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    Armido Rizzi


    Il corpo e il mondo

    «La scienza manipola le cose e rinuncia ad abitarle» [1]. Essa si accosta alla realtà con una serie di ipotesi e di modelli che servono a penetrarne il funzionamento in vista di un'utilizzazione da parte dell'uomo. Non le interessa ciò che la realtà è "in sé", nell'opaca e tumultuosa ricchezza del suo "essere"; le interessa ridurla alla trasparenza di formule operative, di strategie di intervento.
    Ma c'è forse un altro modo o un altro luogo per accostare le cose lasciandole essere e facendole dire se stesse? C'è il luogo vivo del proprio corpo. Cosa tra cose, il corpo è visibile e mobile come ognuna di esse, fa parte del mondo, ne è un frammento; ma, insieme, il mio corpo vede e si muove, «tiene le cose in cerchio attorno a sé, esse sono un annesso o un prolungamento di se stesso, esse sono incrostate nella sua carne» [2], così che si può dire che il mondo fa parte del corpo, ne è la dilatazione e il compimento.
    Questa simbiosi corpo-mondo è la sensazione; ed è, in particolare, la visione. L'uomo abita il mondo con quell'originaria capacità di comunione che sono i sensi, che sono gli occhi. Se «qualità, luce, colore, profondità sono lì giù davanti a noi, non ci sono che per risvegliare un eco nel nostro corpo, perché esso fa loro accoglienza»; un'eco che non è copia sbiadita delle cose, ma la stessa «formula carnale della loro presenza, che le cose suscitano in me» [3]. In questo modo l'occhio «compie il prodigio di aprire all'anima quel che non è anima, il felice dominio delle cose» [4]; perciò già gli antichi lo chiamavano la finestra dell'anima.
    Ma non tutti glí occhi vedono ugualmente. Quell'interesse operativo che comanda la scienza occupa pure, in forma elementare, lo sguardo che abitualmente posiamo sulle cose: ciò che in esse cerchiamo è l'utile, nella modalità di oggetti da maneggiare o di complessi di figure in base a cui orientarci e spostarci. C'è nella visione una intenzionalità pragmatica che precede la scienza, che fa parte dello stesso nostro abitare il mondo, ma che ancora non penetra nel cuore delle cose [5]. Tale penetrazione è frutto di uno sguardo particolare, di quell'attenzione che è - potremmo dire - il "mettersi in ascolto" dell'occhio, di quello studium che è passione intelligente e intelligenza appassionata. È, questo, lo sguardo del pittore. Uno sguardo che, più che posarsi sulle cose fatte, le interroga per sapere in che modo si sono fatte, meglio ancora, in che modo si stanno facendo sotto gli occhi dello spettatore. «Luce, chiarore, ombre, riflessi, colore...: lo sguardo del pittore domanda loro come si comportano per far che ci sia improvvisamente una cosa, e questa cosa, per comporre questo talismano del mondo, per farci vedere il visibile» [6]. La domanda del pittore verte sempre su «questa genesi segreta e febbrile delle cose nel nostro corpo» [7]; il quadro fa «scoppiare la "pelle delle cose" per mostrare come le cose si fanno cose e il mondo mondo [8]».
    È in questo raccogliere il segreto del mondo, il suo mistero genetico, che la pittura diventa luogo rivelativo dell'Essere. «La visione è l'incontro, come a un crocicchio, di tutti gli aspetti dell'Essere»; «è l'Essere muto che da solo viene a manifestare il suo senso» [9]. Perciò nella visione e nella pittura è implicito un pensiero ontolgogico che il pensare riflesso - la filosofia - ha perduto o forse non ha mai compiutamente formulato. È questa filosofia implicita «ad animare il pittore, non quando esprime opinioni sul mondo, ma nell'istante in cui la visione si fa gesto, quando, dirà Cézanne, egli "pensa in pittura"» [10].

    L'occidente e l'oriente

    Oggi che l'Occidente, relativista e scettico, scopre la propria decadenza e prevede il proprio tramonto ormai vicino, sente il bisogno di esplorare e comprendere meglio l'Oriente. Mossi da una curiosità febbrile e nuova, gli occidentali penetrano appassionatamente nei costumi, nella storia e nelle religioni asiatiche. Migliaia di artisti e di pensatori estraggono dall'Oriente la trama e il colore del loro pensiero e della loro arte. L'Europa copia avidamente pitture giapponesi e sculture cinesi, colori persiani e ritmi indostani. Si ubriaca dell'orientalismo che l'arte, la fantasia e la vita russe distillano. E confessa un desiderio quasi morboso di orientalizzarsi [11].

    L'immersione nel sensibile turgido di vita e di essere, come reazione all'asettica razionalità scientifica, ha assunto spesso nell'ultimo secolo la figura di un pellegrinaggio verso Oriente e, più in generale, verso zone di umanità incolumi dal virus della civiltà europea.
    Esemplare, sia per la tempestività che per la consequenzialità con cui è stato vissuto, è il caso del pittore francese Paul Gauguin. Dopo aver tentato inutilmente di creare un'ideale maison artistique dove accogliere e promuovere le più ardite sperimentazioni pittoriche, Gauguin lascia la Francia per la Martinica, nel mar dei Caraibi, dove «cava energia da una violenta ricezione di figure e cose della terra», si abbandona «alle forze elementari e fantastiche attinte dagli organi di senso e del cervello nella stessa misteriosa madre-natura» [12]. Questo primo soggiorno di quattro mesi lo convince che la sua fonte d'ispirazione non può che essere lontana dall'Europa; alla quale dice addio definitivamente nel 1890, per dirigersi verso l'arcipelago di Tahiti, nel Pacifico. Qui egli vuole:

    ... ritemprarsi nella natura vergine, vedere soltanto dei selvaggi, vivere la loro vita, senz'altra preoccupazione che rendere, come farebbe un bambino, i concetti del mio cervello col solo aiuto dei mezzi artistici primitivi, i soli validi, i soli veri [13].

    Infatti l'isola gli rivela lentamente la maestà del corpo umano abitato dalla misteriosa vitalità animale: la rivela attraverso l'esperienza diretta, tesa a sorprendere figure di corpi femminili che furtivamente si abbeverano a una fonte o sensualmente si adagiano sulla spiaggia o monumentalmente si ergono in mezzo alla foresta; la rivela ancora attraverso la lettura di saggi sulle religioni e i costumi delle antiche comunità polinesiane, dove miti e riti gli ribadiscono le cifre originarie della vita, la nascita di forme e movimenti dalla materia pulsante.
    E nella pittura, esperienza e mito si fondano: uomini e idoli «nascenti dall'ombra come gli stessi germogli della natura» [14] sono espressioni di una stessa potenza vitale, di cui il pittore vuol carpire e fissare il segreto.

    "Scoprire il mondo attraverso gli occhi di un cieco"

    Ricordo una breve sequenza di un film televisivo: un ragazzo accompagna in macchina un'amica cieca a una scampagnata sui colli che circondano la città, descrivendole con partecipazione il paesaggio. Al ritorno, le confessa di aver visto quelle colline, quei filari, quei prati, «come se fosse la prima volta». E la ragazza commenta, tra il serio e il divertito: «Si direbbe che hai scoperto il mondo attraverso gli occhi di un cieco!».
    C'è, in questa situazione e in quest'espressione, una densità semantica che va ben oltre il paradosso brillante in cui sembrano esaurirsi. C'è una logica della narratività.che - si direbbe - prende la mano al regista e lo obbliga, per un istante, a superarsi, a trascendere - forse senza accorgersene - la superficialità evasiva della trama filmica, a "profetizzare" come l'asina di Balaam. È questa logica profonda che vogliamo esaminare, meglio: ascoltare.
    In apparenza, i due soggetti dell'azione sono un cieco e un vedente. Ma è dalla bocca stessa del vedente che ci viene la confessione di cecità: quel paesaggio l'ha visto oggi «come se fosse la prima volta». Certo, la sua è una cecità diversa da quella dell'amica; una cecità, potremmo dire, complementare. Il suo apparato visivo è a posto, funziona; mille volte il suo sguardo ha sorvolato quei rilievi, decine di volte il suo colpo d'occhio ha misurato quelle curve stradali, una dopo l'altra, per assecondarne il movimento con una guida sicura. Eppure egli non ha mai "visto". E la ragione è che non ha mai "guardato": quell'interesse che oggi è sbocciato in lui aveva finora disertato i suoi occhi; quella passione di mondo che oggi lo ha sorpreso, fino a ieri gli era sconosciuta. Come se i suoi occhi fossero un corpo senz'anima, capace di afferrare soltanto un mondo senz'anima, incapace di entrare in quell'anima mundi dove le cose, invece che strumenti inanimati, sono presenze che vivono e parlano, si confidano e si concedono [15].
    La cieca possiede la passione di mondo che manca all'amico. Ma in lei questa passione è un'anima senza corpo, è un desiderio inefficace, uno slancio che ricade su se stesso.
    Ma che avviene quel giorno? Qualcosa che ha il carattere di una osmosi integrativa: l'occhio del ragazzo viene investito dal desiderio della ragazza, viene scosso da quella sua passione che, nell'atto stesso in cui lo dissigilla e gli apre la dimensione della profondità, ne riceve l'efficacia operativa, che da impotente e implorante la rende attiva e gaudiosa. È quest'innesto d'anima che permette al vedente di "scoprire" il mondo; ed è con verità che sí può dire che la scoperta avviene "attraverso gli occhi di un cieco".
    L'osmosi si verifica anche in direzione inversa, sebbene in forma o, misura incompiuta. Mi è avvenuto un anno fa di accompagnare un amico cieco in un giro sulle colline attorno a Firenze; e alle mie - inizialmente imbarazzate - descrizioni, sentirlo reagire con soddisfazione: "Vedo, vedo". Che certo è qualcosa di più dell'abituale: "Capisco". La parola poetica (e la parola ammirata e partecipe ha sempre un soffio di poesia) non spiega ma dipinge, non organizza ma "fa vedere": distende linee e colori, che nell'immaginazione del cieco [16] suscitano evocazioni, risuscitano visioni passate, così che il buio sensoriale si addolcisce nella tenerezza della memoria, nel ritmo di immagini interiori, che compensano in musicalità ciò che manca loro di plasticità. Un vecchio proverbio dice che, se un cieco fa da guida a un altro cieco, i due finiscono fuori strada. Ma nel nostro caso si verifica un'altra legge, più profonda e singolare: se si mettono insieme due povertà, ne nasce ricchezza.
    Ora, questo paradosso non è effetto di una qualche benefica stregoneria, di un'arcana risorsa che il corpo tragga dal cilindro magico di dimenticate sue possibilità. Che vi siano in noi risorse inutilizzate (e quindi atrofizzate) per il lungo oblio occidentale del corpo, non si vuole qui negare; e che pratiche di tecnica e di saggezza possano dilatare quella che F. Belo chiama la «potenza dei corpi» [17], è una consapevolezza che andiamo lentamente ricuperando. Ma l'evento dei nostri due giovani è di altra qualità: appartiene all'ordine e alla potenza dello "spirito" (nell'accezione di Paolo) [18]. Se il ragazzo
    "guarda" il mondo, se fa suo il desiderio di vedere dell'amica, è per un atteggiamento di benevolenza nei suol confronti, per una volontà di comunicazione. Ciò che egli propriamente vuole è "narrare" il paesaggio: vederlo è solo la condizione per dirlo, affermarlo è solo il presupposto per donarlo. La passione di mondo che lo contagia è sottesa e comandata dalla passione per l'uomo, dalla volontà di condividere quel mondo con chi non può raggiungerlo. Ciò che apre gli occhi del ragazzo non è la ricerca pittorica di Gauguin e di Merleau-Ponty; è l'apertura del "cuore" (ancora in senso biblico) [19].
    Ma di questo movimento di benevolenza la ragazza non è oggetto inerte, recettore passivo e quasi suo malgrado. Esponendo all'amico la sua domanda o accogliendone l'iniziativa, accende in lui la solidarietà e, dentro di essa e al suo servizio, lo sguardo nuovo sul mondo; così che la scoperta del mondo da parte del giovane non passa solo attraverso gli occhi della cieca, ma attraverso la fiducia che essa gli concede. Il dono che egli le fa con le proprie parole è una restituzione; e ciò che corre tra i due non è un'elemosina ma una reciprocità. Dentro questo circolo di reciprocità il mondo si fa umano. Non solo di quella umanizzazione che ha luogo nel crogiolo della contemplazione sensitiva, ma di quella umanità che è la personalizzazione delle cose attraverso l'intenzionalità del dono e dello scambio. Se l'occhio del pittore penetra la genesi delle cose, la parola di benevolenza ne costituisce la destinazione, il telos; se quello è il luogo dell'essere come origine, questa è il luogo dell'essere come compimento.

    Il sogno messianico

    Si fa poca attenzione al fatto che i miracoli di Gesù sono, nella quasi totalità, guarigioni: sia quelli narrati distesamente nei vangeli, sia quelli cui essi fanno rapida allusione (i cosiddetti "somma-
    ri"), sia infine quelli a cui Gesù stesso rimanda come ad attestati della sua identità messianica (Mt 11,2ss.; Lc 4,14ss.). Un lungo costume di interpretazione e di predicazione tradisce un impaccio di fronte a questo "materialismo" di Gesù, e si affretta a spiccare il salto verso la rilettura simbolica: quel corpo guarito non è che il segno dell'anima redenta, salvata dalla malattia che unicamente conta, il peccato.
    Che-la guarigione del corpo abbia una potenza simbolica, è indubbio; che essa sia in connessione con la liberazione dell'anima è altrettanto certo. Ma questa connessione non è il legame di analogia proporzionale tra due realtà essenzialmente altre, dove la salvezza starebbe all'anima come la guarigione sta al corpo [20]. È identità articolata in dualità; così che sanare il corpo è già liberare l'anima, di cui esso è simbolo reale. Nessuno lo ha detto meglio di quanto faccia, indirettamente, R.M. Rilke:

    l'occhio... da cui la bellezza dell'universo è rivelata alla nostra contemplazione, è di una tale eccellenza che chiunque si rassegnasse alla sua perdita si priverebbe della conoscenza di tutte le opere della natura, la cui vista fa restare l'anima contenta nella prigione del corpo, grazie agli occhi che le rappresentano l'infinita varietà della creazione: chi li perde abbandona questa anima in una oscura prigione dove cessa ogni speranza di rivedere il sole, luce dell'universo [21].

    Non inganni l'apparenza platonica di questa terminologia. L'anima non è imprigionata dentro il mondo; al contrario, è imprigionata dentro quel corpo che non le dà accesso al mondo. Un corpo cieco - ma lo stesso vale, con le debite variazioni, del sordo, del muto, dello zoppo... - è carcere dell'anima perché la isola dal mondo, la chiude nella solitudine forzata, la rende vano conato, desiderio inefficace, "passione inutile". L'osservazione di Rilke traduce il senso biblico della corporalità, il senso utopico delle profezie della reintegrazione dei corpi [22], il senso messianico dei miracoli di Gesù;
    che è poi un unico senso, nella sua costituzione e nella sua travagliata storia di perdizione e di ritrovamento [23]. Questo senso non è soltanto, il rapporto funzionale con il mondo: è il più profondo rapporto fruitivo, che suggerisce a Rilke espressioni come «bellezza dell'universo», «opera della natura», «infinita varietà della creazione».
    E tuttavia, un'accentuazione troppo unilaterale di questa dimensione estetica a scapito della dimensione funzionale è estranea all'antropologia biblica. Non è un caso che al privilegiamento dell'occhio la bibbia contrapponga una più ampia attenzione a tutti gli elementi-ponte della corporalità: oltre che la vista, l'udito, la parola, il movimento, l'inserimento sociale [24]. E non solo per un buon senso pratico che, certo, caratterizza in genere gli autori biblici. C'è dell'altro, nella loro attenzione al funzionale: c'è la convinzione che già qui ci si muove nello spazio dell'essere. Non è banale il rapporto d'uso con le cose; è banalizzante l'atteggiamento che lo dà per scontato, che degrada la ripetizione a ripetitività, che vive ogni parola o movimento, ogni percezione o azione, non come nuova e puntuale insorgenza dell'essere, ma come logoro automatismo.
    Ho già avuto l'occasione di osservare come il punto giusto per cogliere il senso di un'azione - anche la più semplice - è quello di chi fatica per compierla: il menomato o il lesionato [25]. La tensione che egli vi mette è la elementare carica utopica, è il non-ancora che saluta dalla lontananza del suo sforzo inceppato il futuro di un compimento che per altri è abitudine e per lui è conquista. Qui c'è la stessa anima-prigioniera di cui parla Rilke, anche se l'ambito della sua tendenza è l'umile quotidianità delle cose utili invece che lo splendore delle forme cromatiche.
    Ma non è improprio parlare di "essere" lì dove si tratta della scansione di un progetto, cioè di "esistenza"? [26] Il rapporto funzionale con le cose è al servizio degli scopi che l'uomo si propone; ha quindi uno spessore tutto soggettivo. Il movimento che compio per raggiungere un oggetto ha senso dentro una mia scelta, alla cui realizzazione l'oggetto serve; non ha senso "in sé". E l'essere è invece ciò che è dotato di una tale dignità intrinseca da imporsi come valore in sé, come quella realtà a cui l'anima" si trova a tendere al di fuori di ogni convenzionale progetto, e che, una volta trovatala, riconosce come sua patria e riposo.
    Ora, non è certo arbitrario vedere nella bellezza questo valore in sé, ravvisare nella manifestazione della forma (non solo visiva, certo) l'epifania dell'essere. L'elemento arbitrario dell'obiezione è nel ridurre la bellezza all'oggetto artistico e alla sua fonte, la natura-spettacolo. Invece la tensione del menomato per compiere un movimento nel modo giusto è come una testimonianza in azione del valore ontologico del funzionale, una confessione vissuta della sua appartenenza all'essere. Così come lo è la gioia della guarigione: muoversi, udire, vedere, parlare, è trovarsi reintegrati nell'essere; riacquistare una capacità funzionale non è solo ampliare il raggio dei propri eventuali progetti, ma trovarsi più e meglio inseriti in quel progetto che è l'essere stesso. E ciò che vale delle funzioni elementari vale dei beni altrettanto elementari: cibo, abitazione, vestito, affetto... Anch'essi appartengono a quel fondamentale "avere" che fa tutt'uno con 1' "essere" perché non occupa lo spazio del superfluo o del convenzionale ma si affonda nel terreno del necessario, di quel progetto-base che è il mondo [27].
    Ecco perché il corpo dei poveri è lo strumento dell'auscultazione e sperimentazione ontologica'. Gianni Rodari scriveva, in una delle sue favole, che corre una differenza sostanziale tra le lacrime del bambino che piange perché ha fame e le lacrime di quello che piange per, un capriccio insoddisfatto. È questa, con buona pace di Heidegger, la "differenza ontologica [28]: nel pianto per capriccio c'è, in nuce, lo stesso sradicamento dall'essere, la stessa "volontà di potenza" che si manifesta nella tecnologia sfrenata; e nel pianto per fame c'è un'appartenenza all'essere ancor più primitivo di quella della parola poetica e dell'immagine pittorica.
    Solo un pensiero nato in una società detentrice di potenza e di ricchezza poteva e può parlare del mondo dei bisogni e della prassi come di una struttura artificiale, dentro la quale individui e gruppi funzionano come "pezzi" di un montaggio. La forza di questo pensiero è l'evidenza invincibile che esso crea costituendosi come mondo autonomo; è l'evidenza tautologica del sistema chiuso. Ed è, ancora, la sua efficacia conoscitiva e pratica, la sua qualità di enorme macchina produttiva (di informazioni, di spiegazioni, di strategie d'intervento). La sua debolezza è di essere sordo e cieco al valore, di non poter distinguere il pianto del bimbo affamato da quello del bimbo capriccioso, di non cogliere dentro il bisogno del povero che il meccanismo formale, la stessa volontà soggettiva (cioè artificiale) che agita la pretesa del ricco.
    Il "grido del povero" è testimonianza all'essere perché contiene, almeno in germe, la coscienza della propria validità: non posso essere vano, non posso tendere al nulla. Ma questa autocoscienza chiaroscurale del bisogno umano elementare non è un'urgenza "naturale"; la "natura" gioca a dadi, e le sue crudeltà non sono inferiori alle sue generosità [29]. Ciò che si testimonia dentro il bisogno del povero è la "giustizia" di questo bisogno, è la forza di una postulazione etica: "non può essere che" questo bisogno sia vano [30]. Ma una postulazione per la quale il povero non può esibire meriti: non può presentare altra ragione che la propria povertà. Dunque, una giustizia che è gratuita. L'essere che il povero implora è "grazia" e insieme "necessità": non è questo il concetto biblico di creazione e l'immagine biblica di Dio?
    Quando Gesù, nelle beatitudini, afferma la destinazione del regno di Dio ai poveri, non fa che ribadire la coappartenenza originaria di creazione e povertà: il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, che dona, la terra promessa aí figli d'Israele in risposta al loro grido [31]', dona il mondo a quel grido di carne che è il bisogno umano; meglio: a quel detentore del bisogno che è il soggetto umano nella sua sete di mondo. I poveri sono l'avamposto effettuale dell'orizzonte ontologico dell'umanità; di quell'orizzonte che vive in ogni uomo ma che nel ricco è imbavagliato e rimosso, così da abbandonarlo all'"oblio dell'essere". Al «beati voi poveri» corrisponde, nella versione di Luca, il «guai a voi ricchi»: la stessa parola evangelica che riconsegna la creazione agli indigenti vuole sprigionare negli opulenti la memoria dell'identità ontologica perduta, la coscienza della loro rovina.
    Ma bisogna ribadire che l'essere ha qui i tratti personali del Dio di giustizia e di grazia: grazia come generosità senz'altro motivo che se stessa, giustizia come fedeltà invincibile di questa grazia. La bontà delle cose, insieme che corrispondenza ai singoli bisogni (bontà come gradevolezza e come funzionalità), è concrezione e testimonianza di quella grazia fedele: è bontà come amore da persona a persona. Così che nell'accoglienza alla cosa buona, l'uomo biblico sperimenta a un tempo la soddisfazione del suo bisogno e il gesto di grazia rivolto alla sua persona, coglie l'oggetto nella sua positività settoriale e il senso globale che esso veicola. Insieme con la vista, il cieco ricupera la certezza che la sua vita ha senso, perché a riaccendergli l'occhio non è una forza naturale specializzata, un "dio della vista", ma il Dio della vita; ciò che questo Dio ama non è l'occhio ma il cieco. L'esperienza della guarigione è conoscenza dell'essere perché è scoperta - o conferma - del mondo come grazia, perché è percezione che dietro questa reintegrazione di un organo c'è l'integrazione dell'uomo nell'orizzonte del senso, c'è il sì che lo accoglie e lo avvolge [32].
    Questo è anche il significato più proprio dell'estetica biblica. Dietro o dentro il profumo di terra e il colore di cielo che impregna molte pagine della bibbia c'è la sorprendente freschezza con cui la sua gente sempre di nuovo saluta l'amore di Dio; si direbbe che vive continuamente con un' "anima mattutina" [33], dentro lo spazio del mattino della creazione [34]. L'estetica biblica è il riflesso della gloria di Dio; ma questa gloria, se ha come scenario il cosmo, ha come fuoco l'uomo, il povero nel suo bisogno di vita. Gloria Dei vivens homo: questa stupenda espressione di S. Ireneo veniva tradotta da Mons. Romero: Gloria Dei vivens pauper: la gloria di Dio è che il povero viva [35]; la bellezza della creazione ha il povero come centro e come destinatario, come protagonista e come fruitore.

    "Perché ho dovuto amare la rosa e la giustizia?"

    Io mi interrogo ora:
    perché non ho amato soltanto
    le rose repentine
    le maree di giugno
    le lune sopra il mare?
    Perché ho dovuto amare
    le rose e la giustizia
    il mare e la giustizia
    la giustizia e la luce? [36].

    Non è, questa, né una domanda retorica dalla risposta scontata, né una domanda senza risposta. Esprime l'esigenza che la ricerca di qualità della vita, di bellezza, di essere, vada oltre quel grande movimento di reazione e di riscoperta che da qualche tempo attraversa l'Occidente ricco. Reazione contro l'unidimensionalità del pensiero tecnologico, contro il formalismo e lo spiritualismo della coscienza borghese, contro l'ottundimento consumistico; più recentemente, contro il pericolo apocalittico delle armi nucleari. Riscoperta della dimensione estetica in quell'accezione originaria e ampia - aisthesis vuol dire, in greco, sensazione - che ne fa il luogo d'incontro tra corpo e mondo (altri dicono: dimensione "erotica"); dunque: ricupero di tutta quella razionalità - cioè quella ragione e quelle ragioni - che esorbita dai canoni ufficiali del sapere e del sentire e del vivere: la razionalità del vissuto, le ragioni del corpo, l'esigenza di qualità, il bisogno di serenità nel guardare il futuro. Nell'Occidente è spuntato il sogno di una rosa.
    Marx aveva visto accendersi in Europa "il sogno di una cosa": l'utopia di un mondo felice e giusto, felice perché giusto. Che questo sogno sia emigrato nel Terzo Mondo? C. Vallejo, il maggior poeta peruviano, non può che sognare i suoi connazionali «sulla riva di un mattino eterno sfamati tutti quanti» [37]; e P. Neruda non può che cantare il futuro dei suoi cileni come «la luce del mattino inalberata sopra la nuova casa costruita» [38]. Ha ragione G. Gutierrez quando, dopo aver costatato «la viva rivendicazione del proprio corpo» che caratterizza, nell'Occidente, anche ambienti cristiani, scrive:
    Vorremmo osservare che, comunque si giudichi questa rivendicazione, altra è la strada sulla quale la preoccupazione per la dimensione corporale si introduce nell'esperienza spirituale che sorge in mezzo a noi. Non si tratta, infatti, di una preoccupazione per le dimensioni fisiche e materiali di noi stessi. Nel nostro mondo il materiale irrompe perché le grandi maggioranze hanno urgenza di pane, di salute, di casa ecc. La realtà fisica si muove qui a livello delle necessità primarie dell'essere umano. Non è il mio corpo ma il corpo del povero - il corpo debole e cadente del povero - che fa entrare la realtà, materiale in una prospettiva spirituale [39].
    E sotto questo imperativo spirituale sta l'indicativo ontologico: l'esigenza di giustizia non è altro che fare spazio all'istanza del mondo come grazia. La giustizia non è un bisogno umano [40]: è la santità dei bisogni umani, la loro necessità etica e spirituale, come riflesso della gloria del Dio vivente.
    Amare la rosa è solo il primo passo per ritrovare le ragioni dell'essere e le ragioni del vivere. Primo passo insufficiente; che addirittura precipita nella contraddizione (e sfiora la dissacrazione) quando, per cercare la rosa, ci si spinge nei paesi della natura vergine senza accorgersi che essi sono anche i paesi dell'umanità miserabile. Il bagno di Gauguin nell'innocenza dei corpi tahitiani non è un buon lavacro per le colpe e le rughe della vecchia Europa; e potrebbe anche essere il gesto equivoco del signore anziano che cerca di cancellare le tracce della propria senilità nella relazione sessuale con l'adolescente costretta dalla miseria a prostituirsi [41]. È vero che i popoli poveri sono anche popoli giovani, e che il contatto con loro potrebbe ridare vitalità al vecchio mondo. Ma non è cercando di carpire loro un elisir di giovinezza, che potremo rivivere. È camminando, verso di loro e con loro, sui sentieri della giustizia che disegnano la topografia dell'essere.
    L'aneddoto dei due giovani - il vedente e il cieco - è la metafora del mondo, dell'attuale divisione tra Nord e Sud; o forse, più che la metafora, la cellula, la realizzazione in miniatura. L'umanità dei poveri ha bisogno di strumenti, l'umanità dei ricchi ha bisogno di valori; i poveri cercano il pane, i ricchi la rosa; quelli lottano per la sopravvivenza, questi bussano alla qualità della vita. Due interessi disparati? "La favola insegna": l'aneddoto dice che tra i due è possibile l'osmosi; che, assumendo il bisogno di vita del povero, si possono riaprire gli occhi sul mondo come fonte di vita. Condividere il pane con l'affamato è saziare la sua fame e, insieme, ritrovare il dono di senso e di bellezza che c'è nel pane. Non elemosina ma reciprocità; non gesto unilaterale di reciprocità ma scambio di beni: due povertà che, confluendo, maturano due ricchezze. La solidarietà dei poveri e la solidarietà con i poveri è l'unica rabdomanzia ontologica: è la pratica messianica che, impigliando uomini e cose nel reticolo della giustizia e della grazia, li fa intonare il canto della creazione [42].

    NOTE

    1 M. Merleau-Ponty, L'occhio e lo spirito (a cura di G. Invitto), Bari 1964, p. 27.
    2 Ivi, p. 34.
    ha, p. 35.
    4 Ivi, p. 75.
    5 Su questo punto il saggio di Merleau-Ponty non sembra sufficientemente preciso; ma non è questa, evidentemente, la sede per discuterne.
    6 Ivr, p. 40.
    7 p. 41.
    8 Ivi, p. 66. Di qui la predilezione di Merleau-Ponty per un pittore come Cézanne, la cui "poetica" si muove coscientemente in questa direzione: «L' "istante del mondo" che Cézanne voleva dipingere e che è passato da tanto tempo, le sue tele continuano a gettarcelo, e la sua montagna SainteVictoire si fa e si rifà e si rifà da un punto all'altro del mondo, in modo diverso, ma non meno energicamente che nella dura roccia sopra Aix» (p. 44).
    9 Ivi, pp. 77-78.
    10 Ivi, p. 60.
    11 J.C. Mariategui, La escena contemporanea, Lima 1980, p. 191. L'osservazione di Mariategui (che fu "il primo marxista dell'America Latina" e tante altre cose ancora) rimane attuale malgrado la data (1925).
    12 E. Fezzi, L'uomo e l'artista, in: Gauguin 1, Tutti i dipinti, Milano 1980, p. 7.
    13 Cit. in: E. Fezzi, L'uomo e l'artista, Gauguin 2, p. 4.
    14 lui, p. 7.
    15 Cf. J. Hillmann, Anima mundi. Il ritorno dell'anima al mondo, in: Testimonianze, ott.-dic. 1981.
    16 Almeno, di chi non è cieco dalla nascita.
    17 Lecture matérialiste de l'évangile de Marc, Paris 1974, parte IV: Essai d'ecclésiologie matérialiste.
    18 Dell'abbondante letteratura sullo "spirito" in Paolo, si possono vedere le pagine di G. Gutierrez nella sua recente operetta di spiritualità (in traduzione presso la Queriniana) Beber en su proprio pozo. En el itinerario espiritual de un pueblo, Lima 1983, pp. 74-100.
    19 Dovrebbe essere superfluo osservare che la differenza sessuale dei due partner, e quindi la prevedibile piega sentimentale che la vicenda prende nel film, è del tutto accidentale nella logica della nostra "parabola".
    20 Questo rapporto è presente a volte nei vangeli come livello ulteriore di significato del miracolo.
    21 Cit. in Merleau-Ponty, L'occhio e lo spirito, p. 75.
    n Cf. Is 35,5s., su tutte.
    23 L'annotazione, oggi comune tra gli esegeti, secondo cui l'uomo biblico non è un'anima incarnata" ma un "corpo animato", scopre su questo punto non certo la sua falsità, ma la sua insufficienza.
    24 Quest'ultimo si riferisce ai lebbrosi, che per ragioni insieme igieniche e culturali venivano allontanati dal vivere associato.
    25 Cf. Messianismo nella vita quotidiana, Torino 1981, p. 123.
    26 Nella terminologia esistenzialista, "esistenza" è l'uomo come progetto fondamentale in tensione verso 1' "essere"; una tensione che per alcuni pensatori si risolve in relazione feconda, per altri in scacco insuperabile.
    27 Su quest'idea cf. l'ottimo intervento di J. Sobrino, La esperanza de los pobres en America Latina, Separata di: Paginas n. 53 (giugno 1983) p. 5.
    28 E, ancora, perché l'umanità povera è sempre stata religiosa. t quanto non riescono a cogliere le letture puramente funzionaliste del fatto religioso; per non dire della sua esorcizzazione attraverso l'antitesi fede-religione.
    29 Si intende, ovviamente, un'interpretazione della natura che scorga in essa il referente ultimo e non superabile del rapporto tra uomo e mondo.
    30 Questa postulazione è della stessa qualità di quella che, verso la fine dell'antico testamento, porta l'uomo biblico all'affermazione dell'esistenza ultra-mondana: non può essere che l'ingiustizia sia l'ultima parola della realtà.
    31 Cf. Es 2,23-25; Dt 26,6-11.
    32 È questa la "buona notizia" che la parola messianica di Gesù dona ai poveri: Mt 11,5; Lc 4,18.
    33 El alma matinal: una felice formula di Marbitegui, e il titolo di uno dei suoi libri.
    34 Per questo punto rimando a: Per un simbolismo del quotidiano, in Terra paese dell'uomo. Spiritualità del quotidiano, Sotto il Monte (BG) 1983, pp. 133-146.35 Cit. in: J. Sobrino, Resurrección de la verdadera Iglesia, Santander 1981, p. 13. Sobrino è stato il "teologo" di Mons. Romero.
    36 J. Gonzalo Rose, cit. in G. Gutierrez, Beber en su propio pozo, p. 150.
    37 Obra poética compléta, Lima 1974, p. 74.
    38 Raccolgo questo verso da un canto, senza poterne verificare la fonte.
    39 Beber en su proprio pozo, p. 141.
    40 Voglio dire che non è anzitutto questo, senza negare che lo possa diventare.
    4i La biografia di Guaguin a Tahiti (cf. E. Fezzi, Guaguin 2, pp. 8-10) presenta più di un motivo in questa direzione. Come da una biografia equivoca posano scaturire opere di alta verità umana, è problema classico e arduo (rapporto tra vita e opere dell'artista).
    42 Non vorrei dar adito a due malintesi di senso contrario. Il primo è che il povero debba solo 'sopravvivere", e al ricco spetti "vivere". Tutto il discorso svolto in queste pagine si muove in direzione esattamente antitetica a questa conclusione. Sottoscrivo a piene mani quest'affermazione di Mariategui: la rivoluzione «sarà per i poveri non solo la conquista del pane ma anche la conquista della bellezza, del pensiero e di tutte le gioie dello spirito» (Escena contemporanea, p. 158). Il secondo malinteso è che le considerazioni qui svolte strizzino l'occhio a una facile liquidazione del pensiero europeo. Citerò per un'ultima volta Marisitegui: «l'Occidente ha dato all'Oriente l'idea di democrazia e l'idea di socialismo» (o. c., pp. 191-193): contributi proprio sulla linea della "giustizia". Il problema attuale è di non finire in un'inconsapevole autoliquidazione, stemperando la sostanza etica di questi ideali in un umore narcisistico.


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