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    Innamorati di Cristo

    per far innamorare 

    Bruno Forte

     

    NUOVA EVANGELIZZAZIONE ED ESPERIENZA PASQUALE 

    Secondo i racconti pasquali delle apparizioni del Risorto, al “terzo giorno”, il giorno della resurrezione di Gesù e della piena rivelazione dell’amore del Dio vivente, attuata mediante l’effusione dello Spirito Santo, si è compiuta nella vita dei discepoli un’esperienza trasformante e feconda di partecipazione alla vita divina donata dall’alto, quella dell’incontro con il Cristo vivente.

    Da quest’incontro sono scaturite non solo la conversione del cuore dei discepoli, ma anche la loro comunione nuova e la loro missione nel tempo, secondo il disegno che il Padre ha avuto per ciascuno di loro. Si è così compiuta in pienezza la promessa di Gesù: “Io sono la luce del mondo.

    Chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (Gv 8,12). Di testimone in testimone questa luce è giunta fino a noi: Cristo si è presentato a noi vivente, come un giorno si presentò ai primi testimoni dell’incontro di Pasqua, e ci ha invitato e ci invita sempre di nuovo a entrare con Lui nell’abisso della vita divina, per esserne rigenerati e inviati lì dove egli stesso ci precede e ci accompagna. Resi nuovi da Lui, siamo resi capaci di cantare con la vita il cantico nuovo, il cantico dei risorti nel Risorto: “Novi novum canamus canticum” (Sant’Agostino). Chi ha vissuto e vive questa esperienza di incontro sa di poter esprimere ciò che prova con le parole degli Esercizi spirituali di Sant’Ignazio nella Contemplazione per ottenere l’amore: “Prendi, Signore, e accetta tutta la mia libertà, la mia memoria e il mio intelletto, e tutta la mia volontà, ogni mio avere e possesso. Tu me lo hai dato, a Te, Signore, lo rendo: tutto è Tuo, disponine a Tua piena volontà; dammi il Tuo amore e la Tua grazia, perché questo mi basta” (n. 234). 

    1. L’incontro che cambia la vita 

    All’inizio ci fu l’esperienza di un incontro: ai pavidi fuggiaschi del Venerdì Santo Gesù si mostrò vivente (cf. At 1,3). Quest’incontro fu talmente decisivo per loro, che la loro esistenza ne venne totalmente trasformata: alla paura si sostituì il coraggio; all’abbandono l’invio; i fuggitivi divennero i testimoni, per esserlo ormai fino alla fine, in una vita donata senza riserve a Colui che avevano tradito nell’“ora delle tenebre”. Uno iato evidente sta, quindi, fra il tramonto del Venerdì Santo e l’alba di Pasqua: uno spazio vuoto, in cui è accaduto qualcosa di talmente importante, da dare origine allo sviluppo del cristianesimo nella storia. Che cosa è avvenuto? Dove lo storico profano non può che constatare l’inaudito “nuovo inizio” del movimento cristiano, rinunciando semplicemente a spiegarne le cause dopo il fallimento delle varie interpretazioni “liberali” della nascita della fede pasquale, che tendevano a farne un’esperienza puramente soggettiva dei discepoli, l’annuncio registrato nei testi del Nuovo Testamento confessa l’incontro col Risorto come esperienza di grazia: ad essa ci danno accesso specialmente i racconti delle apparizioni.

    Sono cinque le tradizioni dei racconti pasquali: la tradizione paolina (1 Cor 15,58); quella di Marco (Mc 16,9-20); quella di Matteo (Mt 28,9-10.16-20); quella lucana (Lc 24,13-53); e quella giovannea (Gv 20,14-29 e 21). Queste narrazioni non si lasciano armonizzare fra di loro nei dati cronologici e geografici: i racconti, tuttavia, sono costruiti tutti su una medesima struttura, che lascia trasparire le caratteristiche fondamentali dell’esperienza di cui parlano. Vi si ritrova sempre 1 l’iniziativa del Risorto, il processo di riconoscimento da parte dei discepoli e la missione, che fa di essi i testimoni di ciò che hanno “udito e visto con i loro occhi e contemplato e toccato con le loro mani” (cf. 1Gv 1,1). Si profila attraverso questa successione narrativa l’esperienza di una triplice “identità nella contraddizione”: quella fra il Crocifisso e il Risorto, che si presenta vivente; quella fra il discepolo com’era prima e come diviene dopo il processo di riconoscimento del Signore; e quella che l’annuncio (il “kérygma”) tende a suscitare nella vita del destinatario, fra come questi era prima e come diviene dopo aver creduto all’annuncio stesso riguardo a Gesù, Signore e Cristo.

    L’iniziativa è del Risorto: è Lui a mostrarsi vivente (cf. At 1,3), ad “apparire”. La forma verbale “ófte”, usata in 1 Cor 15,38 e Lc 24,34, può avere tanto un senso medio (“si fece vedere, apparve”), quanto un senso passivo (“fu visto”). Nell’Antico Testamento in greco, però, è adoperata sempre e solo per descrivere le teofanie, e dunque nel senso di “apparve” (cf. Gen 12,7; 17,1; 18,1; 26,2): essa dice pertanto che l’esperienza degli uomini delle origini cristiane non fu solo frutto del loro cuore, ma ebbe un carattere di “oggettività”, fu qualcosa che capitò loro, qualcosa che “venne” a loro, non qualcosa che “divenne” in loro. Non fu, insomma, la commozione della fede e dell’amore a creare il suo oggetto, ma fu il Signore vivente a suscitare in modo nuovo l’amore e la fede in Lui, cambiando lo stesso cuore dei discepoli. Nessun fondamento filologico - esegetico, allora, può avere una lettura della resurrezione come quella che fa Ernest Renan in riferimento alla visita di Maria di Magdala al sepolcro: “Potere divino dell’amore!... Momenti sacri, in cui la passione di un’allucinata risuscita un Dio al mondo!” (Vita di Gesù, cap. XXVI). Né si può ridurre l’esperienza pasquale a una semplice ripresa del movimento di Gesù, suscitata dalla decisione più o meno razionale o emotiva dei discepoli portare avanti la Sua “causa” nonostante la sconfitta rappresentata dalla morte di croce (“die Sache Jesu geht weiter” - “la causa di Gesù continua”: Willi Marxsen, La resurrezione di Gesù di Nazareth, Bologna 1970).

    Ciò non esclude, naturalmente, il processo spirituale che fu necessario ai primi testimoni per “credere ai loro occhi”, per aprirsi, cioè, interiormente nella libertà della coscienza a quanto era avvenuto in Gesù Signore: è quanto ci dice l’itinerario progressivo del riconoscimento del Risorto da parte dei discepoli, sottolineato con cura dai testi del Nuovo Testamento contro possibili tentazioni “entusiastiche”. È il processo che porta dallo stupore e dal dubbio al riconoscimento del Risorto: “Allora si aprirono i loro occhi e lo riconobbero” (Lc 24,31). Questo processo dice la dimensione soggettiva e spirituale dell’esperienza fontale della fede cristiana e garantisce lo spazio decisivo della libertà personale e della gratuità dell’assenso nell’incontro col Signore Gesù e nell’adesione della fede in Lui. Si crede non ignorando il dubbio, ma vincendolo mediante un atto di affidamento che - pur non essendo solo razionale - non esclude mai il discernimento anche razionale dei segni che ci vengono dati. Si compie così l’esperienza dell’incontro: in un rapporto di conoscenza diretta e rischiosa, il Vivente si offre ai suoi e li rende viventi di vita nuova, testimoni di quell’incontro con Lui che ha segnato per sempre la loro esistenza: “Andate in tutto il mondo, predicate il vangelo ad ogni creatura” (Mc 16,15). “Dio lo ha risuscitato da morte, e di questo noi siamo testimoni” (At 3,15; cf. 5,31s., come pure 1,22; 2,32; 10,40s).

    L’esperienza pasquale oggettiva e soggettiva inseparabilmente - per la grazia dell’incontro fra il Vivente e i suoi si presenta, infine, come un’esperienza trasformante: da essa ha origine la missione, in essa trae impulso il movimento che si dilaterà fino agli estremi confini della terra.

    Come sarà per l’apostolo Paolo e per tutti i testimoni di Cristo, non si annuncia se non Colui che si è incontrato, di cui si è fatto e si fa esperienza viva e trasformante. È l’esperienza - oggi come allora - di una triplice “identità nella contraddizione”: la prima è quella fra il Cristo risuscitato e l’umiliato della Croce; la seconda quella fra i fuggiaschi del Venerdì Santo e i testimoni di Pasqua; la terza quella fra i testimoni del Risorto e coloro cui essi annunciano la parola della vita perché anche loro siano gli stessi e non più gli stessi grazie all’incontro che cambia la vita. Nel Risorto viene riconosciuto il Crocifisso: questo riconoscimento, che lega la suprema esaltazione alla suprema vergogna, fa sì che la paura dei discepoli si trasformi in coraggio ed essi divengano uomini nuovi, capaci di amare la dignità della vita ricevuta in dono più della vita stessa, pronti perciò al martirio.

    Il loro annuncio - frutto di un’incontenibile sovrabbondanza del cuore - raggiunge e trasforma la vita di chi ricevendolo crede, e credendo si apre alla vita nuova offerta in Gesù, Signore e Cristo.

    È per questo che l’annuncio fontale, il “kerygma” della buona novella, si compendia nella formula breve e densa “Gesù il Cristo”, “Gesù il Signore”: essa non è la semplice attribuzione di un titolo ad un soggetto, ma il racconto di una storia, che è la storia dell’auto-comunicazione di Dio agli uomini e perciò della nostra salvezza, compiutasi attraverso l’umiliazione e l’esaltazione del Figlio di Dio venuto fra noi. Riferendo all’Umiliato della Croce la qualità di “Cristo - Messia” e riconoscendo in Lui il “Kyrios - Adonai” con cui la fede biblica invocava il Dio dell’alleanza, la formula pasquale racconta la storia della sua esaltazione gloriosa, il passaggio per il quale Lui, l’Abbandonato del Venerdì santo, è riconosciuto sullo stesso piano dell’essere divino, Signore della stessa signoria di Dio, unto dallo Spirito dell’Eterno e proprio così redentore del Suo popolo e salvatore dell’umanità. L’orizzonte che la confessione pasquale dischiude è così quello di un triplice esodo di Gesù, Figlio dell’Uomo e Figlio di Dio: l’esodo dal Padre (“exitus a Deo”); l’esodo da sé (“exitus a se usque ad mortem, mortem autem Crucis”); e l’esodo verso il Padre (“reditus ad Deum”). 

    2. Il triplice esodo di Gesù e il nostro. 

    In primo luogo, il Signore Gesù, che si presenta vivente, si offre agli occhi della fede come il Figlio che ha accettato di vivere l’esodo dal Padre per amore nostro: egli è la Parola uscita dal Silenzio, il Santuario vivente e santo, in cui l’alterità del Figlio - fattosi solidale con noi - in relazione al Padre ci apre alla Trinità divina. Nella tradizione teologica dell’epoca moderna quest’aspetto decisivo è stato oscurato: la dialettica della rivelazione, fatta di apertura e di nascondimento, di parola e di silenzio, espressa nel termine re-velatio (re-velare vuol dire “togliere il velo” ed insieme “nuovamente velare”, analogamente a quanto esprime il greco apokálypsis) è stata sempre più obliata a favore dell’idea di rivelazione come apertura totale (come dice la parola tedesca Offenbarung, da offen, aprire, e dal medioevale bären, portare in grembo: offenbaren vuol dire dunque “generare all’aperto”). Così si è spianata la via al trionfo dell’ideologia, a quella presunzione di comprendere tutto - anche il mistero di Dio! - che ha generato la visione totalitaria del mondo, matrice di ogni possibile violenza sull’altro. Su questa linea si comprende come possa essere giustificata l’ironia di Nietzsche: “Dio è diventato finalmente comprensibile a se stesso nel cervello di Hegel!”. Il Dio di Gesù Cristo non è così, è anzi tutt’altro che il Dio della manifestazione totale e indiscreta: è il Dio che resiste ai superbi e non può in alcun modo essere risolto in formule ideali, tese a spiegare ogni cosa.

    Alla rivelazione, compiutasi in pienezza a Pasqua, non si risponde, allora, con l’arroganza ideologica, ma con l’atteggiamento che il Nuovo Testamento chiama “obbedienza della fede” (upakoé tes písteos). Anche qui l’etimologia illumina e chiarisce: ob-audire, ypó-akoúein, vogliono dire “ascoltare ciò che è sotto, dietro, nascosto”. Alla rivelazione si risponde aderendo alla Parola, come discepoli dell’unico Verbo di Dio incarnato: ma la Parola è porta, che ci introduce negli abissi del divino Silenzio. Perciò l’incontro col Risorto, vissuto nell’obbedienza della fede, è invito a trascendere la Parola verso gli abissi del Silenzio cui essa introduce, e così è il rifiuto radicale di ogni riduzione ideologica del cristianesimo. Se il cristianesimo è la religione della revelatio e dell’obbedienza della fede, esso non potrà mai essere confuso con formule totalizzanti, ideologiche o politiche, né dovrà mai essere svenduto come il supporto di una delle forze in gioco nella storia.

    La fede nella rivelazione compiutasi in Gesù Crocefisso e Risorto è pertanto nutrimento di una permanente vigilanza critica, di una costante “riserva escatologica” al servizio della verità di Dio e dell’uomo. Si obbedisce alla Parola ascoltando il Silenzio: “Il Padre pronunciò una Parola, che fu suo Figlio, e sempre la ripete in un eterno silenzio; perciò in silenzio essa deve essere ascoltata dall’anima” (S. Giovanni della Croce, Sentenze. Spunti d’amore, n. 21). Si accoglie Cristo lasciandosi rigenerare dall’alto, nel silenzio dell’ascolto contemplativo e nell’invocazione umile e fedele...

    In Gesù Risorto si manifesta poi il compimento supremo dell’esodo da sé, da lui vissuto fino all’abbandono della Croce, che è il cammino della sua libertà. Accettando di esistere per il Padre e per gli uomini, Gesù è stato libero da se stesso in maniera incondizionata. In lui l’esperienza dell’alterità si è fatta libertà per amare: l’esistenza del Figlio nella carne è un’esistenza totalmente accolta da Dio e totalmente donata nella libertà, per la libertà. La sua vita pubblica si apre e si chiude con due grandi agonie della libertà, l’agonia della tentazione e quella del Getsemani. Che cosa sono queste agonie se non lo stare di fronte all’alternativa radicale ed esercitare la scelta della libertà dell’esodo da sé senza ritorno per amore del Padre e degli uomini? Cristo è colui che ha fatto la scelta radicale per Dio, libero da sé, libero per esistere per gli altri: proprio così egli ha abbattuto il muro dell’inimicizia (cf. Ef 2,14). Nell’ora della Croce, al vertice del suo cammino di libertà Gesù si offre come l’Abbandonato, libero da sé per amore del Padre e per amore nostro fino ad accettare la derelizione assoluta. Questa stessa libertà Egli chiede ai suoi discepoli per entrare nel dono della vita divina e per portarlo al mondo: la Chiesa del Crocefisso Risorto si profila perciò anzitutto come una comunità libera da interessi mondani, decisa a non servirsi degli uomini, ma a servirli per la causa di Dio e del Vangelo, una comunità che vive della sequela dell’Abbandonato, pronta a lasciarsi riconoscere nel dono di sé senza ritorno, anche se in termini umani questo dovesse risultare improduttivo o alienante.

    Infine, Gesù è il Cristo, il Signore della vita, che vive l’esodo da questo mondo al Padre, il “reditus” alla gloria da cui è venuto. Nella Sua resurrezione Egli si offre come il testimone dell’alterità di Dio rispetto a questo mondo, dell’Ultimo rispetto a ciò che è penultimo. Egli è il datore dello Spirito Santo, la sorgente dell’acqua viva che viene ad attualizzare nel tempo il dono di Dio e condurre gli uomini alla gloria di Lui tutto in tutti. Questo terzo esodo del Figlio dell’Uomo ci ricorda che il cristianesimo non è la religione del trionfo del negativo, ma è e resta, nonostante tutto e contro tutto, la religione della speranza e che dunque i cristiani, anche in un mondo che ha perso il gusto a porsi la domanda del senso, sono coloro che hanno a cuore l’Eterno e perciò continuano a proporre la passione della Verità salvifica come senso della vita e della storia di tutti. Testimoniare l’orizzonte più grande, dischiuso dalla promessa liberante di Dio: questo è annunciare il Vangelo del Risorto, di cui l’inquietudine senza senso del nichilismo postmoderno ha più che mai bisogno.

    Senza quest’orizzonte di speranza, fondato sulla fede nell’impossibile possibilità di Dio, nessun annuncio e impegno di carità e di giustizia potrà essere portato avanti fino in fondo: la pace è opera di giustizia che giunge sempre e solo sulle ali della speranza più forte di ogni calcolo umano...

    La rivelazione compiutasi nella risurrezione del Signore Gesù, chiama dunque i discepoli a render ragione della speranza che è in loro con dolcezza e rispetto per tutti (cf. 1 Pt 3,15), facendosi luogo dell’irruzione dell’Altro, offertosi a noi nel triplice esodo del Figlio dell’Uomo. Al Suo esodo deve corrispondere il nostro: sul piano personale ed ecclesiale ciò esige che siamo discepoli dell’Unico, aperti e disponibili sempre all’iniziativa del Risorto; servi per amore, pronti a vivere il discernimento di ciò che Lui ci chiede e a seguirLo dove Lui ci precede; e testimoni del senso, che irradiano con la parola e la vita, trasformata dall’incontro con Lui vivente, la gioia del Vangelo. I discepoli del Risorto sono chiamati in primo luogo a porre l’iniziativa di Dio in Gesù Cristo al centro della loro vita e del loro annuncio, qualificandosi come discepoli dell’Unico, servi della Verità, che libera e salva. Essi riconoscono che l’iniziativa nella loro vita di credenti viene dall’alto, da Dio, dal quale sono stati raggiunti e chiamati: “Ciò di cui abbiamo soprattutto bisogno in questo momento della storia - ha detto Joseph Ratzinger qualche settimana prima di diventare Papa - sono uomini che, attraverso una fede illuminata e vissuta rendano Dio credibile in questo mondo. La testimonianza negativa di cristiani che parlavano di Dio e vivevano contro di Lui, ha oscurato l’immagine di Dio e ha aperto la porta dell’incredulità. Abbiamo bisogno di uomini che tengano lo sguardo dritto verso Dio, imparando da lì la vera umanità. Abbiamo bisogno di uomini il cui intelletto sia illuminato dalla luce di Dio e a cui Dio apra il cuore, in modo che il loro intelletto possa parlare all’intelletto degli altri e il loro cuore possa aprire il cuore degli altri. Soltanto attraverso uomini che sono toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini” (Subiaco, 1 Aprile 2005).

    “Vieni e seguimi” è l’appello che il Vivente fa risuonare sempre di nuovo per quanti credono in Lui, perché essi dicano con la vita che ci sono ragioni vere del vivere e del vivere insieme e che queste ragioni non sono in noi stessi, ma fuori di noi, nell’Altro che viene a noi, in quell’ultimo orizzonte, che la fede ci fa riconoscere rivelato e donato in Lui, Gesù Cristo. Alla scuola del Risorto, si tratta di riscoprire il primato di Dio nella fede, e perciò il primato della dimensione contemplativa della vita, intesa come fedele unione al Cristo in Dio, avendo il cuore attento all’ultimo orizzonte, che in Lui ci è stato dischiuso e offerto. C’è bisogno di cristiani che siano innamorati di Dio, convinti della loro fede, esperti della vita secondo lo Spirito, pronti a rendere ragione della loro speranza, capaci di rifiutare sempre e con tutte le loro forze la logica delle sole possibilità di questo mondo per testimoniare la potenza del dono - impossibile agli uomini, ma possibile a Dio - che viene dall’alto. Ci è chiesto, insomma, di vivere nel raggio di azione della potenza del Risorto, resi da ciò capaci di vivificare dall’interno con il Suo amore ogni comportamento e ogni rapporto storico: come San Francesco, di cui afferma la Vita Seconda di Tommaso da Celano che “non era tanto un uomo che prega, quanto piuttosto egli stesso era tutto trasformato in preghiera vivente”.

    In secondo luogo, i discepoli del Risorto sono chiamati a seguire Gesù nell’esodo da sé senza ritorno, facendosi servi per amore sul modello dell’Abbandonato, discernendo la via della pace nella giustizia e nella carità in ascolto del Suo Vangelo, per confessare anche nelle notti della fede la luce che dalla resurrezione di Cristo ci raggiunge e illumina sempre più il cuore che ad essa si apra. Se il Risorto è al centro della nostra vita e della vita della Chiesa intera, se Egli è colui al quale dobbiamo restare appesi, avvinti alla Sua croce, illuminati dalla Sua risurrezione, allora non possiamo chiamarci fuori della storia di sofferenza e di lacrime in cui Egli è venuto e dove ha lasciato che venisse conficcata la Sua Croce per estendervi la potenza della Sua vittoria pasquale. I discepoli della Verità che salva sono dove è il loro Maestro, con Lui al servizio del prossimo, nell’umile discernimento e nell’obbedienza ai segni che Lui ci dà, alla chiamata con cui ci raggiunge. Non si realizza il compito affidatoci dal Risorto, non si costruisce il domani di Dio nel presente degli uomini attraverso fughe dalla fatica del discernimento e della risposta generosa al’Amato: il mondo uscito dal naufragio dei totalitarismi ideologici ha come mai bisogno di questa fede e di questa carità concreta, discreta e solidale, che sanno farsi compagnia della vita e sanno costruire la via della pace in comunione con tutti, irradiando la luce di Cristo Salvatore. Si tratta di mettere al primo posto nel nostro cuore la causa del Regno di Dio; si tratta di giocare la nostra vita senza risparmio, compromettendola con la testimonianza, se necessario portando la croce, cercando sempre la via in comunione. Come ci ricorda il Concilio Vaticano II, “ ‘finché abitiamo in questo corpo siamo esuli lontani dal Signore’ (2 Cor 5,6) e avendo le primizie dello Spirito, gemiamo dentro di noi (cf. Rm 8,23) e bramiamo di essere con Cristo (cf. Fil 1,23). Dalla stessa carità siamo spronati a vivere più intensamente per Lui, che per noi è morto e risuscitato (cf. 2 Cor 5,15). E per questo ci sforziamo di essere in tutto graditi al Signore (cf. 2 Cor 5,9) e indossiamo l’armatura di Dio per potere star saldi contro gli agguati del diavolo e resistere nel giorno cattivo (cf. Ef 6,11-13)” (Lumen Gentium, 48). L’innamorato di Cristo vive di questo amore e lo contagia con la credibilità della sua sequela del Maestro.

    Infine, discepoli del Padre nell’“imitatio Christi”, i discepoli del Risorto sono chiamati a essere i testimoni del senso più grande della vita e della storia, trasformati sempre di nuovo dalla fede in Colui che ha compiuto il suo esodo verso il Padre e ci ha aperto le porte del Regno. Ciò esige che siamo pronti ad amare la verità rivelata da Gesù al di sopra di tutto, pronti a pagare il prezzo per essa nella quotidiana fatica che ci relaziona a ciò che è penultimo: solo così si potrà essere suoi testimoni per gli altri. Occorre ritrovare la forza della passione per la verità dell’amore, rivelato e donato da Cristo, in cui si fonda nella maniera più vera la dimensione missionaria della vita ecclesiale. Amare la verità significa avere lo sguardo rivolto al compimento delle promesse di Dio, offerte in Cristo morto e risorto per noi. Essere pronti a pagare il prezzo per la verità in ogni comportamento è la fedeltà richiesta per la credibilità del testimone della speranza che non delude: si tratta di far maturare coscienze adulte, desiderose di piacere a Dio in tutto, e pronte a indicare con la parola e il gesto eloquente la rilevanza del senso più grande della vita e della storia in ogni scelta, perché tutto sia al servizio del Regno che deve venire e della sua pace, fondata sulla giustizia e sul perdono.

    L’incontro col Risorto ci interpella dunque nel profondo del nostro cuore, chiamandoci a vivere sempre di nuovo la paradossale “identità nella contraddizione”, che scaturisce dall’incontro con Lui. Si profilano allora per la nostra vita di evangelizzatori, testimoni del Risorto, alcune domande che aiutino il discernimento spirituale: è Gesù per me il Vivente, fino al punto da poter dire con Paolo “non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me” (Gal 2,20)? Sono un innamorato di Cristo, un prigioniero del Signore, sull’esempio dell’Apostolo? Vivo del continuo e sempre nuovo incontro con Lui, nella Sua Parola, nei Sacramenti della Chiesa, nei legami della carità? Sono testimone della Sua resurrezione? Riconosco a Dio il primato assoluto nella mia vita, volendomi in tutto discepolo dell’Unico, docile alla Sua iniziativa? Vivo il discernimento dei segni di Dio, per compiere l’esodo da me stesso cui Lui mi chiama, sforzandomi di operare sempre nuove scelte di carità e di servizio, motivando nell’amore tutto ciò che faccio? Sono testimone del senso più grande della vita e della storia, pronto a rendere ragione della speranza del Risorto che trasforma il cuore e la vita? Con umiltà e fiducia potremo rispondere a queste domande solo se ci apriremo al primato del dono, che da Gesù Risorto sgorga per ogni creatura, il Suo Spirito effuso in noi, Spirito della vita che vince la morte. Preghiamo perciò dicendo: 

    Cristo,
    immagine radiosa del Padre,
    principe della pace,
    che riconcili Dio con l’uomo
    e l’uomo con Dio
    Parola eterna divenuta carne,
    e carne divinizzata nell’incontro sponsale,
    in Te soltanto
    abbracceremo Dio.
    Tu che Ti sei fatto piccolo
    per lasciarTi afferrare dalla sete
    della nostra conoscenza e del nostro amore,,
    donaci di cercarTi con desiderio,
    di credere in Te nell’oscurità della fede,
    di aspettarTi ancora nell’ardente speranza,
    di amarTi nella libertà
    e nella gioia del cuore.
    Fa’ che non ci lasciamo vincere
    dalla potenza delle tenebre,
    sedurre dallo scintillio
    di ciò che passa.
    Donaci perciò il Tuo Spirito,
    che diventi Egli stesso in noi
    desiderio e fede,
    speranza e umile amore.
    Allora Ti cercheremo, Signore, nella notte,
    vigileremo per Te in ogni tempo,
    e i giorni della nostra vita mortale
    diventeranno come splendida aurora,
    in cui Tu verrai,
    stella chiara del mattino
    per essere finalmente per noi
    il Sole, che non conosce tramonto.
    Amen. Alleluia! 

    IL VANGELO DEL DIO AMORE 

    Perché l’esperienza dell’incontro col Risorto cambia così profondamente l’esistenza dei discepoli? Perché l’incontro con Lui, annunciato dalla fede della Chiesa, ha cambiato e cambia di continuo la vita di chi crede in Lui? La risposta a queste domande è possibile solo se ci si apre all’approfondimento trinitario degli eventi pasquali: il Risorto - ricolmo di Spirito Santo per iniziativa di Dio Padre - effonde lo Spirito della vita su ogni carne. La resurrezione appare in questa luce come l’atto in cui il “Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri padri” (At 3,13) ha agito sul Crocifisso “con potenza secondo lo Spirito di santificazione” (Rm 1,4). In quello stesso atto, Dio dimostra il suo amore per noi (cf. Rm 7,8) e in Cristo risorto ci benedice “con ogni benedizione spirituale”, riversando su di noi “la ricchezza della sua grazia” e suggellandoci col dono dello Spirito Santo (cf. l’inno di Ef 1,314). La presenza del Padre, la sua iniziativa nello Spirito, si offrono come il fondamento e l’origine ultima tanto dell’identità nella contraddizione fra il Crocefisso e il Risorto, quanto dell’identità nella contraddizione da questa scaturente fra gli uomini vecchi della paura e del rinnegamento e gli uomini nuovi della testimonianza fino al dono della vita. Secondo la fede delle origini, Pasqua diventa storia nostra, perché è storia trinitaria di Dio... 

    1. La Pasqua come evento trinitario 

    Nella resurrezione del Figlio vengono capovolte le consegne, che avevano scandito l’evento della Croce (come mostra il ritorno costante, certamente non casuale, del verbo “consegnare” - “paradídomi” nelle narrazioni della passione). Dove aveva trionfato l’infedeltà dell’amore nel dramma del tradimento (cf. Mc 14,10: “Allora Giuda Iscariota, uno dei Dodici, si recò dai sommi sacerdoti, per consegnare loro Gesù” - “ína autón paradói”), trionfa la fedeltà di Dio, che effonde nei nostri cuori lo Spirito della Sua carità (cf. Rm 5,5: “La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato”). Dove i rappresentanti della Legge avevano condannato il bestemmiatore (cf. Mc 15,1: “Al mattino i sommi sacerdoti, con gli anziani, gli scribi e tutto il sinedrio, dopo aver tenuto consiglio, misero in catene Gesù, lo condussero e lo consegnarono a Pilato - parédokan Piláto”), regna ormai la libertà dei figli resi tali nel Figlio (cf. Gal 4,4s: “Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli”). Dove il potere di Cesare aveva condannato il sovversivo (cf. Mc 15,15: Pilato, “dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso - parédoken tòn Iesoún”), trionfa il dono della grazia fattoci nel Risorto, che vince ogni prigionia della vita e del cuore, tutto riferendo all’assoluta sovranità di Dio (cf. 1 Cor 3,22s: “Tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio”).

    Se sulla Croce il Figlio aveva consegnato lo Spirito al Padre entrando nell’esilio dei peccatori, nell’ora pasquale il Padre dona lo Spirito al Figlio, assumendo con Lui e in Lui il mondo intero nella comunione divina: è Dio che ha costituito Gesù Suo Figlio “con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti” (Rm 1,4). Cristo è stato resuscitato, Dio lo ha resuscitato (cf. At 2,24: la formula ritorna di continuo negli Atti). Protagonisti del nuovo inizio del mondo sono il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, datore di vita. La resurrezione è, anzitutto, iniziativa del Padre: è Lui che ci ama al punto da consegnare alla morte il Figlio amato, lasciandolo entrare nell’esilio dei peccatori: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16). “Egli non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi” (Rm 8,32): è questa la follia 8 dell’amore divino (cf. 1Cor 1,1825)! In quanto Dio è il Padre, e il Padre è Colui che ama il Figlio e noi in Lui fino a permetterne l’abbandono sulla Croce, Dio, il Padre, è amore: è la conclusione che la prima lettera di Giovanni trae dalla contemplazione della storia dell’amore trinitario, che è la storia di Pasqua: “Chi non ama, non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo perché noi avessimo la vita per lui. In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati... Dio è amore (‘agápe’): chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” (1Gv 4,810.16).

    Dio, il Padre, è “agápe”: quest’affermazione proietta “nelle profondità divine” lo sguardo della fede. Dalla storia di Colui che ha consegnato il Figlio suo Gesù e lo ha resuscitato alla vita è possibile il passaggio verso la storia eterna del suo amore. L’economia rinvia all’immanenza del mistero: l’evento pasquale è cifra, evocazione densa della vita divina che è rivelata, ma non risolta, nella storia della croce e della resurrezione come storia dell’amore trinitario. A partire dal fatto che nell’economia spetta sempre al Padre l’iniziativa dell’amore, si intuisce come l’amore sia la proprietà caratteristica del Padre, amore sorgivo, fontale: il Padre è il principio, la sorgente e l’origine della vita divina nell’amore. Agostino chiama il Padre “totius Trinitatis principium”. I Padri dell’Oriente lo chiamano “pegè tés agápes”, “sorgente della carità”. Questo ricco linguaggio della tradizione della fede intende sottolineare l’assoluta libertà e gratuità dell’amore del Padre, che solo può suscitare l’evento dell’amore, poiché egli solo può cominciare senza motivo ad amare, anzi ha cominciato da sempre ad amare. Dio ama da sempre e per sempre: senza essere necessitato o causato o motivato dal di fuori, egli ha cominciato nell’eterno ad amare; senza essere necessitato o causato o estrinsecamente motivato egli ama e continuerà per sempre ad amare. Alla sua fedeltà nell’amore egli non verrà mai meno (cf. Sal 89,34). “Dio non ci ama perché siamo buoni e belli, ma ci rende buoni e belli perché ci ama” (San Bernardo). Il Padre è l’eterna provenienza dell’amore, Colui che ama nell’assoluta libertà, da sempre e per sempre libero nell’amore, libero per amare, eterno Amante nella più pura gratuità dell’amore infinito.

    Se nel Padre risiede la sorgività dell’amore, nel Figlio è posta la recettività dell’amore. Il Figlio è accoglienza pura, infinita obbedienza d’amore, gratitudine eterna: egli è l’“amato prima della creazione del mondo” (Gv 17,24), in cui scorre nel tempo la vita divina, sgorgante dalla pienezza del Padre: “Come il Padre ha la vita in se stesso, così ha concesso al Figlio di avere la vita in se stesso” (Gv 5,26). L’eterno Amante si distingue dall’eterno Amato, perché questi procede da Lui per la traboccante pienezza del suo amore: il Figlio è l’altro nell’amore, Colui sul quale riposa il movimento della generosità infinita dell’Amore fontale. L’Amante è principio dell’Amato: l’Amore sorgivo è fonte dell’Amore accogliente, nell’insondabile unità dell’amore eterno. Questo processo per cui il Vivente nell’amore fontale dà origine in quanto principio al Vivente nell’amore recettivo, a Lui indissolubilmente congiunto, è stato chiamato con il termine di generazione: l’atto eterno di questo processo è l’eterna nascita del Figlio, il suo uscire “dal seno del Padre”. In rapporto a Colui che è principio e fonte, Amore eternamente amante, il Figlio è il generato, l’eternamente amato: egli è la Parola del Padre. Il Figlio è l’Amato, l’Unigenito. La recettività dell’amore ha in Dio una consistenza infinita: ricevere l’amore non è meno personalizzante che dare l’amore; lasciarsi amare non è meno amore che l’amare... Anche il ricevere è divino! In quanto Amore pienamente ricettivo, in quanto cioè Figlio amato dal Padre, il Verbo nel processo della sua generazione eterna è il fondamento immanente della comunicazione di sé assolutamente libera e gratuita che Dio realizza creando il mondo e inviando il proprio Figlio fra gli uomini. Solo l’infinita recettività del Figlio, “per mezzo del quale e in vista del quale tutto è stato creato” (Col 1,16) e che si è fatto solidale con i peccatori fino all’esilio della maledizione e della morte, consente l’accoglienza del puro dono dell’essere (creazione del mondo) e dell’esistere pienamente nell’amore, che è la vita nuova nella grazia: nel Verbo ci è offerta la “grazia” del Padre! In questa storia di amore eterno espressione dell’infinità libertà divina si colloca infine lo Spirito Santo, che unisce il Generato al Generante, manifestando come l’incancellabile distinzione dell’amore non sia separazione: egli è la comunione dell’Amante e dell’Amato, che garantisce anche la comunione dell’eterno Amante con le sue creature, non a prescindere dall’Amato, ma proprio in Lui e mediante Lui. Lo Spirito garantisce che l’unità è più forte della distinzione e la gioia eterna è più forte del dolore, provocato dal nonamore delle creature. Grazie allo Spirito l’amore eterno è distinzione e superamento del distinto, unità di morte e di vita a favore della vita! Effuso sul Crocifisso nel giorno di Pasqua, egli riconcilia il Padre con l’Abbandonato del Venerdì Santo e in Lui con la passione del mondo. È lo Spirito dell’unità, della consolazione e della pace in Dio e nel mondo. Il Padre è il principio, il Figlio l’espressione, lo Spirito il loro legame personale nel movimento dell’amore eterno: il Padre è la provenienza dell’amore divino, il Figlio l’eterna sua venuta e l’avvento nel tempo, lo Spirito l’avvenire dell’amore eterno, il custode fedele delle promesse di Dio! Si coglie qui il duplice ruolo dello Spirito nel rapporto fra il Padre e il Figlio: come rispetto alla loro distinzione egli è vincolo personale di comunione, distinto dall’uno e dall’altro, perché dall’uno donato e dall’altro ricevuto, così rispetto alla loro comunione egli è il “condilectus” (Riccardo di S. Vittore), l’amato dell’uno e dell’altro, l’apertura dell’amore trinitario nella pura oblatività all’Altro.

    È per questo che nell’economia della creazione e della salvezza Dio esce da sé sempre nello Spirito, sia alle origini (“Lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque...”: Gen 1,2), sia negli inizi della redenzione (“Lo Spirito Santo scenderà su di te...”: Lc 1,35; cf. Mt 1,20; “E, uscendo dall’acqua vide i cieli aprirsi e lo Spirito discendere su di lui come una colomba”: Mc 1,10 e par.), sia nel pieno compimento di essa (il Crocefisso è resuscitato da Dio “con potenza secondo lo Spirito di santificazione”: Rm 1,4). In questo senso lo Spirito compie la verità dell’amore divino, mostrando come l’amore non è mai chiusura o possessività gelosa, ma apertura, dono, uscita dal cerchio dei due: egli spezza ogni sufficienza possibile del “faccia a faccia”. In Dio vale al livello più alto quanto afferma dell’amore Antoine de Saint-Exupéry: “L’amore non significa stare a guardarsi negli occhi, ma guardare insieme verso la stessa meta”. Perciò, la tradizione della fede riconosce allo Spirito un ruolo creatore e dinamico: Egli è Colui che suscita le differenze, Egli è l’apertura della comunione divina a ciò che non è divino, l’abitazione di Dio là dove Dio è, in un certo senso, “fuori di se stesso”. Lo Spirito è l’estasi di Dio verso il suo “altro”, tanto nell’eternità divina, come nel libero atto creativo e redentivo per gli uomini. Nello Spirito l’Amante e l’Amato si “aprono”, nell’immanenza del mistero e nell’economia della salvezza: in quanto “al di là” del Figlio nell’insondabile unità dell’amore, lo Spirito è anche il luogo personale in cui la storia divina passa in quella umana, e questa in quella...

    L’evento pasquale rivela, così, la “storia” trinitaria di Dio, la Trinità come eterno evento dell’amore, atto purissimo e infinito dell’amore eterno: non solo, cioè, la storia del Padre, del Figlio e dello Spirito, che in esso si rivelano nella fecondità delle loro reciproche relazioni e nella meravigliosa gratuità del loro amore per il mondo, ma anche l’insondabile unità dei Tre che in quell’evento fanno storia, come unità nella incancellabile differenziazione (Croce) e nella profondissima comunione (Pasqua), come unità della storia dell’Amore che consegna l’Amato (il Padre), che si lascia consegnare in assoluta libertà (il Figlio), che, consegnato per rendere possibile l’ingresso divino nell’esilio dei peccatori, è effuso in pienezza nell’ora pasquale per realizzare l’ingresso dei peccatori nella patria dell’amore divino (lo Spirito). L’unità dell’evento pasquale è l’unità dell’evento dell’amore che ama (il Padre), che è amato (il Figlio), che unisce nella libertà e nella pace (lo Spirito: cf 1Gv 4,716). A Pasqua diventa manifesto come l’amore non solo produca e crei l’unità, ma già la presupponga, come esso sia non tanto unione di persone estranee, quanto riunione di persone tra loro estraniatesi per amore del mondo, che dall’esilio dell’estraneazione d’amore ritornano all’originario e insieme nuovo essere uno della patria dell’amore stesso. Peraltro, tutta la missione e l’opera di Gesù di Nazaret si svolgono nel segno della sua unità, preesistente ed eterna, col Padre e con lo Spirito: Colui che riceve e dona lo Spirito (cf. 1,33) è il Figlio di Dio (cf.

    Gv 1,34), uno col Padre (cf. Gv 10,30), che invoca e fonda mediante la sua Pasqua l’unità degli uomini nell’unità trinitaria di Dio: “In quel giorno (quando sarà effuso lo Spirito: cf. vv. 16 e 17) voi saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi... Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui... Se uno mi ama osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,20s.23). “Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato...

    Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me” (Gv 17,21.23).

    Come va intesa quest’unità trinitaria rivelata e comunicata a Pasqua? A partire dalla rivelazione dell’amore Amante, Amato e Unificante nella libertà, che è la storia di Pasqua, si può affermare che il Dio unico è Amore, nell’incancellabile differenziazione trinitaria dell’Amante, dell’Amato e dell’Amore personale. È la via intravista da Agostino: “In verità vedi la Trinità, se vedi l’amore” (De Trinitate, 8, 8, 12). “Ecco sono tre: l’Amante, l’Amato e l’Amore” (ib., 8, 10, 14”). “E non più di tre: uno che ama colui che viene da lui, uno che ama colui da cui viene, e l’amore stesso. E se questo non è niente, in che modo Dio è amore? E se questo non è sostanza, in che modo Dio è sostanza?” (De Trinitate, 6, 5, 7). L’essenza del Dio vivo è dunque il suo amore in eterno movimento di uscita da sé, come Amore amante, di accoglienza di sé, come Amore amato, di ritorno a sé e d’infinita apertura all’altro nella libertà, come Spirito dell’amore trinitario: l’essenza del Dio cristiano è l’amore nel suo processo eterno. La Trinità è la storia eterna dell’amore, eterna bellezza, che suscita e assume e pervade la storia del mondo: “Nella Trinità - afferma ancora Agostino - si trova la fonte suprema di tutte le cose, la bellezza perfetta, il gaudio completo” (De Trinitate, VI, 10, 12). L’evento pasquale non rivela altrimenti l’essenza divina che come l’evento eterno dell’amore fra i Tre e del loro amore per noi. L’unità di Dio è dunque l’unità del suo amore essenziale, che esiste eternamente come Amore amante, Amore amato e Amore personale, o, se si vuole, come provenienza, venuta e avvenire eterni dell’amore, origine, accoglienza e dono di esso, paternità, filiazione e apertura nella libertà, Padre, Figlio e Spirito Santo. 

    2. Il volto del Dio Amore e l’annuncio della buona novella 

    A partire dal suo operare per l’uomo nella creazione e nella redenzione il Dio uno, Trinità vivente, può dunque essere contemplato nella profondità del suo essere Colui che ama nella libertà, il Diopernoi, il Dioconnoi. In quanto è Colui che ama, Dio è Colui che tutto conosce: “Ubi amor, ibi oculus” (Riccardo di S. Vittore). Nulla è nascosto all’Amore! È questo il mistero dell’onniscienza divina, che non è sapere neutrale, distaccato, ma è il sapere in senso biblico, la conoscenza amorosa e perciò attenta e impegnata, che è stata rivelata in pienezza nel rapporto fra il Figlio nella carne e i suoi: “Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e offro la vita per le pecore” (Gv 10,14s). L’onniscienza divina, così pensata, non fa concorrenza alla libertà della creatura, come la conoscenza veramente amorosa non toglie mai la libertà dell’amato! È in questa luce che va letta anche l’onnipotenza divina: Colui che è assoluta pienezza di vita può tutto nell’amore! Nell’amore egli tutto ordina al bene: è il mistero della sua provvidenza! Proprio perché il suo infinito potere è tale nell’amore, e l’amore è tale nella libertà, Dio non esercita mai il suo potere provvidente contro la libertà della creatura: piuttosto, egli accetta di apparire impotente o sordo ai gemiti dei morenti! Colui che vuole che “tutti siano salvati e giungano alla conoscenza della verità” (1Tm 2,4), non salverà nessuno contro la sua volontà: “Chi ci ha creati senza di noi, non ci salverà senza di noi” (S. Agostino). È qui che trova una qualche illuminazione anche la sua apparentemente intollerabile tolleranza del male: “Si Deus iustus, unde malum?” “Se c’è un Dio giusto, perché il male?”. Proprio perché giusto, il Dio che ama nella libertà ha accettato il rischio dell’amore, la possibilità del rifiuto, con tutte le conseguenze che ne derivano sull’intero creato (cf. Rm 8,20.22: “Sottomessa alla caducità non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa ... tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto”). Il male del mondo è paradossalmente il segno che l’onnipotenza divina è amore nella libertà, capacità di infinito rispetto e di attiva “compassione”, di generosità infinita e di attiva “auto-limitazione”: “La compassione divina non sottrae la creatura al dolore, ma non l’abbandona e l’assiste fino alla fine, anche senza mostrarsi” (Ignazio Silone).

    In forza della stessa pienezza di vita e d’amore, il Dio uno può essere considerato l’al di là della nostra finitudine, la negazione delle nostre negazioni: egli è la storia eterna dell’amore, proprio perché in Lui non si dà, come in noi, la storia marcata dai limiti dello spazio e del tempo.

    Egli è al di là dello spazio: non perché sia spazialmente al di là, ma perché abbraccia in sé ogni cosa, infinitamente sovrastando su tutto ed immanendo a tutto. È il mistero della sua onnipresenza, come presenza dell’amore divino ad ogni luogo, in ogni tempo. “Se in una notte oscura, su di una pietra nera c’è una formica nera, Dio la vede e la ama!” (proverbio arabo). Nell’amore Dio è l’immenso! Questa onnipresenza dell’amore divino non può non essere ordinata alla suprema presenza divina nella storia, che è la presenza personale del Figlio di Dio incarnato: nell’Amato, fatto uomo per noi, è posta in radice la recettività dell’amore da parte di ogni creatura, che la rende aperta all’onnipresenza divina amante. Perciò, Ignazio di Loyola può scrivere nella sua Contemplatio ad obtinendum amorem (nella quarta settimana degli Esercizi), con riferimento alla vita divina e alla sua partecipazione alle creature: “L’amore consiste nella comunicazione fra le due parti, ossia quando l’amante dà e comunica all’amato quel che possiede o di quel che possiede o può, e così viceversa l’amato all’amante” (E 231).

    Il Dio uno è anche al di là del tempo: non perché egli sia temporalmente fuori del tempo, ma perché abbraccia in sé ogni divenire, come eterna identità del principio e della fine di tutte le cose, “alfa” e “omega” del creato (cf. Is 41,4; 44,6; 48,12; ed anche Ap 1,17). È il mistero della sua eternità, come perenne presenzialità della vita divina, e, in categorie bibliche, come fedeltà del suo amore a ogni “oggi” dell’amore. In questo senso va compresa anche l’immutabilità divina: essa non è l’indifferenza di un “Deus otiosus”, né la stasi di un “Deus mortuus”, ma il dinamismo perenne dell’amore del Dio vivente, sempre uguale a se stesso e sempre nuovo, la fedeltà assoluta alle Sue promesse. Dio non cambia, perché ama da sempre, per sempre e in questo “oggi”: Dio è immutabile nella fedeltà del suo amore! Ma in questa stessa libera fedeltà egli è sempre nuovo nell’amore! “Un uomo camminava sulla riva del mare: voltandosi vide sulla sabbia, accanto alle sue, le orme di un altro. Pensò: Sono le orme di Dio. Guardando però più lontano vide le orme di un solo viandante.

    Pensò: Quello è il tempo in cui Dio mi ha abbandonato! Ma Dio gli disse: No, quello è il tempo, in cui io ti ho portato in braccio...” (da un racconto popolare).

    Questi vari aspetti dell’amore del Dio vivo, rivelato dal Figlio venuto nella carne, costituiscono l’oggetto della buona novella che i cristiani devono annunciare al mondo.

    Evangelizzare è parlare di Dio raccontando il Suo amore, così come esso si è narrato a noi in Gesù Cristo. Di fronte a questo annuncio sempre nuovo, la risposta del credente non può che essere quella di celebrare la gloria di un così grande amore: è questo il senso profondo della confessione dell’unità e unicità di Dio nella tradizione biblica. Questa confessione che unisce i cristiani a Israele e all’Islam è molto più che la professione di un’idea astratta: essa è un atto di adorazione e insieme un impegno di vita: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze” (Dt 6,4). Crede nel Dio uno chi entra nel mistero della sua unità e s’impegna a far sì che tutti gli uomini vi entrino nella giustizia e nella pace: chi crede al vangelo e credendo s’impegna ad annunciarlo. E questo diventa concretamente possibile per la fede cristiana a partire dal momento in cui è la stessa unità divina ad aprirsi a noi, offrendosi come unità dell’Amore amante, dell’Amore amato e dell’Amore personale, che unisce Dio e il mondo nella libertà. È qui che la confessione monoteistica esige coerentemente di divenire trinitaria, confessione del Dio uno come Amore, che include la distinzione e si apre all’altro da sé per assumerlo nella circolazione dell’amore eterno. Confessa l’unità di Dio chi entra nell’unità di Dio: ma entra nell’unità divina chi si lascia coinvolgere dalla storia eterna dell’amore.

    È così che la radicalizzazione del monoteismo ebraico viene a coincidere con la confessione trinitaria cristiana...

    La contemplazione del mistero santo diviene allora sfida alla nostra libertà e domanda alla nostra fede e al nostro amore: in particolare, a partire dalla buona novella del Dio amore è possibile verificare il contenuto e lo stile della nostra azione di evangelizzatori. Quale posto riconosco nella mia vita all’esperienza della Trinità Santa, rivelata a Pasqua, per lasciarmi plasmare dall’amore unico dei Tre, che mi libera e mi rende capace di ricominciare sempre di nuovo nel dono di me stesso? Come confesso nella parola e nella vita la fede trinitaria, che è il Vangelo del Dio Amore, così come si è rivelato nell’evento trinitario di Pasqua? Confessare la fede nel Dio vivo è in realtà proclamarne la bellezza e annunciarne il dono: il racconto suscita racconto; la “sanctae Trinitatis relata narratio” (Concilio XI di Toledo: DS 528), la narrazione dell’amore del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, in cui abbiamo creduto sulla parola dei testimoni delle origini, trasmessa nella vivente tradizione ecclesiale (“relata narratio”), passa dalle labbra alla vita. È lo sforzo di comunicazione del Vangelo di cui vorrebbe essere esempio il testo che segue, con cui ho provato a evidenziare come confessare è narrare, ed evangelizzare il Dio cristiano è raccontarne l’amore: 

    Credo in Te, Padre,
    Dio di Gesù Cristo,
    Dio dei nostri Padri e nostro Dio:
    Tu, che tanto hai amato il mondo Gv 3,16
    da non risparmiare
    il Tuo Figlio Unigenito Rm 8,32
    e da consegnarlo per i peccatori,
    sei il Dio, che è Amore. 1 Gv 4,8.16
    Tu sei il Principio senza principio dell’Amore,
    Tu che ami nella pura gratuità,
    per la gioia irradiante di amare.
    Tu sei l’Amore che eternamente inizia,
    la sorgente eterna da cui scaturisce
    ogni dono perfetto. Gc 1,17
    Ti ci hai fatti per Te,
    imprimendo in noi la nostalgia del Tuo Amore,
    e contagiandoci la Tua carità Rm 5,5
    per dare pace al nostro cuore inquieto.
    Credo in Te, Signore Gesù Cristo,
    Figlio eternamente amato, Mc 1,11
    mandato nel mondo per riconciliare Rm 5,10
    i peccatori col Padre. 2 Cor 5,19
    Tu sei la pura accoglienza dell’Amore, Gv 17,23
    Tu che ami nella gratitudine infinita,
    e ci insegni che anche il ricevere è divino,
    e il lasciarsi amare non meno divino che l’amare.
    Tu sei la Parola eterna uscita dal Silenzio Gv 1,11ss.
    nel dialogo senza fine dell’Amore,
    l’Amato che tutto riceve e tutto dona. Gv 20,21
    I giorni della Tua carne, Eb 5,7ss.
    totalmente vissuti in obbedienza al Padre,
    il silenzio di Nazaret, la primavera di Galilea,
    il viaggio a Gerusalemme,
    la storia della passione,
    la vita nuova della Pasqua di Resurrezione,
    ci contagiano il grazie dell’amore,
    e fanno di noi, nella sequela di Te,
    coloro che hanno creduto all’Amore, 1 Gv 4,16
    e vivono nell’attesa della Tua venuta. 1 Cor 11,26
    Credo in Te, Spirito Santo,
    Signore e datore di vita,
    che Ti libravi sulle acque Gen 2,1
    della prima creazione,
    e scendesti sulla Vergine accogliente Lc 1,35
    e sulle acque della nuova creazione. Mc 1,10 e par.
    Tu sei il vincolo della carità eterna,
    l’unità e la pace
    dell’Amato e dell’Amante,
    nel dialogo eterno dell’Amore.
    Tu sei l’estasi e il dono di Dio,
    Colui in cui l’amore infinito
    si apre nella libertà
    per suscitare e contagiare amore.
    La Tua presenza ci fa Chiesa, At 1,8
    popolo della carità, At 2,1ss.
    unità che è segno e profezia
    per l’unità del mondo.
    Tu ci fai Chiesa della libertà, 2 Cor 3,17
    aperti al nuovo
    e attenti alla meravigliosa varietà
    da Te suscitata nell’amore. 1 Cor 12
    Tu sei in noi ardente speranza, Rm 8
    Tu che unisci il tempo e l’eterno,
    la Chiesa pellegrina e la Chiesa celeste,
    Tu che apri il cuore di Dio
    all’accoglienza dei senza Dio,
    e il cuore di noi, poveri e peccatori,
    al dono dell’Amore, che non conosce tramonto.
    In Te ci è data l’acqua della vita, Gv 7,37-39
    in Te il pane del cielo, Gv 6,63
    in Te il perdono dei peccati Gv 20,22s.
    in Te ci è anticipata e promessa
    la gioia del secolo a venire. 2 Cor 1,22
    Credo in Te, unico Dio d’Amore,
    eterno Amante, eterno Amato,
    eterna unità e libertà dell’Amore.
    In Te vivo e riposo,
    donandoti il mio cuore,
    e chiedendoti di nascondermi in Te Col 3,3
    e di abitare in me. Amen! Gv 14,23 

    (Alla Consulta Regionale per la Nuova Evangelizzazione della Conferenza Episcopale Abruzzese Molisana, Castelpetroso, Campobasso, 24 Ottobre 2011)

     


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