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    Il cristianesimo

    è un avvenimento

    Intervista a Pietro Citati

    Luca Doninelli

    Questa conversazione prende le mosse dal libro Israele e l’Islam. Le scintille di Dio di Pietro Citati (Mondadori, pp. 275, € 17,00), ma ha una storia che comincia nel 1987, quando il settimanale Il Sabato mi chiese di intervistare Citati a proposito del suo libro su Kafka, appena uscito presso Rizzoli. Citati insisteva molto, in quel libro, sulla dimensione religiosa dell’opera di Kafka e, un po’ per quella ragione e un po’ perché a noi Kafka era (è) sempre piaciuto molto, nacque l’idea di organizzare un incontro a Milano con Citati sul grande scrittore praghese, che fu realizzato all’Università Statale. La semplicità e l’attenzione dei presenti, l’acutezza delle domande, l’ingenua baldanza dei ragazzi che gremivano l’aula rimasero impresse in Citati, che oggi esprime il vivo desiderio di ripetere quell’incontro. (Quanto al sottoscritto, ricordo benissimo il salotto di casa Citati, dove rimetto piede dopo sedici anni: fu lui a chiedermi di leggere i miei racconti e a caldeggiarne, poi, la pubblicazione. Ma in queste cose non ci sono debiti. Come diceva Betocchi, «è la vita che tiene»).

    Avverto una differenza di tono, nel libro, tra le pagine dedicate alla storia di Israele e quelle dedicate ai miti islamici. Nelle prime c’è più storia, appunto, nelle seconde c’è più letteratura. È forse questa la differenza tra il Dio di Abramo e quello di Maometto?
    Quello che lei dice in parte è vero, ma solo in parte, perché innanzitutto Allah è un nuovo Jahve: c’è lo stesso monoteismo acceso, lo stesso tremendum, e al tempo stesso c’è la stessa dolcezza, la stessa - soprattutto in Allah - misericordia. C’è anche la stessa distanza: sia Jahve che Allah sono dèi a un tempo lontanissimi e vicinissimi. Allah dice: «Io ti sono più vicino della tua vena iugulare». Tra le due religioni esiste, insomma, una ripetizione nel modo di inventare il sacro. La grande differenza sta invece principalmente in quello che diceva lei, ossia nel fatto che l’islam produce una quantità di immaginazione mitica che la religione ebraica non conosce.

    Per quali ragioni? In fondo, si trattava di tribù simili, che vivevano in un contesto geografico non molto diverso.
    Le ragioni sono due. La prima è che nella Bibbia c’è una sola creazione: il primo uomo è Adamo, poi c’è il Peccato, poi la cacciata dal paradiso terrestre. Viceversa, nell’islam c’è un popolo che vive nelle stelle, ed è androgino e islamico, poiché Maometto è salito fin da loro per convertirli. Quanto poi al mondo di quaggiù, umano e peccatore, anche qui i regni sono due: quello di Adamo e quello di Salomone, che è il regno dell’assoluta fantasia. Questi due mondi s’intrecciano tra loro. Le Mille e una notte non è un libro osceno, come sostengono i musulmani stupidi di oggi, bensì un libro esoterico, in cui il lato religioso diviene continuamente fantastico.

    Io però insisto sul fatto che la Bibbia è un libro scritto dagli uomini, una storia di cui Dio è il protagonista. Il Corano, viceversa, è un libro di cui Dio è l’autore, e non racconta una vicenda storica. Questo rende il monoteismo islamico più assoluto di quello ebraico.
    Sì, il Corano segue un filo analogico, non storico. Ed è vero che il suo monoteismo è il più assoluto di tutti, sia di quello ebraico (che non comprende solo la Scrittura, ma anche la Kabbalah, ad esempio, che è piena di emanazioni divine e diaboliche) che di quello cristiano, che è il meno rigido dei tre, poiché la stessa concezione di Dio come Trinità comprende un’infinità di rapporti fra le tre Persone.

    Qual è, secondo lei, il significato della parola “misericordia”, che ricorre come attributo di Dio in tutte e due le religioni?
    Oggi esistono parole più moderne, che hanno sostituito “misericordia”. La compassione, per esempio, che significa una perdita di sé nel dolore degli altri. Ma la misericordia è molto di più, perché, a differenza della compassione, implica un giudizio. Non c’è misericordia senza giudizio. A Ibrahim che gli chiede come mai la Sua misericordia gli consenta di peccare, Allah risponde: «Se tutti gli uomini fossero innocenti, a chi accorderei la mia grazia?». Nell’uomo giustizia e pietà non possono andare insieme, o si è giusti o si è pietosi. Dio, invece, è al tempo stesso giusto e pietoso: questa è la misericordia.

    Non si può dire che il presente somigli molto a quest’immagine. Un ragazzo egiziano mi disse una volta di non poter essere più musulmano perché gli piaceva il vino…
    Questo succede perché l’islam (come del resto il pensiero cattolico corrente) ha perso completamente la coscienza di sé. Oggi i musulmani non sanno praticamente nulla della loro religione. Una setta che è sempre stata minoritaria e disprezzata nell’islam oggi ottiene grandi consensi: gente per la quale non bere bevande alcoliche conta più del rapporto con Dio.

    E da parte cristiana?
    Stesso discorso. Quello che ho detto vale anche da parte cristiana. Oggi i cristiani non conoscono più nemmeno i Vangeli. La grande tradizione che comincia con i Vangeli e passa attraverso Origene, i Padri, sant’Agostino, la Scolastica, i grandi mistici del 600 fino all’800, si è quasi completamente interrotta. Il pensiero cattolico si è ridotto a una rifrittura di concetti nati in altri contesti, da Heidegger a Lévinas, per non parlare di Gadamer. È un cristianesimo gadamerizzato. Io credo che la ragione di questo fenomeno stia nel fatto che sopportare una tradizione è un compito difficile, mentre semplificarla è facile. La ricchezza della tradizione cristiana è talmente ricca che esserle fedeli è difficile, mentre è più facile ridurla alle formulette che ripetono i preti in chiesa.
    Comunque sia, se la cosa la può consolare, ma credo di no, posso dirle con certezza che la tradizione islamica sta anche peggio. Il maggior teologo islamico, Ibn Arabi, è proscritto, così come la grande tradizione Sufi. Sono state comminate ai loro danni vere e proprie condanne. I disastri di oggi dipendono anche da questa perdita. Oggi l’islam è una serie di prescrizioni rituali. Ma la sua natura è un’altra. Quella islamica è una tradizione della fede e della grazia.

    Sembrerebbe più una tradizione della legge. Il concetto di legge ha nel mondo islamico un peso determinante.
    Ma se lei legge la sterminata tradizione letteraria islamica alla fine mi darà ragione. L’islam è fede e grazia. La perdita della coscienza di sé è all’origine di tutti i mali. Aggiungo: di sé e dell’altro.

    Dopo tre secoli di tolleranza? Dopo tre secoli di égalité? Non avrebbe dovuto succedere il contrario?
    Il vero atteggiamento umano non è la tolleranza, ma la conoscenza di sé e dell’altro. La tolleranza nasce dalla convinzione che le tradizioni proprie e altrui sono un danno e non dovrebbero essere conosciute, ma abolite, ed è perciò violenta.

    Nella terza parte del libro, intitolata “Le scintille di Dio”, lei dedica la sua attenzione a personaggi dell’ebraismo, ma ai margini della sua tradizione religiosa: da Joseph Roth a Hannah Arendt, da Bruno Schulz a Simone Weil. Perché?
    Io penso che si tratti non di veri e propri santi, questo no, ma di figure che in qualche modo hanno a che vedere con la santità. Non so bene cosa li accomuni. Del resto, non saprei nemmeno dire cosa rende santo un santo. L’intensità dell’esperienza religiosa? Direi che non basta. Il rapporto con Dio? Questo è già più probabile. Anche questi miei personaggi hanno un forte rapporto con Dio: anche Roth, nella sua ubriachezza, ha questo rapporto. Non so se siano santi, quel che è certo è che non sono laici, non hanno cioè nulla della cecità laica. I laici non mi attraggono mai. Arendt, Roth, Weil, Schulz sono grandi figure dell’ebraismo moderno. I grandi ebrei moderni stanno sempre a cavallo tra più religioni. Kafka svolse diverse ipotesi religiose, Roth fu cristiano, ebreo e musulmano insieme, mentre Simone Weil fu soprattutto cristiana.

    Recentemente ha dichiarato di sentirsi sempre più cattolico, col passare del tempo.
    È quello che vorrei. Da giovane ero anch’io uno stupido laico. Oggi amo il cattolicesimo, amo la sua infinita molteplicità, dall’infinita ricchezza dei rapporti di reciprocità tra le tre Persone della Trinità a Maria, che quasi non esiste nei Vangeli, e che la potenza del cristianesimo ha fatto diventare una dea. Infine, amo il cattolicesimo per l’idea del rispecchiarsi del divino nel mondo. Pensi anche a realtà estremamente popolari, come il presepe napoletano, con tutti i diversi personaggi, ciascuno a fare il suo mestiere, i pastori col cane e le pecore, la pescivendola, la venditrice di limoni, il panettiere, qualcuno se ne sta anche a dormire, qualcuno invece è lì, inginocchiato a contemplare quel Bambino. È la benedizione di tutte le forme del Creato. Questa benedizione esiste solo nel cattolicesimo.

    Eppure provo un certo fastidio quando mi danno dello “scrittore cattolico”. O si è scrittori o non lo si è.
    Ma è ovvio. Queste sono stupidaggini. Oppure cominciamo a chiamare cattolici anche scrittori come Marcel Proust, che fu molto più cattolico di tanti teologi di adesso, che fuggono - letteralmente! - dal cristianesimo. Il fatto è che oggi con la parola “cristianesimo” s’intende perlopiù un’etica. La riduzione della religione a etica è una vera catastrofe. All’origine del cristianesimo ci sono i ladroni, c’è un delitto, altro che etica. Del resto, l’etica è così noiosa che, se così fosse, non varrebbe affatto la pena essere religiosi. Il cristianesimo è un avvenimento religioso, ma questa cosa oggi non la dice quasi più nessuno.

    (Tracce, dicembre 2003)


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