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    Il mattino,

    tempo di benedizione

    Armido Rizzi


    Tempi e preghiere nella tradizione cristiana

    «Benedirò il Signore in ogni tempo» (Sal 34): per l'uomo autenticamente religioso ogni tempo è tempo di preghiera; e tanto più per il cristiano, la cui fede, liberatasi dai vincoli naturalistici, non conosce riferimenti spaziali e temporali che ne circoscrivano il rapporto con Dio. Da quando è scoccata l'"ora" di Gesù, gli adoratori del Padre non hanno più luoghi esclusivi per il culto (Gv 4,21-24); quanto ai tempi, la sua parola li raggiunge, nel Figlio, in qualsiasi momento della giornata: al mattino come Maria di Magdala (Gv 20,1.11ss.), a mezzogiorno come la samaritana (Gv 4,6ss.), a metà pomeriggio come i primi discepoli (Gv 1,35ss.), di notte come Nicodemo (Gv 3, lss.). Tutto il tempo è ormai tempo cristologico, abitato dalla parola di giudizio e di grazia che viene da Dio e disponibile alle parole di lode o di domanda che salgono dal cuore dell'uomo.
    Tuttavia, diversamente da quanto pensava la teologia della secolarizzazione, non si può cancellare dalla fede ogni traccia di radicazione naturale; vi sono modi e ritmi che permeano l'intera esistenza dell'uomo, dunque anche la sua esistenza di fede. Le feste di Israele, memoriale degli interventi storici di Jahvé, si sono distese nei solchi della temporalità naturale; e lo stesso anno liturgico cristiano ha mantenuto questa scansione, dove l'irrepetibilità dell'atto divino (incarnazione, passione, risurrezione, pentecoste) si modula sulla ripetizione dei movimenti stagionali.
    Ma non è solo l'ampio respiro del ciclo annuale a inalveare la memoria celebrativa; anche il più breve spazio della giornata ha fatto da cornice alla lode e alla supplica del credente: già il pio israelita pregava mattino, mezzogiorno e sera, accompagnando con la professione di fede (lo Shema Israel: cf. Dt 6,4ss.) il sacrificio mattutino e serale nel tempio di Gerusalemme. E sempre a Gerusalemme ritroviamo, nei primi secoli della tradizione cristiana, un ufficio feriale articolato in quattro "ore": mattino e sera, ore di sesta e nona durante il giorno, con alternanza di salmi, cantici e orazioni.
    Ma il culto cristiano è ormai decentrato: e «intorno a ogni cattedrale si consolida presto un ordinamento preciso di celebrazioni cicliche il cui numero varia da chiesa a chiesa e secondo il periodo» [1]. In Occidente finirà per prevalere, attorno ai sec. IV-V, lo schema romano (accolto da san Benedetto), che attraverso varie peripezie e numerose riforme è giunto fino ai nostri giorni. Con lo schema non è però passato integralmente lo spirito che lo animava; soprattutto due aspetti fondamentali ne hanno sofferto: il carattere universale, che faceva delle Ore la preghiera di tutti i fedeli, e il loro collegamento con i rispettivi momenti della giornata. Il primo è andato perduto con la riduzione dell'Ufficio a preghiera dei "chierici", sia secolari che regolari; il secondo si è stemperato (almeno nella recita individuale) fino a portare alla concentrazione della recita di tutto l'Ufficio in una stessa ora del giorno, o comunque a spostarne a piacere le Ore al di fuori del loro ambito. È soltanto con la Institutio Generalis Liturgiae Horarum, del 1970, che le due dimensioni vengono ricuperate: la liturgia delle Ore vi viene infatti intesa e promossa come «preghiera pubblica e comune del popolo di Dio», avente lo scopo di «santificare il corso del giorno e della notte» (1,10); e tutta la preghiera viene ristrutturata in conformità a questi due principi.
    Non intendiamo, in queste pagine, tessere l'elogio della preghiera delle Ore nelle sue formule ufficiali, né raccomandarne l'uso letterale. Il nostro intento è più elementare e più fondamentale a un tempo: ricuperare l'intuizione teologica e spirituale che sta alla base di quella pratica, e che portava ancora un Bonhoeffer, pur così alieno dalla tradizione monastica, a impostare l'esistenza di una comunità cristiana sui tempi della preghiera quotidiana [2]. Quell'intuizione consiste nella penetrazione spontanea del significato simbolico della giornata.

    La giornata, simbolo della vita umana

    Diciamo che l'esistenza (individuale e sociale) dell'uomo trova nel distendersi della giornata un suo simbolo privilegiato, che è insieme reale e naturale. Per simbolo reale intendiamo quello che appartiene alla stessa categoria di enti della realtà simboleggiata, così che la funzione simbolica non consiste nel passaggio da un significato letterale a uno traslato, ma nella dilatazione e universalizzazione del primo, nel rappresentare l'intenzionalità di un tutto attraverso la sua realizzazione in una parte. Così, una gemma o un filo d'erba o un albero sono simbolo reale della natura nel suo complesso, perché in essi pulsa, si compie in miniatura quello stesso soffio misterioso che inabita e riempie l'universo dei viventi. O ancora, possiamo dire che Oscar Romero è simbolo reale della chiesa latino-americana schieratasi con i poveri di quel continente, perché il suo assassinio esprime la condizione di martirio che quella chiesa si trova oggi a vivere in molte sue componenti.
    Ma si parlava pure di simbolo naturale. Ed è quello la cui funzione simbolica non ha bisogno di convenzioni sociolinguistiche per essere riconosciuta, ma si impone come da sé, per una sua potenza intrinseca di significazione. Si ripensi alla gemma o all'albero, esemplari anche in questo caso. In generale si può dire che simbolismo reale e simbolismo naturale tendono a coestendersi, essendo le due facce funzionali di una stessa situazione semantica: un simbolo è reale rispetto a ciò che esso significa, è naturale rispetto al soggetto di fronte a cui significa, e che ne coglie la valenza simbolica. E facile comprendere come sia lo stesso rapporto intrinseco parte-tutto a renderne possibile la comprensione anche senza accorgimenti e convenzioni apposite.
    La giornata è simbolo reale dell'esistenza perché disegna su scala minima la parabola della vita umana; e ne è il simbolo naturale, perché questo disegno si esibisce all'intelligenza dell'uomo con la spontaneità di un'evidenza percettiva. Ne è testimonio il linguaggio corrente, dove formule come "il tramonto di una civiltà", "il mattino della vita", "spunta un mondo nuovo", ecc. si formano e si sedimentano con notevole facilità. Tuttavia, relegando queste formule al rango di puri artifici linguistici, una mentalità diffusa e sempre più vittoriosa minaccia di spegnere, in questo come in altri ambiti, la competenza simbolica di base che è come inscritta nella nostra corporalità, riducendo la giornata a vuoto contenitore che attende di essere riempito di una qualsiasi merce, pur di garantire un saldo margine di sicurezza economica o pur di tamponare l'horror vacui.
    Meditare sul significato simbolico della giornata è dunque prima di tutto ritrovare una parte dell'umano che è in noi. Il simbolismo della giornata e dei suoi tempi si istituisce infatti in primo luogo a un livello antropologico generale, che non implica una lettura strettamente religiosa, ma soltanto lo sfondamento della lettura pragmatistica fattasi abituale, secondo cui il mondo appartiene integralmente all'uomo, e il ricupero della dimensione di appartenenza dell'uomo al mondo.
    Ma a sua volta su questa dimensione, che potremmo chiamare naturalistica, spunta come dono e proposta quel nuovo livello di significato che accede al teologico: se l'uomo appartiene al mondo non meno di quanto il mondo appartenga all'uomo, questa reciprocità è una fatale e gratuita combinazione dietro cui non v'è più nulla da cercare, oppure è la manifestazione di un ordine pensato e voluto da quella sponda che è oltre il mondo e l'uomo, e che chiamiamo la Trascendenza? Qui, nella risposta a quest'interrogativo, la potenza simbolica della giornata supera se stessa per giungere alla soglia del significato ultimo; e la riflessione, da analisi fenomenologica si fa meditazione teologica e spirituale.
    Ogni tempo della giornata ha dunque una doppia simbolicità: antropologica e teologica. La prima ha i caratteri della necessità: ogni mattino l'uomo si risveglia al mondo e si appresta a intervenire sul mondo; ogni sera l'uomo si concede al sonno, che è insieme soppressione di attività (riposo) e sospensione di relazione (sonno come incoscienza). Ma questi atti e gesti la cui simbolicità naturale, per quanto negletta, non può essere interamente repressa, ripropongono - ogni mattina e ogni sera - un valore simbolico ulteriore, che emerge dal campo della necessità e oltre di esso, e si offre alla decisione della libertà: qual'è il senso di questo svegliarsi e di questo lavorare, e poi di questo abbandonarsi al riposo e al sonno? I tempi della giornata assurgono così a momenti forti di quella decisione di fronte all'esistenza che è l'atto elementare della fede.
    Nell'ottica del presente quaderno ci limiteremo a esaminare quel tempo che è portatore della benedizione: il mattino. La lunga premessa era necessaria per dare alla nostra meditazione sul mattino un contesto, per quanto minimo, in chiave sia storica che metodologica; e per insinuare l'opportunità di continuare, in occasioni e sedi diverse, la riflessione spirituale sugli altri tempi della giornata.

    la grazia del mattino: la benedizione

    Livello antropologico

    Nel primo chiarore del giorno
    vestite di luce e silenzio 
    le cose riemergon dal buio
    com'era al principio del mondo.

    Come canta quest'inno liturgico, il mattino è il quotidiano avvento della luce e, in essa, il quotidiano rinascere delle cose. Non è certamente un semplice espediente retorico immaginare e rappresentare il caos come notte, tempo e luogo di tenebre. Private della luce, le cose perdono forma e colore, ricadono nell'indistinzione, vengono inghiottite in quel puro e muto esistere che tutte le pareggia, riducendole a nude presenze. Di notte non si possono incontrare le cose; ci si scontra con esse, si urtano. E come se non avessero più identità da vivere e da esibire; ciò che di esse rimane è soltanto l'inerzia, la resistenza che oppongono al movimento. Perfino le azioni dell'uomo sembrano, per quanto illusoriamente, perdere figura e qualità: la notte è da sempre il tempo del crimine, che cerca le tenebre per nascondersi.
    Ed ecco che la luce, avvolgendo le cose e come penetrandole, le ridisegna nello spazio della realtà viva, variegata, parlante; esse ridiventano ogni mattino "mondo": luogo abitabile e colloquiale, popolato di volti e di voci. Per alcuni filosofi e teologi medioevali la luce era, e non solo in metafora, l'essere delle cose: quell'elemento primordiale che è insieme comune e differenziante, che dando a ognuna la sua unità la rende sorella di tutte ma inconfondibile in mezzo a tutte.
    Ma l'identità delle cose nella luminosità del giorno è tale per l'uomo, non per loro stesse. Forme e colori esistono per gli occhi; che non vuol dire soltanto in funzione degli occhi ma dinnanzi a loro, bisognosi della loro attenzione per essere se stessi. Ora, anche gli occhi si riaprono di mattina. Tra la sveglia dell'uomo e la luce delle cose c'è una sincronia, in cui si manifesta la saggezza ontologica della "madre natura": il mattino è, insieme, il riaccendersi della luce e dello sguardo, l'attivarsi della loro nuzialità, che celebra i suoi amori non con la complicità delle ore notturne ma nel chiaro e spazioso distendersi del tempo diurno.
    Guardiamoci, ancora una volta, dal vedere in queste considerazioni una semplice sollecitazione retorica. Il gioco delle immagini non è che l'increspatura linguistica della sostanziale poeticità dell'evento mattinale. L'aprire gli occhi di mattina non è come aprirli nel contesto ludico di chi gioca a mosca-cieca o nel contesto sperimentale
    di chi si sottopone a un'analisi ottica. Con gli occhi, è la coscienza che, ogni mattina, si riapre. Dormire è essere abbandonati dalla coscienza, regredire a una condizione che rispecchia sul versante umano l'esistenza delle cose al buio: l'incoscienza come riduzione dell'uomo a pura datità, a presenza impersonale, indifferenziata, interscambiabile. La stessa iperattività notturna dell'inconscio è come il gorgogliare delle acque primordiali nella condizione di caos, incapace di darsi da sé una logica e un senso.
    Svegliarsi è "riprendere coscienza", come diciamo con una formula un po' presuntuosa; con più proprietà, svegliarsi è "essere ripresi" dalla coscienza, esserne di nuovo investiti, e poter riprendere contatto con se stessi e con il mondo. Con se stessi, perché la coscienza è presenza di sé a sé in quel radicale "sentirsi" che sempre • ci accompagna da svegli, non come un accessorio del nostro essere uomini, ma come la sua più elementare costituzione. Contatto con il mondo perché la coscienza è conoscenza, cioè, secondo una suggestiva etimologia, cum-nascentia, un rinascere insieme con le cose. È davanti all'uomo sveglio, davanti alla coscienza, che le cose sono se stesse. La luce le veste per offrirle allo sguardo; e lo sguardo non è soltanto una pupilla su cui si imprimono le sagome, ma un'anima che le accoglie, le lavora, le pronuncia e, pronunciandole, le rende cose. Solo in quanto accedono alla luce del linguaggio le cose raggiungono la loro identità preparata dalla luce solare [3]. E il mattino porta a un tempo l'una e l'altra: alba del cosmo e soglia dell'umano.
    Potremmo dire che l'atto di spalancare la finestra è il simbolo gestuale di quest'incontro: dal chiuso e dal buio della stanza l'uomo si affaccia al mondo, e dal silenzio immoto le cose di mettono a parlargli:

    Vedi come ogni mattino
    si apre la tua finestra 
    perché entri il sole
    oggi sono nati insieme
    un poeta e un fiore [4].

    Livello spirituale

    Lode alla creazione. Sono nati: il mattino è il tempo della nascita. Ma c'è chi, come Giobbe, maledice il giorno che l'ha visto nascere, e gli augura l'annientamento, l'inghiottimento nel nulla, nelle tenebre (Gb 3,1ss.).
    Giobbe non è un isolato: la straziante solitudine della sua stuoia di lebbroso è diventata luogo di una popolazione invisibile, incontro ideale di tutti coloro che, come lui, vivono il silenzio di Dio nel decomporsi del corpo e nel deserto dell'anima [5]. La luce che, ogni mattina, avvolge le cose e le dona agli occhi, non è la loro verità, ma l'illusione di cui esse sono ignare portatrici e l'uomo innocente o complice destinatario. La verità delle cose è nella loro più profonda assenza d iverità: la luce è un manto, la notte il cuore. E il silenzio che le veste non è la stupita contemplazione di un mistero, ma la nuda manifestazione di un'assenza: il silenzio degli spazi, l'eclissi di Dio. Allora svegliarsi, ritrovare le cose, è affrontare un nuovo tratto - la giornata - di quella galleria oscura che chiamiamo la vita.
    Mettersi nella pelle di Giobbe può essere una finzione letteraria di dubbio gusto; ma ascoltare le sue ragioni è un passo necessario, e non soltanto per riguardo e partecipazione alla sua sofferenza: è necessario come metodo di approccio alla verità del mondo. La poesia delle cose è una promessa; ma non possiamo dire, ascoltandole, se essa sarà mantenuta. Passare immediatamente dalla poesia alla verità è proprio di quelle epoche che guardano spontaneamente il mondo con occhi religiosi; non è il caso della nostra.
    Noi siamo, semmai, spontaneamente sintonizzati sul gemito di Giobbe: le cose non cantano né ci incantano: siamo gli uomini del "disincanto" del mondo. Molte ragioni convergono in questo disincanto: da quelle di carattere storico epocale - primato della tecnologia, declino dell'occidente, minaccia atomica - a quella di valenza metafisica, che in esso vedono non una congiuntura, per quanto ampia, ma la condizione stessa dell'uomo nel mondo.
    Ora, la fede biblica, nella sua figura matura, non si riconosce né nella spontaneità delle epoche organicamente religiose, né in uno sguardo in cui la letteratura disincantata della realtà s'è fatta automatismo. La fede è come in bilico tra due possibilità: accogliere la poesia del mattino come epifania del segreto del mondo oppure aderire senza riserve al grido di Giobbe o alle sue riedizioni più distaccate ma non meno perentorie. Cioè: affermarsi o negarsi; la fede non è originariamente disposizione, ma atto.
    La fede si afferma quando afferma il mondo come benedizione, come creazione. La creazione è la bontà delle cose come loro verità è la luce che le tesse da dentro, è il "si" della promessa che le fa essere. Bontà e luce e poesia di ogni mattino sono allora un volto sincero, da cui traspare il profondo, non una maschera che copre un vuoto. E gli occhi che lo contemplano non sono lo sguardo trasognato del fanciullo-poeta, cosi pronto a offuscarsi nello sguardo rassegnato dell'invecchiato precoce; sono gli occhi di quell'adulto ridiventato bambino che è l'uomo evangelico. Dentro la coscienza elementare che si desta alle cose la fede accende la coscienza spirituale, che accoglie le cose come benedizione.
    Mattino tempo di benedizione, dunque. Dove l'espressione "tempo di" connota il fatto radicale, il dono del mondo come creazione, e l'appello radicale, la lode che vi corrisponde [6]. In ogni istante Dio crea il mondo donandolo all'uomo; in ogni istante l'uomo è chiamato a riconoscerlo e ad accoglierlo. Ma quest'ininterrotta relazione ha nella puntualità di ogni mattino il suo simbolo reale e naturale: perché l'avvento della luce solare dice la creazione che porta, e lo svegliarsi dell'uomo dice il riaccendersi della fede che la riconosce e della lode che la canta. C'è una grazia dei diversi tempi, che, come la grazia sacramentale, annoda efficacia e significazione. La grazia del mattino è di portare la creazione in quanto la significa come origine, ne esprime la continua novità; ed è di innalzare la lode del cuore credente, in quanto significa il carattere attuale della fede, il suo ricominciare ogni giorno.
    È superfluo ricordare che questa riattivazione quotidiana non può avere l'intensità dirimente di una opzione fondamentale tra fede e non-fede in assoluto; come ogni atto umano, la fede si inscrive dentro una storia personale, che, se non è un rettilineo, non è neppure una corsa a ostacoli, ma ha l'andamento di un cammino dove continuità e rottura sono ugualmente presenti. La lotta quotidiana della fede non ha normalmente come alternativa l'ateismo teorico né la disperazione ragionata di Giobbe; è piuttosto la scelta tra il grigiore e la nitidezza, tra il dormiveglia del "lasciarsi vivere" (la "tiepidezza" di cui parlano molti autori spirituali) e la veglia del cuore attento e alacre (il "fervore" nella stessa tradizione).
    L'inclinazione al torpore si fa più insistente nell'età di mezzo, quando il reclinare degli spazi di giovinezza lascia libero lo spazio interiore al malinconico "realismo" del quotidiano. Dal cuore inaridito non partono accuse esplicite a Dio; è l'imbroglio della vita a essere accusato, sono gli altri, le circostanze, anche se stessi, a diventare causa e oggetto di un lamento che fa di noi dei Giobbe in formato ridotto (quando non in caricatura).

    È un intorpidimento, una sclerosi, un indurimento dell'essere, un pessimismo oppure un impeto di collera che isola, trincera o divide: la disperazione di quelli che sono o si credono imbrogliati. Rivedo quell'uomo della mia età che scoppia in singhiozzi, il giorno del suo compleanno: «Guardo indietro e non vedo che vuoto». La tentazione di dare le dimissioni, di divorziare dalla propria vita diventa allora così forte che molti vi soccombono, se non nelle forme esteriori della vocazione... nell'intimo del proprio cuore. «Adesso ho capito!». E si trascina la propria vita in una specie di disincanto universale e ci si irrita contro tutto quello che intorno a noi può ancora assomigliare alla vita... A meno che non ci si butti a capofitto nel turbine dell'oblio, degli impegni, dell'ubriacatura, delle pseudo-soluzioni del problema [7].

    In questo clima il mattino è segnato dal rimpianto per la notte finita troppo presto o dallo stordimento delle occupazioni che tra poco riprendono. Il sonno o l'oppio: l'abbandonarsi all'indietro o il fuggire in avanti. La fede è allora chiamata a risvegliare la coscienza al canto sommesso della creazione, e ad accordarvi il proprio canto:

    Svegliati, mio cuore
    svegliati arpa, cetra,

    voglio svegliare l'aurora (Sal 57,9) [8].

    Non per trasfigurare le cose con un processo di sublimazione misticheggiante o utopistica, ma per ritrovare la loro parziale ma reale bontà: «perché non ce n'è nemmeno una che non sia portatrice delle tracce dei passi di Dio, per quanto essa sia povera, precaria e intaccata da non so quale caducità e quale miseria! Sì, la mia vocazione, il mondo, la vita, le tecniche, l'amore e la terra intera è meravigliosamente questo e non è altro che questo» [9].
    Lode alla risurrezione. Ma il mondo non è più innocente; è redento. La grazia che l'avvolge non è più la bellezza intatta della prima creazione, della gratuità munifica, ma la bellezza restaurata dal perdono: il mondo è "graziato". Sul mattino della creazione si è sovrapposto il mattino pasquale, che l'ha rigenerato sottraendolo al potere della notte esistenziale. La terra, paese dell'uomo, non è più vergine; è l'adultera ridiventata sposa perché lavata nel sangue del suo Sposo e Signore.
    Il mattino è tempo di benedizione in quanto è lode al Cristo risorto e al mondo nuovo uscito con lui dalla tomba.

    La giornata dell'antico testamento incomincia la sera e finisce col tramonto successivo: è il tempo dell'attesa. La giornata della comunità del nuovo testamento incomincia la mattina col sorgere del sole e finisce con l'alba del nuovo giorno: è il tempo del compimento, della risurrezione del Signore. Cristo nacque di notte, una luce nelle tenebre; il mezzogiorno divenne notte quando Cristo sofferse e morì sulla croce; ma la mattina di pasqua Cristo uscì vincitore dal sepolcro... Le prime ore del mattino appartengono alla comunità del Cristo risorto. All'alba essa ricorda il mattino in cui giacquero vinti la morte, Satana e il peccato; allora l'uomo ebbe nuova vita e salvezza [10].

    Così scriveva Bonhoeffer; e in questo contesto ricuperava «i vecchi inni che invitano la comunità a lodare insieme, al mattino presto, il suo Signore», e che aricchiscono la tradizione riformata.

    Il giorno caccia la notte oscura; cristiani, su svegli, lodate il Signore. Pensa che il tuo Dio ti ha creato a sua immagine, perché tu lo conosca.

    E ancora:

    Sorge il mattino; Signore Iddio, noi ti lodiamo, ti ringraziamo, o sommo bene, perché ci hai protetti questa notte... Si avvicina la luce del giorno; fratelli, ringraziamo il buon Dio, che ci ha guardati e protetti questa notte [11].

    Al ricordo della risurrezione di Cristo la comunità dei discepoli dedica un'intera giornata nell'arco della settimana: la domenica, "giorno del Signore", così come l'intero periodo pasquale nell'arco dell'anno. La simbolicità del tempo è plurivalente, e la giornata è la sua figura cellulare. Per questo, malgrado l'indicazione di Bonhoeffer (non: contro di essa), quando scrive che «il mattino non appartiene ai singoli... appartiene alla comunità cristiana, alla fraternità», credo che proprio la figura minima del mattino lo renda disponibile anche alla figura minima dell'umanità, al singolo, alla preghiera solitaria di chi non ha comunità ma si sente inserito nella immensa comunità degli umani e dei viventi.
    Creazione e risurrezione sono i motivi di un inno liturgico spagnolo del mattino, di cui riporto alcune strofe in un tentativo di tradizione "cantabile".

    Nel nome di Dio Padre, del Figlio e dello Spirito
    usciamo dalla notte incontro all'aurora;

    salutiamo la gioia della luce che irrompe
    e il canto della vita intona ancora.
    Tua mano accosta il fuoco alle ombre della terra
    e il volto delle cose si allieta in tua presenza.
    Tu l'alba scandisci come una parola,

    il mare tu pronunci come sentenza.
    Mattino benedetto che porti il grande annuncio
    del giovane suo amore che il mondo ha ricreato,
    la serena certezza con cui il giorno proclama
    che il sepolcro di Cristo è scoperchiato.

    NOTE

    1 B. Baroffio, Liturgia delle Ore, in: Dizionario Teologico Interdisciplinare, vol. 2°, Torino 1977, p. 410.
    2 Vedi: La vita comune, Brescia 1969.
    3 Quanto è detto dell'occhio e dello sguardo va esteso agli altri sensi, ma in misura ridotta e integrativa.
    4 Ves corno cada marana / se abre tu ventana / para que entre el sol / hoy nacieron juntos / un poeta y una flor (Canto peruviano).
    5 Vedi la suggestiva carrellata storica di G. Ravasi, Giobbe, Roma 1979, pp. 108-274.
    6 Cf. i primi due articoli del quaderno.
    7 L. A. Lassus, I nomadi di Dio, Torino 1976, p. 73.
    8 Un accenno almeno all'inno di S. Ambrogio con il motivo del gallo come "banditore del giorno": «... il gallo provoca i pigri, rimprovera i sonnolenti, richiama chi rinnega la fede. Al canto del gallo ritorna la fiducia, la salute rinasce negli ammalati, il pugnale del ladro vien riposto, la fiducia torna nei peccatori».
    9 L. A. Lassus, o.c., pp. 75s.
    10 Bonhoeffer, La vita comune, p. 74.
    11 Cit. in Bonhoeffer o.c., p. 75.


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