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    Custodire, ossia "essere attenti", "maneggiare con cura". All’occorrenza "mettere in salvo", a costo di ogni sacrificio. Nel grembo dei significati che convergono nel "custodire", si armonizzano le virtù, apparentemente distanti, della fortezza e della tenerezza. Se si separano, sono guai seri. La forza diventa estranea e scostante, persino quando protegge. La tenerezza diventa svenevole e inaffidabile, anche quando ci consola. Non si può separare la custodia dalla fortezza. Ma senza la tenerezza, la custodia non può raggiungere la sua perfezione.
    La meditazione sulla "custodia", che ha costituito il nerbo della meditazione di Papa Francesco, nel commento alla Parola di Dio della sua messa inaugurale, ha scandito i punti fermi della "custodia" cristiana, che apprende da Dio la sua arte. L’icona attraverso la quale siamo stati istruiti alla percezione di questa virtù è quella di san Giuseppe, che custodisce Maria e Gesù come tesori preziosi, mettendoli in salvo per noi.
    Sono i tesori della Chiesa, la Madre e il Figlio, che egli continua a custodire. La musica e il ritmo della meditazione del Papa hanno adottato l’andamento dell’inno, dove la ripetizione della parola e dell’immagine creano una cadenza che si arricchisce a ogni strofa, nell’intensità melodica della ripetizione. Un po’ come accade nel celebre inno di agape di Paolo (prima lettera ai Corinzi, c. 13): «Se non ho agape, non sono nulla». Nella stessa linea, se non sono lieto di custodire i tesori che Dio mi affida, non rimarrà niente neppure di me. Niente del ministero ecclesiale, niente del legame dell’uomo e della donna, niente di questa «bella d’erbe famiglia e di animali», che potremmo felicemente abitare come la nostra casa comune.
    Non sembri un orizzonte sentimentale, un’esortazione di profilo minore. Non lo è affatto. Il Papa ha vistosamente applicato anzitutto al proprio ministero – e dunque ad ogni ministero nella Chiesa – l’imperativo della custodia, nel cui guscio si lascia racchiudere tutta la biografia di san Giuseppe a noi nota. Quando il Papa Francesco dice che san Giuseppe è «custode», perché «sa ascoltare Dio, si lascia guidare dalla sua volontà, e proprio per questo è ancora più sensibile alle persone che gli sono affidate, sa leggere con realismo gli avvenimenti, è attento a ciò che lo circonda, e sa prendere le decisioni più sagge», è di certo al suo ministero che guarda, in primo luogo. Ma quando dice che «in fondo, tutto è affidato alla custodia dell’uomo, ed è una responsabilità che ci riguarda tutti», comprendiamo che ci sta aprendo l’orizzonte di un’antropologia che l’Occidente sta smarrendo. E di questo smarrimento, rischia di contagiare il pianeta. Quando l’uomo viene meno a questa responsabilità, ossia «quando non ci prendiamo cura del creato e dei fratelli», allora «trova spazio la distruzione e il cuore si inaridisce».
    «Dov’è tuo fratello?», chiese il Signore. «Non lo so», rispose Caino, quasi offeso. E l’aveva già ucciso. Alla viltà della dissimulazione, aggiunse l’arroganza. «Sono forse il guardiano di mio fratello?» (Genesi, 4, 9). L’odio, l’invidia, la superbia, ha esclamato il Papa «sporcano la vita!». Quando la custodia non è più una virtù condivisa, l’invidia e la superbia appaiono qualità desiderabili. L’odio deve seguire, dissimulato in punta di diritto: "la fraternità non è di nostra competenza" (in varie versioni, anche meno eleganti, il teorema circola impudentemente anche ai piani alti della politica e dell’economia). Un’interpretazione diffusa dei "diritti umani", che sono nati come figli della custodia responsabile, mira a trasformarli in padri dell’irresponsabilità autorizzata. Li pone così in contraddizione con se stessi, condannandoci all’infelicità. La custodia di cui ha parlato il Papa Francesco, non è soltanto l’esemplare trasparenza del ministero che punta dritto all’esercizio della fortezza e della tenerezza di Dio. La custodia che impariamo da Dio appare ormai come il nome più esatto del legame sociale: la sua questione di vita o di morte. La custodia è accorta: sottrae i figli dell’uomo e della donna a Erode, anche quando egli si mostra interessato al loro futuro. Anzi, soprattutto allora.

    (Avvenire, 20 marzo 2013)

     


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