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    La saggezza, questa sconosciuta


    La saggezza,

    questa sconosciuta

    Eugenio Borgna


    Le parole sono creature viventi, sono prigioni sigillate dal mistero e siamo (tutti) chiamati a toglierne i sigilli se vogliamo intenderne i significati radicali e profondi, e questo è necessario in particolare quando si abbia a che fare con parole dimenticate, o ignorate, che ci aprano orizzonti tematici che aiutano a vivere. Fra queste parole, quelle di tenerezza e di gentilezza, di accoglienza e di solidarietà, di saggezza e di mitezza, di generosità e di prudenza, di interiorità e di contemplazione, che sono divorate nella vita di oggi dalla fretta e dalla esteriorità, dalla tecnica e dal linguaggio telematico, dall’homo faber e dall’homo robot che sono in noi, e dalla tendenza a mettere fra parentesi modelli di vita che si nutrano delle parole dimenticate, o ignorate, alle quali mi sono richiamato, e fra le quali vorrei svolgere qualche riflessione sulla saggezza che ne è una delle più fragili, e delle più ignorate, delle più cancellate in vita. È possibile vivere senza preoccuparsi della saggezza delle nostre azioni, senza un modo saggio di vivere, senza una continua riflessione sulle risonanze emozionali e relazionali delle nostre azioni? Sì è possibile, ma è così ingiusto e così pericoloso; e ne vorrei allora parlare.

    Come definire la saggezza?

    La saggezza è considerata abitualmente come la capacità di giungere non alla conoscenza di cose alte e sublimi, remote dalla comune umanità, come avviene nella sapienza, ma alla conoscenza di quelle che sono le nostre concrete attività umane e del modo migliore di realizzarle. Non c’è, nondimeno, saggezza se non ci conosciamo nella nostra vita razionale ed emozionale e se non ci mettiamo in una relazione senza fine con quella degli altri, ma conoscersi è faticoso, ha bisogno di tempo, ci impaurisce, ci confronta con pensieri e sentimenti, con inclinazioni e immagini, che rinascano dagli abissi della nostra interiorità.
    Non potrei continuare il mio cammino di riflessione sulla saggezza senza richiamarmi a quella che ne è la definizione nella Enciclopedia Treccani: «L’essere saggio; capacità di seguire la ragione nel comportamento e nei giudizi, moderazione nei desideri, equilibrio e prudenza nel distinguere il bene e il male, nel valutare le situazioni e nel decidere, nel parlare e nell’agire, come dote che deriva dall’esperienza, dalla meditazione sulle cose e che riguarda soprattutto il comportamento morale e in genere l’attività pratica». Una bella e chiara definizione della complessità e della significazione umana della saggezza.

    Michel de Montaigne

    Non mi sarebbe stato facile avviarmi lungo il cammino di conoscenza della saggezza se non avessi letto gli splendidi saggi di Michel de Montaigne, e di essi vorrei citare un brano che ne dimostra l’attualità e le doti di intuizione e di percezione interiore di quelle che sono le vaste regioni dell’anima.
    «O presunzione! Quando Socrate seppe che il dio della sapienza gli aveva attribuito il soprannome di saggio, ne fu stupito ed esaminandosi dappertutto, non trovava alcun fondamento a questa sentenza divina. Ne conosceva altri giusti, temperanti, valenti, dotti come lui, e più eloquenti e più belli e più utili al paese. Infine concluse che era diverso dagli altri ed era saggio solo perché non si riteneva tale, e che il suo dio reputava singolare stoltezza nell’uomo il credersi sapiente e saggio, e che la sua migliore dottrina era la dottrina dell’ignoranza, e la sua migliore saggezza, la semplicità».
    Non c’è premessa alla ricerca della saggezza, nella scelta delle azioni che ogni giorno siamo chiamati a fare, che possa fare a meno di questa considerazione: essere consapevoli dei nostri limiti.

    La saggezza delle parole

    Saggezza è una parola (quasi) sconosciuta e nondimeno grande è la sua importanza nella scelta delle parole.
    Le parole ci sommergono, le pronunciamo e le ascoltiamo ogni ora, ogni istante, e solo il silenzio ci consente di allontanarle un attimo, ma anche nel silenzio risuona la loro eco. Non sempre siamo consapevoli delle risonanze che esse hanno sulla nostra vita, sulle nostre emozioni, sui nostri pensieri, che sbocciano nella gioia, o si spengono nel dolore e nell’angoscia.
    Le parole non sono di questo mondo, sono un mondo a sé stante; e non sempre siamo consapevoli delle luci e delle ombre delle nostre giornate che sono divorate dalla distrazione e dalla noncuranza, dalla indifferenza e dal disinteresse.
    Le parole, in psichiatria in particolare, possono salvare, o perdere, una persona; e a definirne la loro dimensione terapeutica, o antiterapeutica, hanno importanza anche i silenzi e gli sguardi, i volti e le lacrime che le accompagnano.
    Le parole vivono, si modulano, sfuggono, si modificano nelle diverse situazioni in cui ci veniamo a trovare, e non sono mai inerti e mute, ma dicono sempre qualcosa, sono impegnative per chi le dice e per chi le ascolta, cambiano di significato nella misura in cui cambiano i nostri stati d’animo e le nostre emozioni, le nostre attese e le nostre speranze.
    Le parole non ci fanno pensare solo a questo: nella loro fragilità e nel loro destino, possono essere mediatrici di speranza, o di disperazione, e quelle infelici, talora involontariamente infelici, possono causare ferite che sanguinano e che non si cicatrizzano mai più. Sì, il cammino delle parole è nondimeno misterioso: le parole, che sono belle e creatrici in un determinato contesto, possono non esserlo in un altro, ma le parole cambiano nel loro significato nella misura in cui siano, o non siano, in consonanza con il linguaggio del corpo vivente. Ma non dovremmo nemmeno mai dimenticare le parole bellissime e insondabili che André Gide, il grande scrittore francese, in un suo testo teatrale, La sinfonia pastorale, fa dire ad Antigone, il nome della protagonista: «Nessuna parola mi arriva sulle labbra prima che non sia stata nel cuore».
    Come non sentirci chiamati, come non essere responsabili nello scegliere con saggezza le parole che salvano, e quelle che curano? Il tema della saggezza delle parole, come dovere al quale non si possa mai venire meno, mi fa pensare ad altre cose. Sarà possibile avviarsi alla riscoperta di parole sagge se non ci stanchiamo di scrutare la nostra interiorità, di conoscere le nostre emozioni, di ascoltare i battiti del nostro cuore, di immedesimarci negli stati d’animo delle persone che il destino ci fa incontrare in vita. Ma questo non sempre basta, e allora cosa è possibile fare? Non lo so e vorrei solo dire che la saggezza, questa fragile e non facile somma di ragione e di intuizione, ci soccorre nella ricerca e nella conoscenza delle parole gentili che infrangano le barriere della solitudine. Certo, nella nascita e nella crescita di un dialogo, e non solo di quello che cura, contano le parole sagge, ma anche il modo con cui si dicono e si ascoltano. Ma conta anche la voce con cui parliamo: come non dire che ci sono voci nutrite di gentilezza e di fragilità, di sospensione e di leggerezza, di delicatezza e di tenerezza, che ci sono, o non ci sono. Ma la grande differenza mi sembra essere quella fra le voci che vengono dal cuore, e che ne sanno testimoniare la passione, e le voci che dal cuore non nascono; e allora dovremmo se non altro esserne consapevoli e scegliere di tacere: così non si fa del male.

    La saggezza è gentilezza

    La gentilezza, lo diceva Arthur Schopenhauer, è saggezza. E allora vorrei dire qualcosa di questa possibile equivalenza tematica.
    L’epoca in cui viviamo è in fondo estranea ai valori della gentilezza e della saggezza, che sono considerate arcaiche e inadeguate alle finalità e ai ritmi febbrili della vita moderna che richiede decisioni immediate e rapide, fredde e indifferenti alle emozioni; allora perché perdere tempo nella ricerca e nel rispetto della saggezza e della gentilezza? Non solo nel campo della psichiatria, e delle scienze umane, ma anche nella vita di ogni giorno, in famiglia, nella scuola, nelle relazioni sociali, l’oblio, o il rifiuto, della saggezza e della gentilezza è fonte di sofferenza e di ferite dell’anima che fanno molto male a ogni età della vita, in particolare a quella adolescenziale, così fragile e così schiva, così sensibile e così creatrice. La saggezza e la gentilezza sconfinano continuamente l’una nell’altra e, sia pure con risonanze emozionali diverse, tracciano un cammino di vita luminoso e arcano che dovremmo sempre seguire; e allora vorrei dire che la gentilezza è una scheggia luminosa della saggezza e che l’una non può realizzarsi fino in fondo senza l’altra. Non dovremmo mai dimenticarlo.

    La saggezza è coscienza del limite

    Non è possibile riflettere sulla saggezza se non si pensa all’importanza che ha il tema del limite, del confine, nella nostra vita. Ogni limite designa una frontiera che separa quello che è consentito da quello che non lo è, quello che desideriamo da quello che non è possibile desiderare, quello che la nostra coscienza accoglie da quello che non può accogliere. Il rispetto del limite, dei confini, delle frontiere, costa fatica, costa sacrifici, genrichiede pazienza e comprensione.
    La saggezza è allora percezione dei limiti che fanno parte della vita e che non sempre sappiamo individuare. Non è facile riconoscere i confini della vita e accoglierli nelle loro diverse immagini se non abbiamo occhi che ci consentano di cogliere la loro presenza talora nascosta. Siamo ogni volta tentati di negare l’esistenza del confine, del limite, e questo perché conoscere i limiti, che sono in noi, significa mettersi in contatto con le nostre fragilità e le nostre insicurezze. Non si può agire con saggezza se non si è consapevoli di questa talora dolorosa dimensione della vita, senza nondimeno dimenticare che ci sono (anche) confini liquidi che ci separano dagli altri solo temporaneamente, e che dovremmo riconoscere e accogliere.

    Etica della saggezza

    Cose bellissime sulle fondazioni etiche della saggezza sono state scritte da Romano Guardini in un suo libro di etica. Ne vorrei citare qualche frammento. «Non basta fare il bene, ma occorre anche farlo nel modo giusto; qui l’ordinamento etico si prolunga nella saggezza, che ammonisce in questi termini: guardati dal compiacerti coscientemente del bene che hai fatto e che ti rallegra, non soffermarti su di esso col tuo pensiero, non ripercorrere mentalmente la situazione per sentire te stesso entro di essa, perché se fai queste cose il bene si corrompe».
    La saggezza ci induce non solo ad avere coscienza dei nostri limiti, ma anche a rinunciare a cose che vorremmo avere e, come dice ancora Romano Guardini, questa è saggezza. «Un fenomeno che la saggezza di tutti i tempi ha conosciuto: non si può avere tutto, ma si deve scegliere; si può ottenere qualcosa di più alto solo se si rinuncia, nella misura suggerita dall’esperienza e dalla prudenza, a ciò che è più basso». Sì, la rinuncia a cose, che riterremmo giusto avere, costa fatica e costa sacrificio, e nondimeno la saggezza ci consiglia di accettarla al fine di evitare inutili dolorosi conflitti.

    Antigone

    La saggezza femminile è forse più orientata alla comprensione intuitiva della vita che non a quella razionale, tipicamente maschile? Antigone è testimone di un vivere e di un morire che germogliano da una saggezza troppo umana e troppo femminile? È saggezza, o follia, quella di Antigone, la protagonista della celebre tragedia di Sofocle nella quale una giovane donna si ribellava, e ne era condannata a morte, alle leggi della sua città, Tebe, che vietavano di dare sepoltura a Polinice, uno dei suoi due fratelli, che moriva combattendo contro la città? Nell’arida fedeltà alla lettera della legge, certo, nel gesto disperato di Antigone non ci sarebbe stata alcuna saggezza, e nondimeno dinanzi a leggi disumane come non riconoscersi nella scelta etica di Antigone che sgorgava dalla sua coscienza, dalla sua formazione morale e spirituale, dalla sua disponibilità al sacrificio estremo della morte sulla scia di ideali ai quali non poteva non obbedire? La disobbedienza alle leggi disumane del nazionalsocialismo tedesco è stata bruciante dovere morale degli studenti che facevano parte dell’associazione cristiana della Rosa Bianca e che per questo, a vent’anni, sono stati condannati a morte. Ne avremmo seguite le tracce scintillanti di mistero?

    Le ultime parole

    Il cammino verso la saggezza è un cammino frastagliato e faticoso che ha come premesse tante cose: conoscersi, conoscere le emozioni che sono in noi, essere inclini ad ascoltare le persone che il destino ci fa incontrare, essere fedeli agli ideali di giustizia e di solidarietà. Cose che talora non bastano a farci agire saggiamente e questo perché la saggezza è conoscenza razionale delle cose, ma nelle sue scelte ultime è intuizione e immaginazione, amore del prossimo e contemplazione. Il dicibile e l’ineffabile, il visibile e l’invisibile si intrecciano in vita ed è importante andarne alla ricerca, seguendo le fragili tracce delle ragioni del cuore, senza lasciarsi imprigionare dalle conoscenze razionali che, come diceva Giacomo Leopardi, non bastano ad avvinarci alle fonti originarie della saggezza.
    Nelle bellissime parole di Marcel Proust, che si leggono nel suo straordinario romanzo Alla ricerca del tempo perduto, mi sembra di cogliere, espressa in un linguaggio umbratile e fosforescente, una immagine ideale della saggezza: «La saggezza non si riceve, bisogna riscoprirla da sé dopo un percorso che nessuno può fare per noi, né può risparmiarci, perché è un modo di vedere le cose».
    La saggezza come ricerca del senso della misura, come mediatrice di attenzione alle persone, come disposizione a scegliere il bene e a evitare il male, come stella del mattino, che illumina le sconfinate regioni della nostra interiorità, e in fondo come destino e come mistero.
    Come conclusione di questa mia sintesi, autonoma nelle sue articolazioni tematiche, di un discorso svolto nelle pagine di un mio libro sulla saggezza, edito da il Mulino di Bologna, vorrei ricordare quello che Etty Hillesum ha scritto di una bambina, crudelmente torturata, che dal campo di concentramento di Westerbork stava per essere deportata ad Auschwitz: «Ha occhi da bambina, molto saggi e puri».
    La saggezza nella sua insondabile testimonianza e nella sua indicibile trascendenza. Il resto è silenzio.

    (FONTE: Notiziario della Banca popolare di Sondrio, n. 141 - dicembre 2019, pp. 102-106)


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