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    La fede in Gesù:

    tra salvezza

    e testimonianza

    Armido Rizzi


    A questo intervento era stato invitato un altro oratore: io sono un ripiego. Però il fatto di essere un ripiego è per me un motivo di vanto. Vi palerò infatti di Gesù Cristo, che non è stato altro che il grande ripiego di Dio, se volete il grande tappabuchi in quel buco enorme che è il male, quella valanga di violenza e di sofferenza che la violenza genera, quel buco enorme della creazione che invalida il primo grande canto di benedizione: "Dio fece il cielo e la terra e poi ogni specie e Dio vide che era cosa buona". (v. Gen 1,31). La violenza umana ha introdotto nell'armonia della creazione quella profonda, dilagante stonatura che da cristiani chiamiamo colpa, peccato. Gesù è il ripiego, è la seconda istanza, è colui che Dio manda per colmare questo buco enorme che ha tanti nomi (nella tradizione peccato originale; può essere chiamato il male radicale). Ma più ancora che il grande male, conta il fatto che Gesù lo ha debellato una volta per tutte. C'è un foglietto appeso alla porta della chiesa; dice: "Entra per pregare, esci per amare". In qualche modo è un po' una sintesi di quello che io voglio dire. Un titolo possibile sarebbe: "I luoghi della presenza di Gesù: la chiesa e la strada". La chiesa e la strada o i luoghi, le modalità della presenza di Gesù nella storia umana. Cercherò di sviluppare una riflessione strettamente teologica, ma sul filo di tre racconti evangelici che hanno tutti un carattere narrativo. Due sono narrazioni inventate, come fossero dei film - sono due parabole -; l'altro invece è la narrazione di un fatto vero. Tutte e tre le troviamo nel Vangelo di Luca e sono notissime. I tre episodi hanno in comune la parola Compassione, che farà da filo conduttore alla riflessione che vi propongo.

    Il senso dell'esistenza

    Primo episodio: Vangelo di Luca 10,29-37. È il testo notissimo della parabola del buon Samaritano. È dal contesto in cui essa viene collocata dall'evangelista Luca che partirò, perché questo ci dà una chiave per tutti e tre gli episodi, anche se negli altri racconti questa parola chiave non ricorre. Dice san Luca: «Un dottore della legge si alzò per mettere alla prova Gesù: "Maestro che devo fare per ereditare la vita eterna?"». Questa formula, che circolava all'epoca di Gesù, nella tradizione cristiana è stata tradotta in un altro modo: "cosa devo fare per trovare la salvezza?". Ma anche il termine salvezza presenta dei punti interrogativi. Propongo di tradurre l'espressione "ereditare la vita eterna" con un'altra, che va presa con cautela, ma che ha una sua forza evocativa: "che cosa devo fare per cercare e trovare il senso della mia esistenza?". Il senso ultimo non un senso qualunque, non un senso passeggero, ma quel senso che è IL senso.
    C'è dunque un senso che ci definisce, un senso che è il nostro nome profondo, potrei quasi dire il nostro DNA esistenziale, quello per cui nel vangelo di Giovanni Gesù dice: "Io conosco le mie pecore una per una e le chiamo per nome" (cf. Gv 10,14). Questo è il nome con cui Dio chiama ogni singola persona, nella sua irripetibilità, perché ognuna è diversa dall'altra. Anche se fossimo tutti donati nel nostro DNA biologico, noi tutti resteremmo comunque, irripetibilmente, noi stessi. Ecco: questo senso ultimo, questo nome proprio, che cosa devo fare per trovarlo? E poi per realizzarlo? E Gesù dice al dottore: "Lo sai benissimo anche tu, è scritto nella legge, ed è l'Amore di Dio al di sopra di tutto e l'amore per il prossimo".

    Chi è il nostro prossimo?

    Allora tira fuori una domanda di riserva: chi è il mio prossimo o chi mi è prossimo? Egli voleva sapere quale posizione adottava Gesù, considerato maestro in Israele, tra quelle che circolavano a quell'epoca: secondo alcuni, infatti, esistevano dei prossimi fuori discussione - i parenti, i familiari -; poi al di là di tutta la cerchia dei parenti e degli amici, erano considerati prossimi anche i connazionali e i correligionari. Ma al di fuori di questa cerchia c'era tutta un'ampia zona, un ampio popolo di persone non considerati prossimi. Nei confronti dei primi valeva il comandamento dell'Amore: "Ama il prossimo tuo", nei confronti dei secondi, no. Esisteva anche un gruppo intermedio di persone sulle quali i maestri e i rabbini discutevano se erano o no prossimi. Probabilmente anche i samaritani appartenevano a questa categoria e anche coloro che facevano parte del popolo di Dio, ma erano peccatori. Relativamente a loro ci si chiedeva: sono o non sono prossimo? Nei loro confronti vale o no il comandamento dell'amore? Bisogna amarli? La domanda rivolta a Gesù, quindi, suona così: tu con chi stai? Gesù non risponde alla domanda, ma la fa esplodere. Gesù dice che l'amore che unicamente può meritare la vita eterna, quello che unicamente può costituire la vera ricerca, il ritrovamento e la realizzazione del proprio nome profondo, e del senso della propria esistenza, questo amore non consiste nell'amare il prossimo nel senso in cui viene inteso dal dottore della legge, non è cioè amare coloro con i quali abbiamo già dei legami istituiti di sangue, di parentela, di nazionalità o anche di religione. Si tratta invece di un altro tipo di amore, quello messo in opera dal Samaritano, che si è fatto prossimo – si è avvicinato - a un anonimo che andava da Gerusalemme a Gerico, su una strada deserta infestata dai banditi. Quest'uomo incappa nei banditi che lo derubano, lo picchiano e lo lasciano mezzo morto. Allora passano due addetti al culto - due che cercavano Dio in chiesa, non sulla strada evidentemente; costoro tirano dritto. Passa invece questo Samaritano il quale si ferma e si prende in collo quel poveretto. Se lo porta dall'oste e lo lascia lì per farlo curare. Alla fine del racconto Gesù chiede al suo interlocutore: "Chi dei tre che sono passati si è fatto prossimo?". Gesù ha rovesciato la domanda.
    Il vero problema, la vera condizione per realizzare il senso della vita ed ereditare la vita eterna non è di amare i propri prossimi, ma è di amare con quell'amore che ti rende prossimo a chiunque sia nel bisogno.

    Riconoscersi nell'altro

    Alla domanda: "Che cosa devo fare perché la mia vita trovi il suo senso?" Gesù quindi risponde: "Va e fa' lo stesso". Fa' quello che ha fatto il buon Samaritano, cioè realizza non in luoghi separati, non in luoghi addetti al culto, ma realizza nei luoghi della tua quotidianità, realizza sulla strada, quell'amore che non è limitato alla cerchia dei prossimi ma che è dato a chiunque. L'amore che consiste nel farsi prossimi è un amore che non ha nessuna giustificazione dovuta a rapporti di parentela, di nazionalità, o di religione. L'amore attivo, fattivo è solidarietà concreta a coloro che, chiunque siano, si trovano ad avere bisogno di noi.
    Questo primo episodio illustra il raccordo tra la ricerca del senso e l'uscita da sé verso l'altro, chiunque egli o ella sia. Il messaggio è: se vuoi cercare il tuo Io, il tuo senso più profondo, non devi scavare dentro di te, non devi cercare nei fondi della tua psiche - questo è certo un compito importante ma non è il fondamento. Se vuoi trovare il tuo senso radicale devi uscire da te e andare incontro all'altro.

    Cosa è la compassione?

    Ma c'è un punto che ancora manca nell'esposizione della parabola ed è: ma chi glielo ha fatto fare al Samaritano? Che cosa ha visto là dentro? Ha visto Gesù? Certamente no: Gesù è narratore della parabola e quindi Gesù non dice ancora: "Là dentro ci sono io". Il Samaritano, quindi, non ha visto Gesù; stando al tenore della parabola, non ha neppure visto. Era poi un samaritano: nella convinzione degli ebrei i samaritani erano un po' eretici, perché si erano prostituiti, cercando di tenere un piede nell'autentica religione ebraica del Dio di Abramo e di Giacobbe e un altro nelle religioni dei popoli vicini. Allora che cosa ha spinto questo straniero ed eretico a uscire da sé per farsi prossimo all'altro? L'evangelista usa una sola parola per spiegare quale è stata la motivazione, un termine greco che viene tradotto con 'ebbe compassione'. Letteralmente suona come: 'ebbe viscere di compassione', vale a dire è stato indotto ad agire da un qualche cosa che non ha altro motivo se non in se stessa.
    Non si tratta di viscere solo in senso emotivo: quelle indicano una reazione che porta ad aiutare solo coloro con i quali siamo legati, le nostre viscere si muovono^ sempre verso quelli a cui vogliamo bene. Non è questa la compassione di cui parla il Vangelo di Luca. Quella messa in luce nella parabola è la compassione verso colui di cui non so nulla e dal quale le viscere mi porterebbero piuttosto ad allontanarmi in fretta.
    Queste singolari viscere manifestano l'intuizione della presenza in quel povero diavolo di un mistero - non possiamo chiamarlo altrimenti - della presenza dell'Assoluto. Tale intuizione non è un fatto razionale ma coinvolge anche l'affettività, indubbiamente; non è il puro ragionamento di chi dice: "In base a questa ideologia giusta e sacrosanta devo amare ogni uomo e perciò anche questo". Al posto del ragionamento troviamo questa percezione originaria che nell'altro c'è l'Assoluto e che facendosi prossimi all'altro incontriamo l'Assoluto, che realizza il senso della vita. L'Assoluto noi lo chiamiamo Dio, certamente, ma è interessante notare che nella parabola Dio non viene nominato.

    La vera onnipotenza di Dio

    Secondo episodio: Vangelo di Luca, 7,11-17. Questa volta non si tratta di una parabola ma del racconto di uno dei miracoli di Gesù: la risurrezione di un adolescente, figlio di una vedova, la vedova di Naim. La parabola del Samaritano era un racconto inventato, costruito apposta per dare un insegnamento; questo invece è un fatto di vita: vi ricorrono tuttavia gli stessi motivi.
    La protagonista è una vedova che ha perso il suo figlio unico. Lei ha già perso il marito, e quindi ha perso il sostegno economico; ma nel contesto di una società patriarcale come era quella in cui viveva Gesù, questo significa che ha perso quello che in un certo modo era il suo principio di identità: si trova quindi con una identità dimezzata. Avendo poi perduto anche il figlio, era ulteriormente dimezzata: era un resto di donna, una donna negata. Tutto questo all'interno di una visione del mondo dove l'idea dell'identità femminile come identità autonoma era assente. Possiamo allora comprendere tutto il senso di profonda negazione che poteva avere la morte di un figlio unico di una donna che già era vedova.
    Gesù vede da lontano la processione funebre, chiede, viene a sapere di che si tratta e compie il miracolo, restituisce alla donna il figlio. Questo miracolo, che per essere un prodigio è repentino, è lo stesso miracolo compiuto dal buon Samaritano che rispetta invece i tempi e le scadenze normali di una guarigione. Il significato più immediato dell'episodio è che Gesù è il Messia e ha dalla parte sua la potenza di Dio, datore della vita: prende per mano il ragazzo, gli ridà la vita e lo restituisce alla madre. Leggendo più in profondità l'episodio, possiamo domandarci: Gesù, da che cosa è mosso nei confronti della vedova? Qual è la forza interiore, la ragione che suscita e che mette in movimento la sua azione onnipotente? Il versetto 13 dice: "Vedendola, il Signore ebbe viscere di compassione"; allora l'onnipotenza di Gesù non è altro che il braccio, cioè il potere esecutivo di quell'altra onnipotenza che è la compassione.
    C'è un bellissimo testo della tradizione cristiana, che dice: "O Dio che manifesti la tua onnipotenza soprattutto con la compassione e la misericordia, perdonaci". Ecco la compassione, la vera onnipotenza di Dio, rispetto alla quale il potere di fare tutto ciò che vuole non è altro che il potere esecutivo. Ripeto: la vera onnipotenza di Dio, il potere decisionale, motivazionale, quello che lo muove da dentro e senza il quale non si metterebbe mai in movimento la sua onnipotenza esecutiva, è la compassione. È la volontà di dare vita a chi non ha vita, di ridarla a chi l'ha perduta. Questo è il Dio della Bibbia. La sua compassione e onnipotenza si incarnano nell'azione e nella prassi messianica di Gesù. Credo che in tutta la Bibbia non ci sia una parola più forte per dire questo aspetto originario di Dio: la parola ebraica usata è la forma plurale di utero, la cosa più femminile che ci sia e più irrazionale (non si ragiona con l'utero!...). Sorprendentemente, Dio ha queste viscere, vale a dire ha una disposizione radicale che si situa al di là di ogni ragione o almeno di quello che noi possiamo pensare attraverso i nostri ragionamenti: questo è il suo nome profondo. Poiché anche Dio ha un nome profondo, un nome radicale, un'identità che lo fa Dio e questa è la compassione, questa è la tenerezza; così come a fare madre la madre è l'utero, così a fare Dio sono le viscere di misericordia.

    Il Dio della tenerezza

    La Bibbia non specula su chi è Dio in se stesso: i numerosi titoli con i quali Dio è chiamato sono piuttosto il risultato della riflessione dei teologi. La Bibbia dice: Dio è colui che ha preso l'iniziativa di fare alleanza con l'umanità. Quando poi il popolo spezza l'alleanza la Bibbia ricorda i rimproveri di Dio: "Questo male l'hai voluto tu; tra noi tutto è finito: tu hai rotto l'alleanza, ti sei prostituito ad altri dei!". Sempre usando espressioni umane, Dio prova a girare le spalle al popolo che ha voluto la separazione, ma non riesce, perché gli si agitano le viscere di misericordia. Per secoli noi cristiani abbiamo insistito nel presentare il Dio del Primo Testamento come il Dio del timore: ma il timore è solo l'altra faccia del Dio della tenerezza, della misericordia e della compassione.
    Ancora una osservazione sempre a proposito di questo secondo episodio: come in genere tutti i Vangeli e anche tutta la Bibbia, può essere letto anche senza l'adesione che le dà un credente, può essere letto anche da un laico non credente. Anche chi non crede che Gesù è Figlio di Dio, non può non inchinarsi davanti alla statura umana che Egli ha rappresentato. In un'epoca di crisi del senso, la figura di Gesù è un regalo fatto non solo ai credenti, ma a tutta l'umanità. Quando l'uomo di oggi cerca delle immagini esemplari di umanità, trova che l'immagine esemplare che più di tutte spicca nella tradizione occidentale è quella dí Gesù.
    Credo che dovremmo essere più attenti a nutrire la consapevolezza che quel Gesù di cui noi parliamo non è un relitto nella modernità, ma è una delle più grandi figure che i laici lucidi riconoscono come esemplari di eticità, cioè di vita modulata secondo il senso profondo. Eviteremmo così di passare - come capita spesso a noi cattolici - da complessi di superiorità a complessi di inferiorità. I complessi di superiorità li viviamo quando, convinti di possedere l'unica parola di verità nel mondo, cavalchiamo con aggressività tutte le crociate; al complesso di inferiorità diamo spazio quando, percependo le dimensioni di piccolo gregge, siamo portati a svalutare Gesù e il messaggio, a rimanere vittime della delusione. C'è una fierezza nel professare il nome di Gesù che non deve diventare arroganza, deve piuttosto essere modulata con la discrezione, ma c'è una fierezza che offre anche un valore culturale: questo Gesù nel quale crediamo è una figura che ottiene a tutt'oggi un riconoscimento praticamente universale nella sua grandezza di umanità, nella sua verità di umanità.

    Noi crediamo nell'amore di Dio

    Terzo episodio: Vangelo di Luca 15,11-32. È la terza parabola del capitolo e tutte e tre le parabole sono raccontate da Gesù all'interno di un contesto realistico enunciato al versetto del capitolo 15: «Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo; i farisei e gli scribi mormoravano dicendo: "Costui riceve i peccatori e mangia con loro". Allora egli disse loro queste parabole...». Dunque il contesto è questo: Gesù accetta l'invito dei pubblicani e dei peccatori (noi diremmo oggi, che so, l'invito di un noto mafioso, di un usuraio, di un camorrista...). Ai tempi di Gesù un invito a cena era un fatto di profonda amicizia. È evidente che questo sconvolga i benpensanti. Gesù non vuol dire affatto: "Sono brava gente, in fondo fanno un mestiere come gli altri...". Gesù non giustifica, ma accetta di essere invitato a tavola: perché?
    Ed ecco la parabola del figlio prodigo, la parabola di colui che ha tutto nella casa del padre ma a un certo punto non gli basta, prende la sua parte, la sperpera, e finisce a guardare i porci e a cercare di mangiare le loro ghiande. Se Gesù accetta di essere invitato a cena da questo tipo di persone, non è perché vuole chiudere un occhio su quello che fanno: la sua amicizia vuol far capire loro che la loro storia è quella del figlio prodigo. Questa, tuttavia, è solo la parte introduttiva della parabola, l'antefatto, perché essa in realtà rivela il cuore del padre. Egli scorge da lontano il figlio che sta tornando sulla base di considerazioni egoistiche ("A casa di mio padre perfino gli schiavi stanno meglio di me qui"): il figlio sta tornando a casa non per ristabilire il rapporto, ma per chiedere al padre che lo accolga come schiavo. E il padre, appena lo vede, ne è commosso (ebbe viscere di compassione). Nella mentalità del tempo un buon padre avrebbe punito il figlio; questo padre, invece, gli butta le braccia al collo e lo bacia perché, credendo di averlo perduto, lo ha ritrovato.
    Di nuovo, una risurrezione: come era quasi morto il viandante che il Samaritano si mette sulle spalle e lo cura e lo risana; come era morto il figlio della vedova, che Gesù risuscita.
    Raccontando questa parabola, mangiando con i peccatori e con le prostitute, Gesù sembra voler dare un messaggio: la possibilità del perdono e della conversione. Non dice: "Continua a fare così tanto va bene comunque", ma: "Cambia la tua vita, se no fallisci il senso". La conversione è un appello rivolto a tutti, una possibilità guadagnata da Gesù, irrevocabilmente, per tutti, sulla croce. Dio, nella morte e risurrezione di Gesù, si è riconciliato con l'umanità peccatrice e questa riconciliazione ci permette di essere continuamente rinnovati, continuamente risospinti sulla strada della compassione e della misericordia.

    La forza di un pezzo di "pane"

    Siamo partiti dalla strada, per arrivare alla chiesa, ai sacramenti, in particolare all'Eucaristia, il memoriale che rende presente qui in mezzo a noi quell'atto conclusivo: la croce di Gesù ha abbracciato l'umanità peccatrice, come il padre della parabola ha abbracciato il figliol prodigo e in quell'abbraccio c'è per tutti la capacità di ricominciare da capo. Ecco l'identità più profonda di Dio che Egli ha trasmesso all'uomo e che Gesù ha vissuto nella sua vita e nelle sue parole. La compassione di Gesù rimbalza e diventa la compassione di ogni donna e di ogni uomo; si aprono alla compassione anche coloro che non hanno mai sentito parlare di Gesù, o che ne hanno sentito parlare ma a cui non interessa.
    Sappiamo che lì dove c'è uno che si china sull'altro, dove c'è la compassione, lì c'è la compassione di Dio e di Gesù. Ma allora che cosa abbiamo in più ? Che cosa specifica il nostro essere cristiani? È il nostro credere nell' amore di Dio, credere che la compassione scaturisce da Lui, dalla sua croce e dalla sua risurrezione. Una tale consapevolezza diventa per noi una forza. Ci aiuta a prendere il racconto cristiano della morte e risurrezione di Gesù come l'atto conclusivo in cui Dio irrevocabilmente riconcilia a sé l'umanità, le dice: "Alzati e cammina" e ridà la vita. Credere in questo diventa una forza diversa, diventa un punto di riferimento, di alimentazione continua nella capacità di essere buoni samaritani.
    C'è una potenza evangelizzatrice nella carità in quanto tale, nella solidarietà in quanto tale. C'è una trasparenza mentre io do un pezzo di pane. Certo, se butto lì il pane con disprezzo, non c'è alcuna trasparenza di Dio. Ma se il pane viene dato davvero, allora si trasforma in un gesto di amicizia, di affezione, che trapela da tutto il linguaggio, anche del corpo. Diventa testimonianza del fatto che l'Amore è il motore ultimo della nostra storia.
    Un giorno d'inverno, un monaco tentato nella fede, esce nel giardino e vede un albero inaridito. Gli dice: "Parlami di Dio" e l'albero di colpo fiorisce. Io credo che quell'albero che fiorisce è senz'altro il simbolo di un'esistenza umana che Dio riesce a far sbocciare o rifiorire accogliendola nella compassione e rinvigorendola nella comunione.

    (Convegno Cortona 1998)


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