Il distacco del cristiano
Thomas Merton
Essere distaccati dalle cose: che cosa significa? Una fede cristiana vissuta in verità non comporta alcuna forma di disprezzo o di svalutazione per il creato. Essere distaccati vuol dire piuttosto saper entrare in rapporto con tutte le cose secondo una prospettiva nuova: senza separarle mai da Dio e guardandole con profonda riconoscenza.
L'essere distaccati dalle cose non significa stabilire una contraddizione tra le «cose» e «Dio», come se Dio fosse un'altra «cosa» e le Sue creature fossero le sue rivali. Noi non ci distacchiamo dalle cose per unirci a Dio, ma piuttosto ci distacchiamo da «noi stessi» per vedere e servirci di ogni cosa in Dio e per Dio. E questa una prospettiva totalmente nuova che molte persone, anche profondamente morali e ascetiche, non riescono ad afferrare fino in fondo. Non esiste perversità nelle cose create da Dio, e nessuna cosa che a Lui appartiene può essere di ostacolo alla nostra unione con Lui. L'ostacolo si trova in noi stessi, ossia nella tenace necessità di conservare la nostra volontà separata, esteriore, egoistica. È quando riferiamo ogni cosa a questo nostro falso «io» esteriore che ci alieniamo dalla realtà e da Dio. È allora il nostro falso io che diventa il nostro dio, e noi amiamo tutte le cose per amore di questo falso io. Ci serviamo di ogni cosa, per così dire, per adorare questo idolo che è il nostro io immaginario. Ciò facendo pervertiamo e corrompiamo le cose, o piuttosto, rendiamo corrotte e peccaminose le nostre relazioni con esse. Con ciò noi non rendiamo perverse le cose, ma ce ne serviamo per accrescere il nostro attaccamento al nostro io illusorio.
Coloro che tentano di sfuggire a questa situazione, trattando le cose buone create da Dio come se fossero perverse, non fanno che irrigidirsi in un terribile errore. Fanno come Adamo quando riversò la colpa su Eva, e come Eva quando incolpò il serpente nell'Eden. «La donna mi ha tentato. Il vino mi ha tentato. Il cibo mi ha tentato. La donna è perniciosa. Il vino è veleno. Il cibo è morte. Io li devo odiare e vilipendere. Odiandoli darò gloria a Dio...». Questi sono pensieri e atteggiamenti da bambino, da selvaggio, da idolatra, che tenta con la magia, con gl'incantesimi, con sortilegi, di proteggere il suo io egoistico, di placare l'insaziabile piccolo dio che risiede nel suo cuore. Scambiare un simile idolo per Dio sarebbe commettere il peggior sproposito, perché trasformerebbe l'uomo in un fanatico, incapace di contatto sostenuto con la verità, incapace di amore genuino. Volendo concepire il loro «io» come cosa «santa», simili fanatici considerano empia ogni altra cosa.
Non è vero che i santi e i grandi contemplativi non abbiano mai amato le cose create, non abbiano compreso o apprezzato il mondo, ciò che in esso si vede o si ode, chi in esso vive. Amavano tutti e tutte le cose. Credete che il loro amore per Dio fosse compatibile con un senso d'odio per le cose che Lo riflettono e che parlano di Lui per ogni dove?
Direte che con ogni probabilità essi erano assorti in Dio e non avevano occhi per vedere altro che Lui. Pensate forse che camminassero con il viso impietrito e non ascoltassero le voci degli uomini che si rivolgevano loro, o non comprendessero le gioie e i dolori di chi li circondava? Proprio perché erano assorti in Dio, i santi erano veramente capaci di vedere e di apprezzare le cose create, e proprio perché amavano Dio solo erano i soli ad amare tutti.
(Semi di contemplazione, 26-27)