spirito agisce dunque nella storia anzitutto attraverso la Parola del Dio vivo, verso cui dispone i cuori e da cui fa scaturire i fiumi di acqua viva che rendono possibile la santità.

    b) La santità e la trasmissione ecclesiale della fede. Con la Scrittura è anche la Tradizione vivente della fede, pensata e vissuta nella comunione ecclesiale, a offrirsi come luogo peculiare dell’opera dello Spirito Santo e dei suoi frutti: anche ai testimoni della Tradizione si volgerà pertanto l’ascolto del credente per incontrare e accogliere quanto l’Eterno continuamente dice alla Chiesa nel tempo. Lungi dall’essere meccanica ripetizione di ciò che è morto, la Tradizione è vita che trasmette la vita. L’avvento divino suscita il popolo dei pellegrini che - di testimone in testimone - trasmette a tutte le generazioni la memoria dell’Eterno, legata al testo della Scrittura ispirata, ma anche al contesto dell’annuncio e della prassi credente, in cui lo Spirito opera per condurre la Chiesa verso la pienezza della verità divina. Nella Tradizione la memoria della fede si fa presenza ed esperienza attuale, per cui l’avvento compiutosi una volta per sempre in Gesù Cristo viene a farsi contemporaneo all’oggi degli uomini nella forza dello Spirito Santo. In questo senso, si potrebbe affermare che la Tradizione è la storia dello Spirito nella storia della Sua Chiesa: «Così Dio, il quale ha parlato in passato, non cessa di parlare con la Sposa del suo Figlio diletto, e lo Spirito Santo, per mezzo del quale la viva voce dell’Evangelo risuona nella Chiesa e per mezzo di questa nel mondo, introduce i credenti in tutta intera la verità e in essi fa risiedere la parola di Cristo in tutta la sua ricchezza (cf. Col 3,16)» (Dei Verbum, 8).
    La Tradizione si esprime in modo del tutto particolare nella liturgia, dove il mistero proclamato, celebrato e vissuto si offre con un eccezionale valore di totalità: «Nella liturgia lo Spirito che ispirò le Scritture parla ancora; la liturgia è la Tradizione stessa nel suo più alto grado di potenza e di solennità» (Dom Prosper Guéranger). Con i suoi testi la liturgia plasma il linguaggio della fede e ne è a sua volta espressione (“lex orandi, lex credendi”): in essa lo Spirito irrompe sempre di nuovo nella storia per rendervi presente ed efficace l’alleanza con Dio (“epiclesi”).
    Un’altra voce potente della Tradizione è quella dei Padri della Chiesa, gli antichi scrittori cristiani, caratterizzati da una tale fedeltà nel testimoniare la Parola con le parole e con la vita, che la stessa comunità ecclesiale l’ha riconosciuta come esemplare, recependo nel tempo il loro messaggio. I Padri «non hanno cercato tanto di esercitare il proprio genio quanto di servire, esprimere, difendere ed illustrare la fede comune. È indubbiamente per questo che sono detti “i Padri”, come se la Chiesa andasse debitrice, più che al loro genio individuale, al loro insieme in quanto tale» [1]. Da essi la fede apprende l’amore alla Scrittura, l’orizzonte unitario in cui la vita deve essere vissuta nella luce della Parola di Dio e nell’esercizio della carità, il gusto del simbolo, che rispetta il Mistero nell’atto stesso di avvertirne la prossimità: in questa rete di legami unificanti - cari all’universo dei Padri - non è difficile cogliere il richiamo alla santità, frutto dello Spirito, principio e fondamento dell’unità della Chiesa nel tempo e nello spazio, come tale riconosciuto e confessato dalla grande tradizione patristica d’Oriente e d’Occidente. [2]
    Con i Padri anche altri testimoni dell’incontro con Dio nel tempo possono offrirsi come luoghi nutrienti della memoria dell’Avvento sotto l’azione dello Spirito Santo: così, teologi e spirituali di luoghi e tempi diversi, in particolare quelli che la Chiesa ha riconosciuto come santi, sono una significativa espressione della Tradizione vivente. Il contatto vivo e stimolante con i maestri del passato può aprire il pensiero della fede a nuovi sentieri di profezia, come il messaggio dei grandi spirituali può nutrire l’esperienza riflessa del Mistero, rendendola più attenta e disponibile alle sorprese dell’avvento. Un’esistenza credente, che vivesse la rottura col passato, non solo si impoverirebbe sul piano della memoria, ma rischierebbe di separarsi anche dal grande principio di unità, che è lo Spirito operante nella storia e specialmente riconoscibile nella continuità della tradizione vivente della fede pensata e vissuta. È quindi all’intera storia e vita della Chiesa nel tempo, e in particolare nella vita dei Santi, che lo sguardo della fede ricorrerà come a luogo possibile di risonanza e di presenza dell’avvento divino e dei suoi frutti sotto l’azione dello Spirito: la globale, ininterrotta trasmissione ecclesiale del messaggio di testimone in testimone, garantita e promossa dal magistero dei Pastori, è il grande canale attraverso cui ci giunge fresca e vivificante la voce dell’evangelo. Non è solo la fede registrata nei testi e negli enunciati ad alimentare la fedele memoria dell’Eterno, ma anche la fede vivente, l’atto di credere ed abbandonarsi in Dio che una innumerevole schiera di testimoni ha vissuto e vive per attrazione e dono del Consolatore. Alla scuola di questa fede, anche semplice e inespressa, si potrà far memoria delle meraviglie del Signore per aprire le menti e i cuori all’azione di grazie e al nuovo delle promesse di Dio. Anche così si fa riconoscere la memoria efficace di Dio nei frutti del Suo Spirito...

    c) La “comunione dei santi”. Si comprende così come il luogo dell’azione dello Spirito, che comprende tutti gli altri e li illumina, il sacramento nel tempo dell’unico e definitivo Sacramento di Dio, che è il Verbo incarnato, sia la Chiesa: «Come potranno credere, senza averne sentito parlare? e come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi? e come lo annunzieranno, senza essere prima inviati?» (Rm 10,17). Di testimone in testimone, di fede in fede, la Parola risuonata nella pienezza del tempo raggiunge, per la forza dello Spirito, gli umili “oggi” della storia: la Chiesa è la visibilità sacramentale dell’azione dello Spirito nella storia, carica di tutta la luce che Egli le dona, come delle oscurità e pesantezze che caratterizzano la vita dei suoi figli. In questo senso la Chiesa è luogo dello Spirito in quanto è inseparabilmente “kènosi” e splendore della Trinità. Dalla comunione ogni singolo credente riceve la vita della fede: alla comunione ciascuno dona sotto l’azione dello Spirito il suo contributo di pensiero e di vita. Se è ai piccoli che è dato conoscere i misteri del Regno (cf. Mt 11,25), da essi, dal popolo umile e povero dei credenti, è possibile imparare le cose di Dio: «Dobbiamo credere che un popolo ignorante ci può insegnare le cose di Dio» (Carlos Mesters). L’esistenza credente si nutre, cioè, del “senso della fede”, che lo Spirito Santo effonde nel cuore di tutti i battezzati, e dal loro linguaggio, dal loro dirsi le meraviglie del Signore, essa apprende a sua volta a parlare di Dio: prima di essere parola, la fede è ascolto e silenzio davanti alla vita dei santi, dove meno infedelmente l’amore, narrato nell’evento pasquale, si rende presente nel tempo degli uomini grazie all’azione del Consolatore. Alla scuola della carità vissuta, di quella povertà che è “cattedra ineccepibile” (don Lorenzo Milani), la fede conosce il suo oggetto e se ne lascia contagiare e pervadere. La “communio sanctorum” nutre il pensiero e la vita come luogo dove lo Spirito fa presente la memoria di Dio...

    2. Lo Spirito e l’“oggi” di Dio: “in unitate sanctitas”

    Alla memoria di Dio, viva e potente nello Spirito, la fede del discepolo non può non coniugare la consapevole assunzione del presente. Nello Spirito l’“oggi” degli uomini è visitato e trasformato per divenire l’“oggi” di Dio, l’ora della sua grazia: perciò, «è dovere di tutto il popolo di Dio, soprattutto dei pastori e dei teologi, con l’aiuto dello Spirito Santo, di ascoltare attentamente, discernere e interpretare i vari modi di parlare del nostro tempo, e di saperli giudicare alla luce della Parola di Dio, perché la verità rivelata sia capita sempre più a fondo, sia meglio compresa e possa venire presentata in forma più adatta» (Gaudium et spes, 44). Gli eventi della storia, in quanto abitati dallo Spirito che parla al Suo popolo, si offrono come “segni del tempo”, cui deve corrispondere l’impegno della fede, che interpreta e agisce per realizzare la chiamata di ciascuno alla santità: «È dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in un modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sul loro reciproco rapporto. Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, nonché le sue attese, le sue aspirazioni e la sua indole spesso drammatica» (ib., 4; cf. Mt 16,2s; Lc 12,54 56).

    a) Il discernimento e l’assunzione della complessità. Il riconoscimento dei segni dello Spirito nel presente e la conseguente corrispondenza ad essi sulla via della santità richiedono un’attenta opera di discernimento, che abbraccia inseparabilmente tre momenti: l’assunzione della complessità; il confronto con la Parola; l’indicazione di piste provvisorie e credibili. Assumere la complessità significa riconoscere la mondanità del mondo in tutto il gioco dei rapporti storici che la caratterizzano. Assume la complessità chi non legge la storia a partire da uno schema ideologico precostituito, chi si sforza di lasciarsi inquietare e provocare nei suoi pregiudizi, chi accetta di sopportare il peso di non avere diagnosi già fatte e terapie predeterminate. La fede deve educarsi ad assumere la complessità, a rispettarla nella sua irriducibilità, a stare in essa con umiltà e condivisione, a sopportarla nella carità. Solo a questo prezzo essa non diventa ideologia, lettura facile e prefabbricata del mondo, conciliazione ideale che ignora la verità e le perenni incompiutezze del reale. Lungi dal chiudersi in un tranquillo castello di facili certezze, la Chiesa in ascolto dello Spirito - impegnata a discernere i segni dei tempi - dovrà vivere sulla breccia della storia, nel dialogo e nella compagnia esigente e feconda con gli uomini, che fanno la reale vicenda in cui è posta: proprio così, essa si aprirà a riconoscere e accogliere docilmente l’azione dello Spirito che nell’“oggi” degli uomini rende presente l’“oggi” di Dio e schiude a chi lo voglia con fede la via della santità.

    b) Il confronto con la rivelazione. L’assunzione della complessità porta con sé l’inevitabile rischio di aver a che fare con l’ambiguità della storia: le luci si mescolano alle ombre, le generosità agli egoismi, la sofferenza innocente alle cause individuali e strutturali della passione del mondo, le speranze agli inganni e alle disillusioni. La possibilità di lasciarsi confondere è sempre incombente: quante volte la teologia ha ceduto alle seduzioni dello spirito del tempo e delle mode del momento! È per questo che la fede ha bisogno di un criterio di orientamento: e questo non può trovarsi che nella stessa Parola dell’avvento, lì dove il Dio vivo si è offerto alla storia nel Suo Spirito per giudicarla e salvarla e per parlare al Suo popolo. Il confronto con la Parola è indispensabile momento del discernimento: occorre «tenere su una mano la Bibbia e sull’altra il giornale» (Karl Barth). Esperto della complessità, il credente non cercherà nella Parola soluzioni già pronte o facili risposte: egli accetterà di ascoltarla fedelmente e di obbedire ad essa nella pazienza di itinerari di comprensione non sempre brevi e luminosi. Alla Parola porterà la storia reale, le domande aperte, le luci intraviste, i sentieri interrotti: ad essa chiederà la luce che basta per orientare il cammino e sostenere la lotta, per prendere posizione e giudicare lì dove è necessario e possibile, per attendere e pazientare lì dove non c’è ancora chiarezza. È così che l’avvento cammina con l’esodo nel miracolo sempre nuovo dell’azione del Consolatore: è così che si ascolta ciò che lo Spirito “oggi” dice alle Chiese e si può rispondere alla vocazione alla santità, che il disegno di Dio propone a ciascuno...

    c) Per vie provvisorie e credibili. Nell’incontro fra la storia e la Parola di Dio il discernimento della fede si schiude a proposte provvisorie e credibili: esso non conduce a soluzioni totali e definitive, perché tutto quanto consente di proporre è segnato dalla infinita contingenza della complessità della vita; e tuttavia, tende a dare indicazioni credibili, sulle quali si possa fare affidamento, proprio perché radicate nella fedeltà all’uomo e nell’esigente e normativa fedeltà alla Parola di Dio. Leggendo la storia nel Vangelo, il discernimento legge analogamente il Vangelo nella storia: esso osa proporre il punto di vista dell’Avvento, nella fiducia della fedeltà divina, che nello Spirito parla anche alla storia presente. È in tal modo che è possibile riconoscere i “segni dei tempi”, dove è all’opera lo Spirito di verità, che attua la fedeltà di Dio a ogni ora, a ogni luogo.
    Esempi concreti e generali di tali segni sono l’aspirazione alla giustizia, alla libertà e alla pace, la presenza universale di testimoni fedeli del Vangelo e della radicalità dell’amore, spinta fino al dono della vita nella solidarietà con i più deboli e al servizio della giustizia per tutti. È allora soprattutto nell’esercizio della carità che la comunità cristiana raccoglie la sfida dei segni del tempo, si fa solidale con l’uomo concreto e lo serve nella causa della sua promozione più piena e perciò della liberazione da tutto quanto offende la sua dignità di figlio di Dio.
    Su questa via si schiude agli occhi della fede la misteriosa presenza del Signore nella più grande varietà delle situazioni umane: Cristo si nasconde nei poveri, negli affamati, negli assetati, negli emarginati e sofferenti, nei bambini sfruttati, nelle donne calpestate, negli ultimi (cf. Mt 25, 31ss). Chi alla fame e sete di tutti costoro risponde con amore libero e liberante, diviene Vangelo vivente, Parola scritta dallo Spirito non più su tavole di pietra, ma nella carne degli uomini (cf. 2 Cor 3,3): «Cristo non ha mani, ha soltanto le nostre mani per fare il suo lavoro oggi; Cristo non ha piedi, ha soltanto i nostri piedi per andare agli uomini oggi; Cristo non ha labbra, ha soltanto le nostre labbra per annunciare il suo vangelo oggi. Noi siamo l’unica Bibbia, che tutti gli uomini leggano ancora. Noi siamo l’ultimo appello di Dio, scritto in parole e in opere» (da una preghiera 5 del XIV secolo). La presenza di Cristo all’oggi di dolore e di lacrime si fa riconoscibile dove c’è chi ama in suo nome: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35). Nell’amore del prossimo si rivela l’amore di Dio (cf. Mc 12,28 31 e par.): «Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1 Gv 4,20). In questo amore concreto Cristo si fa presente nel Suo Spirito e dice le Sue parole di vita eterna, suscitando cammini di santità in chi creda e credendo si affidi a Lui.

    3. Lo Spirito e l’avvenire di Dio: “salvati nella speranza” (Rm 8,24)

    L’azione dello Spirito nella storia non solo rende presente il mistero dell’avvento compiutosi nel Signore Gesù, trasformando l’“oggi” degli uomini nell’“oggi” della salvezza, ma “tira” anche nel presente del mondo l’avvenire della promessa di Dio, di cui è pegno e caparra: «Provvisoriamente, il mondo nuovo si inserisce nell’antico. L’ottavo giorno non esiste che negli altri sette. D’ora in poi, perciò, l’uomo farà parte quaggiù di due città, ricettacoli di due mondi. Egli non cessa di appartenere ad una città terrestre perché non cessa di essere uomo, e uomo della terra; ma non è più legato ad essa con gli stessi vincoli esclusivi, perché egli è introdotto in una città nuova in cui si svolge la sua esistenza. Questa città nuova, custode e matrice del nuovo universo, è la Chiesa». [3] Il popolo di Dio vive così della tensione fra il primo e 3 il secondo avvento del Signore, ricco del dono già ricevuto e proteso al compimento di quanto della nuova creazione non ancora è stato realizzato. Salvati nella speranza, “spe salvi” (cf. Rm 8,24), i credenti pregustano la bellezza del tempo in cui Dio sarà tutto in tutti specialmente grazie all’economia sacramentale e al vissuto della carità, che da essa nasce: attraverso i sacramenti, soprattutto attraverso l’eucaristia, vertice e fonte dell’intera esistenza redenta, il memoriale della Pasqua fa crescere l’intera comunità verso il compimento delle promesse del Signore. Negli eventi sacramentali il non ancora promesso diventa sempre più esperienza presente: l’avvenire di Dio si affaccia nell’oggi e l’attesa delle cose ultime, pregustata nella fede e nella speranza, ravviva e nutre nel popolo santo di Dio il cammino della santità verso la Patria promessa.

    a) La Chiesa santa e “semper reformanda”. Da questo essere orientata verso la Patria ultima e definitiva grazie all’incessante azione dello Spirito deriva alla Chiesa anzitutto la consapevolezza della propria relatività: essa riconosce di non essere un assoluto, ma uno strumento, non un fine, ma un mezzo, non “domina”, ma povera e serva nel suo essere pellegrina. In questa condizione esodale, nessun successo deve temperare l’ardore dell’attesa: ogni presunzione di essere arrivati, ogni “estasi dell’adempimento” è tentazione e freno. La Chiesa dello Spirito non è già il Regno nella gloria, ma solo il Regno iniziato, «praesens in mysterio» (Lumen Gentium, 3): essa porta in sé la figura fugace di questo mondo e vive il gemito e il travaglio del nascere dei cieli nuovi e della terra nuova. Ogni identificazione terrena del Regno va rifiutata: la Chiesa - docile al soffio dello Spirito - è «in via et non in patria», e perciò «semper reformanda», chiamata a incessante rinnovamento e continua purificazione, non appagata e non appagabile da qualsiasi conquista umana. Nello stupore della lode, nella fatica del servizio, nell’annuncio della Parola, nella celebrazione dei sacramenti, nella contemplazione della fede, nell’esercizio della carità, la Chiesa sa di doversi lasciare sempre più possedere dal suo Sposo, per «tendere incessantemente verso la pienezza della verità divina, finché in essa giungano a compimento le parole di Dio» (Dei Verbum, 8). Nulla è più lontano dallo stile di una Chiesa docile allo Spirito operante nella storia che un atteggiamento di trionfalismo, di cedimento di fronte alla seduzione del potere e del possesso in questo mondo. Il popolo di Dio, nato ai piedi della Croce e pellegrino nel lungo Venerdì Santo, che è la storia dell’uomo sulla terra, non dovrà mai scambiare le pallide luci di qualche gloria mondana con la luce della Gloria promessa nella vittoria di Pasqua. Finalità ultima della Chiesa non è affermarsi secondo le misure della grandezza di questo mondo, ma cantare il suo “Nunc dimittis”, come il vecchio Simeone, quando si leverà per tutti, senza più veli, la luce delle genti, e il fine della santità, frutto dello Spirito, sarà il più vicino possibile.

    b) Mantenendo viva la “riserva escatologica”. L’indole escatologica porta la Chiesa a relativizzare le grandezze di questo mondo: tutto è sottoposto al giudizio della promessa del Signore, sempre viva e attuale nella forza dello Spirito. La presenza dei cristiani nella storia è nel segno dell’esilio e della lotta: «“Finché abitiamo in questo corpo siamo esuli lontani dal Signore” (2 Cor 5,6) e avendo le primizie dello Spirito, gemiamo dentro di noi (cf. Rm 8,23) e bramiamo di essere con Cristo (cf. Fil 1,23). Dalla stessa carità siamo spronati a vivere più intensamente per Lui, che per noi è morto e risuscitato (cf. 2 Cor 5,15). E per questo ci sforziamo di essere in tutto graditi al Signore (cf. 2 Cor 5,9) e indossiamo l’armatura di Dio per potere star saldi contro gli agguati del diavolo e resistere nel giorno cattivo (cf. Ef 6,11-13)» (Lumen Gentium, 48). In nome dello Spirito, che la anima, la Chiesa sarà allora sovversiva e critica verso tutte le miopi realizzazioni delle speranze di questo mondo: presente a ogni situazione umana, solidale col povero e con l’oppresso, non le sarà lecito identificare la sua speranza con alcuna delle speranze immanenti della storia.
    Questa vigilanza critica non significa, però, disimpegno: essa è, al contrario, costosa ed esigente. Si tratta di assumere le speranze umane e di verificarle al vaglio della risurrezione del Signore, che da una parte sostiene ogni impegno autentico di liberazione e promozione umana, dall’altra contesta ogni assolutizzazione di mete terrene. In questo duplice senso, la speranza ecclesiale, speranza della risurrezione, è risurrezione della speranza: essa dà vita a quanto è prigioniero della morte e giudica inesorabilmente quanto presuma di farsi idolo dei cuori e della vita. In nome della sua “riserva escatologica” la Chiesa non può identificarsi con alcuna ideologia, forza partitica o sistema, ma di tutti deve essere coscienza critica, richiamo dell’origine prima e della destinazione ultima, stimolo affinché si promuova tutto l’uomo in ogni uomo. Il popolo di Dio, memore della patria, è scomodo e inquietante, libero per la fede e servo per amore, tutt’altro che strumento del sistema o protagonista del compromesso o fermo nel disimpegno spiritualista. La meta, che fa i cristiani stranieri e pellegrini in questo mondo, non è sogno che alieni dal reale, ma forza stimolante dell’impegno per la giustizia, la pace e la salvaguardia del creato nell’oggi del mondo: perciò a volte i santi, vivificati dall’azione dello Spirito, appaiono scomodi e inquietanti agli occhi del mondo.

    c) Nella gioiosa speranza del Signore che viene. Infine, il richiamo della patria, già pregustata nella promessa, riempie la Chiesa di speranza e di gioia: la sua indole escatologica è anticipazione militante nella forza dello Spirito della vittoria sul dolore, sul male e sulla morte.
    Nonostante le prove e le contraddizioni del presente, il popolo di Dio esulta già nella speranza, che la promessa divina ha acceso nella sua fede: sostenuta da questa speranza, garanzia certa che l’ultima parola della storia non saranno il dolore, il peccato e la morte, ma la gioia, la grazia e la vita, la Chiesa è pellegrina verso la meta, già ora esultante per essa specialmente nel vissuto dei suoi santi. In lei si realizza la parola del Salmo: «Quale gioia quando mi dissero: Andremo alla casa del Signore!» (Sal 122,1). La gioia non nasce dalla presunzione di edificare una scala verso il cielo, una sorta di nuova torre di Babele del mondo prigioniero di sé: la pace e la forza della Chiesa sono radicate nella sua vocazione escatologica, nella certezza che lo Spirito del Signore è già all’opera in lei per edificare nel tempo degli uomini l’avvenire promesso da Dio. Dio “ha tempo” per l’uomo e costruisce con lui la sua casa: la Gerusalemme, sospirata ed attesa, scende già dal cielo (cf. Ap 21,2). Ai credenti resta il compito di vivere il mistero dell’Avvento nel cuore della vicenda umana: «Lo Spirito e la Sposa dicono: Vieni!» - ad essi il Vivente risponde: «Sì, vengo presto!» (Ap 22,17.20).

    Conclusione: lo Spirito e il canto del testimone

    «Intoniamo il canto di lode per la morte della Chiesa, morte che ci riconduce alla sorgente della vita santa in Cristo»[4]. Un innamorato cantore della Chiesa intona il canto in morte della Chiesa: non lo fa per debolezza di convinzioni o per paura di pericoli, ma per quella più alta intelligenza d’amore, cui solo aprono gli occhi della fede protesa verso la sorgente della vita santa.
    Egli ha compreso che la Madre non ha altra ambizione al di fuori di quella di generare figli per Dio.
    Morire per dare ad essi la vita è il supremo destino dell’Amata. Egli sa che la Chiesa, sacramento dell’eternità nel tempo, cederà il posto alla piena luce della gloria, quando Cristo finalmente verrà nel suo ultimo avvento, e la Trinità, di cui la Chiesa è “icona”, rifulgerà nell’universo intero e in ogni cuore. Come l’amata di Giacobbe nel partorire il «figlio del dolore», divenuto il prediletto d’Israele, così la Chiesa morirà nel generare l’umanità allo splendore del giorno eterno: «Una morte che ci introduce in un’altra vita, dalla debolezza ci conduce alla forza, dal disprezzo all’onore, dalla corruzione all’immortalità, dalla finitezza del tempo all’eternità della vita divina»[5]...
    Fino a quando giungerà quel tempo, la Chiesa resta il luogo privilegiato dell’azione dello Spirito nella storia, e perciò la Madre di cui i figli di Dio hanno bisogno per vivere, l’eletta che non invecchia mai, perché ringiovanisce con l’amore di coloro, a cui sempre di nuovo dà la vita: «Non separarti dalla Chiesa! Nessuna potenza ha la sua forza. La tua speranza, è la Chiesa. La tua salvezza, è la Chiesa. Il tuo rifugio, è la Chiesa. Essa è più alta del cielo e più grande della terra.
    Essa non invecchia mai: la sua giovinezza è eterna» [6]. Amandola, si possiede lo Spirito, si incontra Cristo e si vive di lui: «Tanto si ha lo Spirito Santo, quanto si ama la Chiesa di Cristo» [7]. Perché la Chiesa è Maria che continua ad annunciare al mondo che Cristo è risorto e il grande duello è stato vinto dalla vita, che non avrà fine. E anche se ha da mostrare soltanto un sepolcro vuoto e delle vesti abbandonate, in questa sua povertà è la sua ricchezza, in questo sua debolezza è la sua forza.
    Lei ha visto la Gloria nascondersi e rivelarsi sotto i fragili segni della storia: in lei questo mistero di rivelazione e di nascondimento continua a farsi presente.
    Di questo mistero, accolto dalla fede nel Risorto nella consolazione dello Spirito, parla il canto del testimone, la proclamazione gioiosa di chi ha conosciuto la vittoria, che ha vinto e vincerà la morte, frutto dell’azione del Consolatore: «Alla vittima pasquale offrono lodi i cristiani.
    L’Agnello ha redento il suo gregge: Cristo innocente ha riconciliato i peccatori col Padre. La morte e la vita si fronteggiarono in un tremendo duello: il re della vita morto, regna ora vivo. Dì a noi, Maria, chi hai visto sulla via? Il sepolcro del Cristo vivente, la gloria di lui nel risorgere: gli angeli testimoni, il sudario e le vesti. Cristo mia speranza è risorto: precede i suoi in Galilea. Sì, lo sappiamo che Cristo è veramente risorto dai morti: tu, re vincitore, abbi pietà di noi» [8]. Quando questo canto sarà compiuto, lo Spirito Santo avrà realizzato nella pienezza dei suoi frutti la Sua missione nel tempo. Il più alto dei suoi frutti sarà la santità e la sua celebrazione il coro dei santi in cielo. La gloria sarà cominciata. Dio sarà tutto in tutti e il mondo intero sarà la Sua patria, dimora eterna di Lui, tre volte Santo nell’unità dell’infinito Amore...

    NOTE

    1 Y. Congar, La Tradizione e la vita della Chiesa, Edizioni Paoline, Roma 19832, 143.
    2 Cf. B. Forte, Bellezza splendore del vero: la rivelazione della bellezza che salva, in Cristianesimo e bellezza. Tra Oriente e Occidente, a cura di N. Valentini, Edizioni Paoline, Milano 2002, 53-71.
    3 H. de Lubac, Meditazione sulla Chiesa, Edizioni Paoline, Milano 1965, 206.
    4 Cirillo d’Alessandria, Glaphyrorum in Genesim 6: PG 69,329.
    5 Ib., 4: PG 69,224s. Cf. H. Rahner, L’ecclesiologia dei Padri. Simboli della Chiesa, Edizioni Paoline, Roma 1971, 195ss.
    6 San Giovanni Crisostomo, Homilia De capto Eutripio, c. 6: PG 52,402.
    7 «Quantum quisque amat ecclesiam Christi, tantum habet Spiritum Sanctum»: S. Agostino, In Iohan. Evang. Tract., 32,8: CChr 36,304.
    8 Sequenza pasquale: Vipo di Borgogna, secolo XI.

     

    (FONTE: (Prolusione al Convegno di Studio organizzato dal Dicastero delle Cause dei Santi Roma, 3 ottobre 2022)

     


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