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    Identità dell'io

    e amore del prossimo

    Armido Rizzi

    La parabola del buon samaritano risponde, come tutte le parabole evangeliche, a una strategia di appello: l'interlocutore di Gesù è chiamato a prendere posizione di fronte alla sua parola, a rispondere all'hic et nunc dell'incontro. Ma essa ha pure un valore paradigmatico, che può venire isolato dalla condizione iniziale e fissato e interpretato come modello generale; perdendo così in efficacia puntuale ma acquistando ín portata ermeneutica. Sottoposta a questo procedimento, la parabola del samaritano appare come uno straordinario esempio di teologia narrativa; straordinario perché, attraverso il racconto, non soltanto enuclea un messaggio teologico ma disegna il principio dí ristrutturazione dell'esistenza umana (e dello stesso discorso teologico): il principo di alterità. Il buon samaritano è l'uomo che trova la propria vera identità soccorrendo l'altro. Un uomo particolare, certo; ma, nella sua posizione di protagonista del racconto, l'uomo come tale.

    Colloquio e parabola

    La parabola è inserita dentro il colloquio tra Gesù e un dottore della legge; questo contesto è ben più di un'introduzione: esso traccia l'orizzonte di significato entro cui si svolge il racconto parabolico, ed è quindi essenziale per costituirne e per leggerne il messaggio. Si può dire che colloquio e racconto, più che contesto e testo, sono i due momenti in cui si articola il testo evangelico. A differenza del dottore della legge, noi non ci troviamo in presenza di Gesù narrante la parabola, ma dell'evangelista - Luca - narrante l'insieme colloquio-parabola.
    Il colloquio pone la domanda cui la parabola dà risposta. Il dottore della legge chiede a Gesù: "che devo fare per ereditare la vita eterna?". "Ereditare la vita eterna" è una delle varie formule con cui le scritture ebraiche e poi cristiane designano l'unum necessarium: trovare e realizzare la propria identità, scoprire e compiere il senso del proprio esistere. Gesù risponde - e come poteva diversamente? - rimandando alla legge: il senso dell'esistere umano va cercato nell'adesione radicale e incondizionata a Dio, e nell'adesione al prossimo. È la risposta classica di Israele; che Gesù la accetti come valida non è un accorgimento tattico ma un leale riconoscimento della religione dei padri come fonte e norma della verità.
    A questo punto il discorso sembra chiuso; e la ripresa da parte del dottore sembra riguardare un aspetto particolare (come tracciare una linea di confine tra chi è prossimo e chi non lo è), che lascia intatto il risultato finora raggiunto. Allora anche la parabola, rivolta a chiarire il punto incerto contenuto in questa ripresa, appare come dotata di un rilievo secondario, tesa a esprimere il punto di vista di Gesù su una questione, tutto sommato, di scuola.
    Non è così. Introdotta da una domanda che chiede spiegazioni su un comandamento, la parabola è seguita da una domanda e, poi, da un comandamento. Il comandamento dice: "Và, e fa' anche tu lo stesso" (cioè: come ha fatto il buon samaritano) (v. 37). Qui, e soltanto qui, abbiamo la risposta definitiva alla domanda iniziale: "Che devo fare per avere la vita eterna?" (v. 25). Dunque: fare come il samaritano è la condizione della vita eterna, è la messa in opera di quell'anticipazione di vita eterna che è l'identità personale, l'autenticità del proprio esistere. Fare come il samaritano è la risposta alla domanda: chi sono?
    Ma che cosa fa, propriamente, il samaritano? Ce lo dice la parabola, certo: ma la parabola letta alla luce della controdomanda che Gesù, alla fine, pone al dottore della legge: "Chi di questi tre è stato prossimo (o: si è fatto prossimo) di colui che è incappato nei briganti?" (v. 36; cfr. v. 34). E ormai comune tra i commentatori di questa pagina evangelica rilevare che Gesù riprende qui la domanda postagli dal dottore ("Chi è il mio prossimo?"); ma la riformula capovolgendola: "chi si è fatto prossimo?". Effettivamente, è in questa controdomanda, e nel comandamento che la segue, che si esprime la paradossale concezione evangelica dell'identità personale come esodo dell'io verso l'altro.

    "Farsi prossimo..."

    "Prossimo" viene unito a due verbi diversi nella domanda del dottore e nella controdomanda di Gesù: a "essere" nel primo caso, a "farsi" nel secondo. Questi due verbi delineano nientemeno che due orizzonti: "essere" fa della prossimità una condizione naturale, un dato di partenza: c'è chi è prossimo e chi non lo è; meglio: ci sono i miei prossimi e ci sono i tuoi, perché la prossimità è la coappartenenza dei simili a uno stesso gruppo, più o meno ampio: famiglia, clan, razza, nazione, religione... Allora anche l'amore al prossimo si muove entro una logica di identità e di somiglianza/appartenenza: ama quelli che sono come te, che sono "tuoi" (parenti, connazionali...), che quindi non sono veramente "altri". La domanda "chi è mio prossimo?" non chiede una definizione del concetto di prossimo ma una linea di demarcazione tra chi è prossimo e chi non lo è (si veda il testo greco); la definizione è presupposta: il prossimo è chi ha la stessa tua area di appartenenza; il dubbio verte sull'ampiezza di quest'area, sull'includervi o meno certe categorie; è un dubbio di casistica, non di qualità della "prossimità". C'è chi ne allarga le maglie, e chi le stringe; ma una cosa è certa: ci sono comunque i prossimi e i lontani, coloro che sono dentro la trama di relazioni e coloro che ne sono esclusi.
    Ebbene, il "farsi prossimo" della controdomanda di Gesù è, in realtà, la vera risposta: la prossimità non consiste in una condizione di partenza ma in una scelta, non definisce la collocazione dell'altro rispetto a te, ma la vocazione della tua libertà rispetto a lui.
    Sottolineo: vocazione e libertà. Non si tratta quindi di sostituire all'essere prossimo" un "diventarlo" che sposterebbe al futuro la comune appartenenza, cioè conserverebbe lo stesso orizzonte di identità, rendendolo soltanto più flessibile: invece di nascere prossimo, lo si diventa a poco a poco, ma sviluppando un germe già presente dalla nascita. Diventare è un processo evolutivo, come quello del seme che diventa pianta; "farsi" è un evento di auto-creazione affidato alla mia responsabilità (responsabilità è, appunto, la libertà in quanto risponde alla vocazione). Allora: come l'altro non mi è prossimo per una condizione naturale, così io non gli sono/divento prossimo per un dispiegamento naturale del mio io. Sarebbero, queste, soltanto le due facce dello stesso fenomeno di reciproca appartenenza [1].
    Io e l'altro siamo irriducibilmente due; ma è proprio questa dualità che diventa relazione attraverso il "farsi prossimo": attraverso quell'atto che la parabola racconta e che la sua conclusione universalizza: "fa' lo stesso anche tu".
    Mi accorgo che finora la parabola è rimasta in ombra; l'interesse è stato catalizzato dal contesto, anzi dal duplice contesto: Gesù di fronte al dottore, la pagina di Luca di fronte al lettore. Proviamo a saltare la parabola, a riformulare la pagina evangelica: dopo che Gesù ha confermato al dottore della legge la condizione per avere la vita (il senso, l'identità), cioè amare Dio e il prossimo, alla domanda ulteriore che chiede un criterio per distinguere tra prossimità e lontananza Gesù risponde: tutti sono lontani, in partenza, e sei tu che devi farti prossimo, che devi superare la lontananza con la tua libera iniziativa. Ridotta a questo, la pagina di vangelo racconta ancora qualcosa; ma il "qualcosa" è allora un atto linguistico, un dialogo, una discussione attraverso cui Gesù impartisce una lezione. La parabola è allora superflua? È soltanto un additivo per vivacizzare il dialogo o un espediente didattico per renderlo più semplice?
    Sono fermamente convinto del contrario. La funzione e la forza della parabola è in questo: il "qualcosa" che essa narra è un atto extralinguistico: è la "compassione" che il samaritano sente e a cui consente, ed è la pratica di sollecito aiuto che ne scaturisce. E qui, nel soccorrere il povero diavolo "mezzo morto", che accade il farsi prossimo. Non c'è nulla che leghi i due in partenza: il malcapitato è soltanto un oggetto che i passanti "vedono" (vv. 31.32.33): non ha neppure il volto implorante o la voce gemente. È presenza anonima, identità ignorata, fatticità nuda. E, per il passante, il totaliter alius. Eppure c'è qualcosa che getta il ponte tra lui e il samaritano: è la decisione del samaritano di farglisi prossimo; ed è, a far maturare questa decisione, la compassione che sboccia in cuore al samaritano. Prima dell'attività e alla sua base, c'è questa singolare recettività; prima del fare, c'è questo essere toccato, colpito, coinvolto. Qui non ci sono parole, non c'è dialogo. Ma quando Gesù, in conclusione, dice al dottore: "va' e fa' lo stesso", che altro è questa parola se non la traduzione linguistica - la forma grammaticale imperativa - dell'imperativo senza parole che esce dal corpo muto del malcapitato? La compassione che il samaritano prova non può essere soltanto una mozione affettiva; la posta in gioco - il lettore della parabola lo sa - è per lui la vita eterna. Quella compassione non può che essere la parola del Dio che chiama - la vocazione che suscita libertà - in un'incarnazione che anticipa ogni umana parola e che è la carne del povero.
    Vedi, amico lettore, io sto producendo parole su quelle altre parole che formano la pagina del vangelo di Luca, che a loro volta raccontano altre parole ancora, quelle tra il dottore e Gesù. Sono tutte parole importanti. Ma esse non fanno che avvolgere, come involucri successivi, l'originaria Parola senza parole: la compassione che si è accesa nel cuore del samaritano e l'ha spinto a farsi prossimo. E se Gesù parla, è per riaccendere nell'interlocutore quella compassione; e se Luca scrive, è per riaccenderla nel lettore; e se io commento Luca, è per sollecitare ancora una volta in me e in te quella stessa compassione e quello stesso evento di attiva prossimità. Solo qui, e non altrove, io sono me stesso, tu sei te stesso. Solo presso l'altro c'è l'identità dell'io. E il samaritano, la mia, la tua identità [2].

    NOTE

    1 Il greco, a dir la verità, usa proprio il verbo "diventare"; ma questo verbo, la cui base semantica è certamente naturalistica, ha una notevole flessibilità; così che il suo significato puntuale va determinato in base al contesto, che qui non lascia dubbi a proposito del suo tenore extranaturalistico: diventare in libertà, "farsi" nella scelta esistenziale.

    2 Dovrebbe essere chiaro che questa nota non intende presentare un commento al significato globale della pagina di Luca, ma soltanto al tema - in essa enunciato - dell'identità attraverso l'alterità.


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