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    La chiesa può ancora parlare con autorevolezza se ritorna al vangelo


    La chiesa può ancora

    parlare con autorevolezza

    se ritorna al vangelo

    Enzo Bianchi

    L'opera della Chiesa nel mondo, dalla Pentecoste alla gloriosa e definitiva venuta del Signore Gesù Cristo, è certamente costituita dalla missione. Missione intesa come testimonianza (martyría) in opere e parole attuata dai discepoli, i cristiani, presso le genti di ogni terra. Al riguardo, non si può dimenticare quella straordinaria asserzione della Lumen gentium: «Come Cristo ha realizzato la sua opera di redenzione nella povertà e nella persecuzione, anche la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via, per comunicare agli uomini i frutti della salvezza» (LG 8).
    La Chiesa è dotata di preziosi tesori e "risorse" da offrire e condividere con l'umanità nel cuore della quale vive e opera, ma è necessario considerarli non tanto come una ricchezza che si possiede, quanto piuttosto come appello a una spoliazione continua. Non è facile, ma oggi più che mai la Chiesa può nuovamente parlare con autorevolezza se non teme di spogliarsi di tante ricchezze, non solo materiali. E se s'incammina nella direzione della vita apostolica per eccellenza, quella che Paolo ha delineato nella Prima lettera ai Corinti: «Io ritenni di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso. [...] La mia parola e la mia predicazione non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio» (1Cor 2,2-5).
    In una stagione nella quale per la prima volta, dopo i secoli della cristianità, la nostra fede è "exculturata", ormai al di fuori delle culture dominanti nell'Europa occidentale, dobbiamo approfittare di questa situazione per dire la nostra fede e la nostra speranza finalmente liberi da tanti pesi che potevano essere di impedimento alla potenza della parola di Dio, del Vangelo che è Vita, anche per il nostro tempo.
    Oggi ci poniamo domande che ieri non ci facevamo: che cosa aggiunge la vita cristiana alla vita umana? Vale la pena continuare la missione che porta la "buona notizia"? Che cosa possiamo fare, come cristiani, di diverso dagli altri? Di fronte a domande del genere constatiamo di avere poche risposte. Qui occorre essere sinceri, e questo interrogarsi diventa significativo quando nasce dalla vita, dalla relazione con gli altri, dall'essere consapevoli, quando siamo di fronte a non cristiani che ci chiedono conto della speranza che ci abita, che dobbiamo arrivare a renderla eloquente, fornendo "delle ragioni".
    La missione avviene così, nel tessuto delle nostre vite, nell'ascolto delle domande profonde, a volte balbettate o addirittura mute, e nel tentativo di dare risposte. Proprio in questo "contatto" il cristiano deve sentirsi povero. Anzi, deve spogliarsi per non fare apparire altro che quella speranza che lo abita, una speranza unica: la vittoria della Vita e dell'Amore sulla morte, cioè la Risurrezione di Gesù! Non abbiamo altre risorse autentiche da offrire, tutto il resto l'umanità può cercarlo e trovarlo da sé, ma questo "esito" che è Vita può venire solo dalla "buona notizia" del Vangelo della Risurrezione: un annuncio al quale si è liberi di aderire, ma che è lo specifico del cristianesimo. Annuncio che è il più difficile, come testimoniano gli Atti degli apostoli narrando la predicazione di Paolo all'areopago di Atene, quando i presenti lo ascoltarono volentieri, ma si creò un'aporia all'annuncio della risurrezione di un uomo, Gesù. Questo è il nucleo incandescente della fede cristiana, lo straordinario incredibile, che può essere accolto se lo si vede vissuto più che proclamato a parole. Non ci saranno mai panni e vesti sufficienti per coprire e occultare questa "nudità" dell'evento pasquale che lo rende Vangelo, buona e bella notizia.
    E poi lo sappiamo dalla storia: più i cristiani hanno saputo andare tra le genti solo con la ricchezza del Vangelo, più hanno dato origine a Chiese autenticamente cristiane. Più sono andati portandosi, invece, come bagaglio la loro pretesa cultura, le loro cosiddette risorse, più hanno fondato Chiese che ben presto hanno mostrato di non essere realtà evangelizzate. Giuseppe Dossetti, grande figura ecclesiale, per me maestro e amico, quante volte ha messo in guardia dal confidare in progetti culturali: l'effetto è l'esaltazione!
    Ma, al contrario, è proprio l'essenzialità dell'annuncio missionario, lo si chiami kérygma o altro, ciò che lo rende potente, efficace.
    Con la croce e la Risurrezione di Gesù «non c'è giudeo né greco; non c'è schiavo né libero; non c'è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28). Così è immaginata una nuova comunità umana nella quale tutti sono chiamati a vivere questa nuova relazione in Cristo! Una Chiesa ospitale! È questo il volto della Chiesa missionaria per l'oggi e per il futuro. Ma attenzione a comprendere bene: non si riduca l'immagine dell'ospitalità a quella forma di carità oggi praticata in modo anche eroico e ben testimoniato verso gli immigrati. La qualità dell'ospitalità è, innanzitutto, data dal volto della Chiesa.
    Una Chiesa che vive nel regime della libertà, quella che Paolo difendeva con forza rispetto alla religione dei padri e predicava come urgenza missionaria tra i pagani! Una Chiesa poliedrica, capace di lasciarsi plasmare dalla sapienza policroma di Dio e dalla diversità delle genti, senza nessun asservimento alla Chiesa latina. Una Chiesa nella quale uomini e donne, tutti i battezzati, siano riconosciuti nella loro dignità, senza la disparità che continua a penalizzare le donne nella Chiesa cattolica. Una Chiesa capace di accogliere i peccatori non perché si dice misericordiosa verso gli altri, ma perché sa di avere bisogno lei per prima della misericordia di Dio.
    Chissà quando nella Chiesa avremo la parresía per ammettere che se oggi molti se ne vanno, questo dipende dal fatto che la Chiesa non sa essere accogliente, anche lei malata di narcisismo spirituale che le impedisce di guardare a chi è lontano o a chi è fuori dai suoi recinti, e di nutrire makrothymía (pazienza, longanimità) anche per chi nel suo seno anela alla libertà, cerca vie nuove, si avventura per cammini rischiosi ma umani. Non accorgersi che la Chiesa continua a essere malata di intransigentismo e di rigorismo solo perché in essa si parla tanto di misericordia significa essere accecati e non vedere che sono solo mutati i termini ai quali applicare legalismo e giustizialismo.
    L'ospitalità per la Chiesa è decentramento in atto, uscita da sé stessa per andare verso gli altri e permettere loro di convergere verso il Signore Gesù Cristo, permettere agli assetati di vita di trovare la vita. Anche gli uomini e le donne di oggi hanno sete e cercano i pozzi dove c'è acqua. Chi siede presso il pozzo, e può attingere, offra e doni acqua, nient'altro che acqua, e soddisfi la loro sete: questa la sua missione, niente di più. «In Cristo l'uomo è diventato la speranza dell'Uomo!» (J. Ratzinger, 1971).

    (Vita Pastorale - Luglio 2021)


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