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    È possibile

    una spiritualità

    della gioia di vivere?

    Armido Rizzi


    «E come potevamo noi cantare / con il piede straniero sopra il cuore?» Questi versi di Salvatore Quasimodo, che riecheggiano il salmo degli ebrei sotto il giogo della cattività babilonese, sembrano delegittimare ogni spiritualità della gioia in un mondo dove le situazioni di cattività e di sofferenza costituiscono ancora - e fino a quando? - la condizione vincente. Ora, tempo libero e beni gratuiti sono sinonimi di gioia: non di quella gioia tutta interiore che si estrania dalle vicissitudini dell'umano concreto, né di quella escatologica (si pensi al vangelo di Giovanni) che matura dentro quelle vicissitudini, ma punta al di là di esse; sono la gioia che si fa carne respirando l'alimento mondano, aderendo alle pieghe della realtà - uomini e cose - li dove essa si offre non solo come strumento ma come godimento, come dono di figure e ritmo di danza, come benessere e consolazione. Tutto ciò che ammicca nella formula cromatica e allusiva di "gioia di vivere". Come fare della gioia di vivere un tema spirituale, in un mondo in cui essa è negata - anche nelle sue forme più elementari - a un numero sterminato di uomini? Come trasformare il privilegio di pochi, di noi pochi, in probità e altezza di vocazione, quando quel privilegio non ha il carattere del merito ma della fortuna e, semmai, dello sfruttamento?
    A questo severo interrogativo se ne aggiunge un secondo: come sviluppare una spiritualità del godimento, se l'ideale spirituale si è sempre sposato, come per necessità interna, all'assunzione del negativo? Collegare alla presenza del negativo la maturazione del-
    l'umano nelle sue forme superiori è una costante della storia culturale, dentro e fuori la tradizione cristiana. Dalla necessità della disciplina e dell'ascesi per temprare il carattere alla ricchezza sapienziale che‘scaturisce dalla sofferenza, dalla forza testimoniante del sacrificio nei confronti dell'amore alla sua forza penitenziale in espiazione della colpa: il ventaglio che lega vita spirituale e campo del negativo - da assumere o addirittura da ricercare - è tanto ampio quanto differenziato. E non vi mancano le connessioni ontologiche, come nelle visioni cosmovitalistiche (e dialettiche), dove vita e morte sono le due facce dell'identica realtà, e la violenza (fino alla guerra sacra e al sacrificio umano) è una componente essenziale della costituzione e conservazione dell'essere. Una spiritualità della gioia di vivere sembra rimuovere pericolosamente questa massa di saggezza così antica e così universale, e disattendere con superficiale disinvoltura o con arbitrario decisionismo la legge profonda che essa testimonia.
    Le due obiezioni sono serie, e non vanno snobbate. Anzi, soltanto un confronto che ne ascolti le ragioni, pur vagliandole criticamente dalle debolezze, può permettere una lettura adulta e non corriva della stessa spiritualità della gioia. Inizieremo dalla seconda, che si inquadra in una visione più classica e più complessa.

    La spiritualità tra croce e gioia di vivere

    Pratiche e miti del più recente consumismo confermano con vistosa eloquenza quello che la coscienza più sensibile e la grande tradizione culturale ha sempre saputo: il piacere è egoista, il godimento è individualista. Prima che di un giudizio morale si tratta di una valutazione antropologica fondamentale: l'intenzionalità del godimento è insuperabilmente rivolta all'io, non tanto per una scelta (che giunge, se mai, in seconda istanza) quanto per la sua intrinseca curvatura. È un egoismo innocente, un individualismo di costituzione, un terreno di germinazione che precede ogni nostro calcolo e ogni volontaria disposizione.
    Bisogna riconoscere che questo egoismo costitutivo include un attestato alla positività della vita. Come ama ripetere Lévinas, la vita è prima di tutto godimento, assimilazione dei nutrimenti mondani, felicità; diversamente, non si spiegherebbe che la mancanza sia insoddisfazione, sofferenza, ricerca.
    Positività e innocenza del godimento, dunque. Ma insieme, innocenza pre-morale, ignara di tutto ciò che non sia l'io nell'immediatezza della sua voglia di vivere. Il problema del godimento è in questa sua ambivalenza di bontà originaria e di orizzonte chiuso, di canto alla vita e di cecità per l'ordine generale della vita. Ambivalenza dove sono inscritti simultaneamente ragioni e limiti della rivolta nietzscheana e di tutte le più recenti rivendicazioni: nuovi bisogni e riscoperta della corporalità, diritto alla felicità e trionfo del privato. Contro l'etica dello sfozo e dell'astinenza, contro la spiritualità dell'ascesi e della penitenza, questi movimenti fanno valere le ragioni della vita, in quella sua sanguigna evidenza che non ha bisogno di sublimarsi per giustificarsi, che può esibire una naturale e ovvia plausibilità. Ma a queste ragioni s'accompagna il limite; che è, con un gioco di parole carico di significati, l'incapacità di riconoscere il limite. Il godimento non è autoregolato, tende all'eccedenza: ha in sé, lo avverta o meno, il seme della consumazione onnivora, quindi della distruzione. Il godimento porta alla trasgressione ( = superamento dei confini); che, malgrado ogni retorica neovitalista, è prevaricazione, violenza.
    La razionalità genuina delle valutazioni del negativo è nella scoperta del limite come condizione necessaria all'ordine della vita; il loro rischio è di trasformare il limite in negazione della vita o in suo sostituto. Tra vitalismo e ascetismo i giochi sono sempre aperti, con una pendolarità tanto ripetitiva teoreticamente quanto feconda storicamente.

    La legge della creazione

    Quel testo ineguagliabile che è Gn 2-3 (il mito dell'eden e della colpa originaria) ha però aperto una pagina anche teoreticamente
    nuova nell'intelligenza del rapporto tra vita e negazione, tra godi-meato e sofferenza; una pagina che la tradizione occidentale ha coperto di letture stonate, ma di cui non è riuscita a spegnere l'eco e l'appello. Contro le visioni della necessità ontologica del negativo, il mito dell'eden presenta un mondo radicalmente buono, non attraversato né dalla sofferenza né dalla violenza, né dalla penuria né dallo scacco esistenziale. Ma contro una visione innocentista, dove l'amore alla vita avrebbe già in sé la statura dell'umano e la capacità di garantire la bontà del mondo, Gen 2-3 afferma il carattere essenzialmente militante di quell'amore, la sua condizione - non meno radicale - di scelta e di fallibilità. Nell'eden c'è l'albero della vita e l'albero del comandamento, e il secondo condiziona l'accesso al primo; c'è, come per Israele nella terra promessa, il mondo buono e la legge severa, e soltanto quest'ultima garantisce il funzionamento del primo. Tra l'amore alla vita e il possesso della vita non vige una logica dell'immediatezza ma la necessità della mediazione: la vita ha un ordine, e il suo desiderio deve distendersi secondo il disegno di quest'ordine.
    Ora, si potrebbe pensare che, mancando tra i due una sintonia spontanea, è necessaria una regola che disciplini il desiderio. L'esperienza e una lunga sapienza ci insegnano che questo è vero; ma non è questo, propriamente, il messaggio di Gen 2-3. Il testo sembra anzi dire che, sul piano suo proprio, il desiderio edenico era ben fatto, non attraversato da impulsi disordinati e quindi minacciosi per l'ordine della vita (vedi la nudità senza vergogna, l'incontro stupefatto dei sessi, il lavoro senza fatica...). Il messaggio biblico è che tra amore alla vita e possesso della vita esiste una rottura di livello: il primo si dispiega secondo la sua spontaneità naturale, il secondo esige un movimento personale, un'adesione libera; il primo è psichico, il secondo spirituale, direbbe Paolo (con leggero ritocco di nomenclatura: il primo è psico-fisico, il secondo etico-religioso). Il vero scarto tra amore alla vita e ordine della vita non è, biblicamente, sui contenuti ma sulla motivazione ultima. L'amore alla vita, anche se fosse intrinsecamente regolato così da non compromettere le condizioni generali della vita stessa, resterebbe pur sempre egocentrico: l'intenzionalità generatrice dei bisogni e dei desideri è l'autopromozione dell'io. Una strategia di adeguamento alle leggi cosmiche sarebbe un amore saggio e intelligente; non basterebbe però a superare l'orizzonte nativo dell'io.
    Si può accettare l'ordine delle cose come una necessità naturale: come la condizione inevitabile della felicità. La felicità - la propria felicità, s'intende - rimane allora perno e fondamento della realtà. L'albero dell'eden esprime invece un ordine e una necessità di altro genere: quell'ordine che è parola perentoria, e quella necessità che è vincolazione incondizionata. Per accedere alla vita bisogna consentire alla fonte della vita, che è Volontà, cioè trascendenza personale, non subordinabile al desiderio di vita e alla felicità. È a questo livello il paradosso di Adamo: perdere la vita è possibile soltanto rinunciando a disporne, a farsene signori, per accoglierla dall'unico Signore, che tutto dispone e misura. C'è quindi, nel mito biblico, una negazione necessaria all'affermazione della vita; ma non è sul piano dell'ascesi, della resistenza, della sofferenza: è sul piano della rinuncia al potere.
    C'è un potere autentico sulla vita, ed è quello del Dio che la disegna e la dona. E c'è un potere inautentico, che si profila nelle parole del serpente e fa breccia nel cuore dell'uomo come sua inaudita possibilità: soggiogare la vita, padroneggiarla. L'accesso alla vita passa attraverso la negazione di questa possibilità; il sacrificio necessario per affermare la positività del mondo ha come oggetto la volontà di potenza, che si erge come possibile alternativa ("sarete come dèi") alla Parola che ordina il mondo. Il godimento non può restare nella sua innocenza naturale; deve affrontare la scelta in termini di libertà personale, di decisione etica: o farsi volontà di se stesso o accogliersi voluto dall'altro, o impennarsi in un'identità di autoaffermazione o riconoscersi un'identità recettiva. O il conato dell'auto-posizione o l'obbedienza e la benedizione del dono ricevuto. Obbedienza e benedizione sono dunque connotati essenziali all'autentica gioia di vivere: sono la sua transvalutazione dall'immediatezza infantile del godimento alla sua età adulta, dall'eden onirico all'eden biblico, dallo psichico allo spirituale.
    Ma poiché l'obbedienza non si instaura se non negando la volontà di potenza, e la benedizione non si innalza se non abbattendo l'autoaffermazione, nella gioia di vivere biblicamente intesa è piantato questo "no" come custode indispensabile del "sì" che la genera. Una spiritualità della gioia di vivere non bandisce il negativo, ma lo porta a questo livello dove esso inside nella stessa struttura originaria dell'essere, nella trama etica della creazione.

    Negativo, culture, spiritualità

    Ma le negazioni concrete, le "croci" che punteggiano l'esistenza storica dell'uomo? Esse sembrano ignorate dal disegno appena tracciato, che rischia così di librarsi nei cieli intatti ma irreali della speculazione. Diciamo allora che il rapporto tra le negazioni concrete e la vita spirituale va riconsiderato criticamente.
    Per quanto riguarda le negazioni naturali, è necessario non confondere il loro significato spirituale con la primaria valenza funzionale che esse presentano. Regole rigide di vita, sacrifici reali e rituali, allenamento all'austerità e allo scontro, iniziazioni faticose e pericolose: tutto questo fa parte di quella lotta per l'esistenza che è stata la condizione costante dell'umanità nel passato, fa parte della capacità di adattamento dell'uomo al mondo, in cui individui e collettività si sono da sempre cimentati, e che è la ragione fondamentale del sorgere delle culture. Siamo dunque all'interno di quell'ottica antropocentrica che, come già si vedeva, disciplina l'amore alla vita per'renderlo efficace, si adegua all'ordine per sfruttarlo e anticipa il disordine per schivarlo.
    Tutto qui? Affermarlo sarebbe cedere a un rilettura riduttiva delle culture umane, qual'è appunto il funzionalismo. C'è dell'altro, nelle culture: c'è la dimensione religiosa come attestazione della Trascendenza. La vita non è soltanto necessità da affrontare tatticamente, da accostare con quell'intelligenza che è astuzia e preveggenza, calcolo e saggezza spicciola. La vita è fonte misteriosa che si sottrae alla pretese prometeiche ma si concede all'umiltà di un'accoglienza e di una collaborazione pazienti. Adeguarsi alla
    vita non è più allora unicamente approntare pratiche e strumenti; è riconoscere una Presenza (comunque venga formulata) e cercare la comunione con essa.
    Chi scrive non ha mai accettato la secca opposizione barthiana di rivelazione (fede) e religione: manifestazione del divino la prima, arroganza umana la seconda. Le religioni sono l'intreccio inestricabile del momento rivelativo e dell'equipaggiamento reattivo. Sono il divino che si dischiude come mistero di vita e la necessità che si impone come potenza ambigua; e sono, sull'altro versante, l'uomo che accoglie il divino ma insieme si attrezza ad affrontare la necessità. Sono docilità al senso donato e diffidente industriosità per arginarne le falle e produrne di più sicuro. C'è quindi un'innegabile dimensione spirituale abbarbicata alle pratiche di sopravvivenza; c'è un'obbedienza alla fonte dell'essere saldata sulla capacità di resistenza; c'è una preghiera che attraversa il rito anche affetto da magia. C'è una muta "spiritualità della croce" dentro la scarna misura delle economie di sussistenza: quel portare il peso dell'esistenza che è l'elementare santità dei poveri.
    Ma questo non autorizza a identificare santità e fatica di vivere, a considerare organiche alla vita dello spirito quelle convinzioni e quelle pratiche che erano imposte da necessità antropologiche elementari. C'è una spiritualità della durezza di vivere e una spiritualità del piacere di vivere: sono due modalità dell'esistere nello Spirito, la cui sostanza è definita, in positivo, dall'adesione al Dio della vita, in negativo, dalla rinuncia a farsene signori. Due modalità sempre presenti, con variazioni d'accento e di intensità, nella biografia degli individui; ma legate anche alle condizioni generali dell'esistenza collettiva. Che una collettività possa, nel suo insieme, coltivare come sua caratteristica una spiritualità della gioia di vivere mi sembra una grande svolta epocale nella storia dei modelli e degli stili spirituali.
    La cosa appare ancora più chiara se, invece delle negazioni naturali, si considerano quelle che sono provocate dal disordine specificamente umano; dall'ingiustizia o dall'indifferenza. Queste negazioni rappresentano uno scacco del disegno originario di Dio e,
    come tali, sono inidonee a un'interpretazione e a un'assunzione direttamente spirituale. Anzi, è proprio nella sollecitudine per superarle che si manifesta l'adesione al volere divino, principio di ogni spiritualità. Il che conferma il carattere spirituale della gioia di vivere, quando è in sintonia con la volontà creatrice e ne assume la responsabilità nella lotta. La stessa accettazione del negativo acquista valore spirituale soltanto quando si coniuga con la volontà di abolirlo: o in forma di obbedienza al mistero redentore («Padre, se è possibile... ma sia fatta la tua volontà») o in forma di solidarietà.
    In sintesi: essenziale alla vita spirituale è quella negazione della volontà di potenza che permette il "sì" alla creazione, il dispiegarsi della gioia edenica. Le negazioni concrete acquistano valore spirituale (da non confondere con la loro valenza funzionale) soltanto quando e quanto sono segnate dal consentimento al presente nella sua miseria per riscattarlo in un futuro di dignità e di pienezza.

    Gioia di vivere e solidarietà

    `Rispondendo alla prima obiezione abbiamo già elaborato la piattaforma teorica per affrontare la seconda; e viceversa, è soltanto il confronto con questa che permette di intendere adeguatamente nel suo risvolto positivo la prima e laboriosa risposta. Siamo partiti rilevando l'orizzonte egocentrico del godimento e, dunque, la tensione in cui esso si trova con l'ordine della vita: ordine come trama generale in cui la vita si articola e come Parola che la governa e la dona. Il godimento si vede così confrontato con due esigenze di quella vita che rappresenta il suo oggetto: l'esigenza di universalità e quella di trascendenza.
    Abbiamo visto come esso possa adattarsi all'esigenza di universalità elaborando strategie ancora interne alla sua logica (un egocentrismo allargato) e come debba invece cedere alla libertà personale che, nella forma di obbedienza e di benedizione, lo sottomette all'istanza di trascendenza come ragione suprema della vita. Ma universalità e trascendenza, ordine naturale e ordine personale, che come tali potrebbero rappresentare due esigenze diverse e separabili (la saggezza naturalistica e il comandamento biblico), confluiscono in una sola istanza, in cui originalmente e concretamente si annodano: la legge della solidarietà. Il godimento accede all'universale e varca la soglia della trascendenza in quanto viene inteso come godimento dell'altro, degli altri, di tutti (genitivi soggettivi). Dicendo : "voglio che tu viva" mi pongo oltre l'immediatezza del mio desiderio di vita, assecondo un movimento che è il movimento stesso della vita nella sua effusività. Ma ancora: se colui a cui auguro di vivere, al cui servizio mi pongo, non ha con me rapporti già consolidati - di sangue o di prossimità, di identità culturale o ideologica o religiosa -, se egli è semplicemente "l'altro" con il suo bisogno di vita, il mio accedere a lui va oltre il movimento stesso della vita nella sua naturale generosità, si trascende in benevolenza, in quella sintesi di giustizia e di gratuità, di necessità e di libertà, che è l'atto etico, la solidarietà interpersonale. Allora, dicendo "voglio che tu viva" riconosco e attuo insieme l'universalità della vita e la trascendenza della sua fonte. Il canto alla vita, intonatosi nel godimento, sfocia e si compie nel dono del godimento.

    Intenzionalità di dono

    Il dono del godimento è l'opera, sono le opere che noi compiamo nella storia degli uomini e per la loro vita. La "teologia delle opere" si è sviluppata sulla linea del "merito" di colui che compie l'opera, della sua acquisizione di titoli in ordine alla propria salvezza. Dispiegatasi nell'ambito giudaico e poi nel cattolicesimo medievale, questa teologia ha suscitato la reazione polemica di Paolo, nel primo caso, e di Lutero nel secondo. Senza entrare nel merito storiografico di questa discussione, è però necessario rivendicare alla teologia delle opere una possibilità ermeneutica diversa da quella che la orienta all'acquisto della salvezza individuale; possibilità diversa e più originaria: quella che vede l'opera come l'oggettivarsi della soggettività nelle figure del mondo, dentro l'intreccio delle relazioni interumane. Opera è l'atto o il gesto puntuale con cui ristoro il corpo o il cuore di chi bussa alla mia casa; è la produzione tecnica o culturale con cui gli fornisco strumenti utili o lo alimento di beni fruibili; è l'istituzione (politica, giuridica, ecc.) con cui disciplino il nostro convivere.
    L'opera è essenzialmente sociale, creatrice di comunione. Ma quest'intenzionalità, che le è congenita, non è dotata di un autocompimento naturale; ha bisogno, per essere se stessa, di un soggetto che la sposi e la ratifichi. E può essere invece dissipata quando trova un soggetto che vi immette una controintenzionalità. Facciamo un esempio.
    L'opera d'arte, nel suo prodursi come nel suo mantenersi, è essenzialmente una realtà di comunicazione; oggettivare il mondo nella sua dimensione di bellezza è esporlo agli sguardi, offrirlo alla contemplazione. Ma l'opera d'arte può restare sottratta agli sguardi perché confiscata da un acquirente privato e geloso, o perché il suo linguaggio non è immediatamente accessibile. C'è allora come una tensione, una contraddizione interna, tra l'universalità ideale dell'opera d'arte, che preme per farsi reale, e la situazione effettiva di isolamento o di élitarismo, che mortifica quell'universalità. L'opera rimane un non-finito, non sul piano della produzione ma su quello della "esecuzione"; è infatti la lettura attuale, viva, da parte del fruitore, che "esegue" l'opera d'arte, che la fa essere nel senso integrale del termine. La piena realizzazione dell'opera d'arte sarebbe la sua fruizione da parte di tutti i membri del genere umano; concretamente: da parte di tutti coloro che vi sono interessati e ne possono trarre gioia e incremento di umanità. Ma questa realizzazione è possibile soltanto promovendo tutte le condizioni di accesso all'opera: da quelle che si dispiegano sul versante oggettivo (politica culturale) a quelle più legate alla maturazione della soggettività (educazione artistica). L'opera d'arte, che "vuole" essere dono per tutti, diventa tale soltanto se incontra "volontà" umane in sintonia con questa sua intenzionalità di dono.

    L'alternativa è tra l'io e l'altro

    Il discorso può essere allargato a ogni bene e in particolare a ogni bene nella sua dimensione di gratuità. Si potrebbe giocare sul significativo bisenso del termine "gratuito". Accanto alla accezione finora adottata di "valore-in-sé", di autofinalità del bene, c'è quello più comune di bene donato, dato senza prezzo e senza compenso; che rimanda dunque dalla cosa alla disposizione del soggetto. Ecco: si potrebbe dire che la gratuità degli oggetti non può realizzarsi e circolare senza la gratuità dei soggetti; che la generosità dei beni ha bisogno della generosità delle persone per diventare presenza e attuazione effettiva di godimento. La gioia di vivere non può zampillare e scorrere per energia propria: fonte e alveo ne è il dono, la solidarietà.
    Non c'è dunque una ragione di principio per esorcizzare una spiritualità della gioia in nome delle masse di sofferenza. Spiritualità della gioia non è l'espediente per giustificare il mio godimento davanti alla tua privazione; è, prima di tutto, l'imperativo di colmare la tua privazione condividendo il mio godimento. È un affermare la vocazione di tutti al godimento attraverso la solidarietà.
    Più concretamente: una rivoluzione culturale per l'Occidente non è aggiungere ricchezza a ricchezza abbandonando i poveri alla loro miseria; è correggere quella ricchezza che rende miseri i poveri e fa dei ricchi i falsi ricchi. Da questo punto di vista, non soltanto c'è un'unica radice di tutti i beni - la gratuità, la solidarietà - ma c'è anche, ormai, un unico obiettivo perseguibile a livello mondiale: rendere la terra abitabile. Non mi riesce più di guardare la stupenda collina che ho di fronte senza pensare a chi ha fame; ma non mi riesce più di pensare a chi ha fame senza ricordare i cinque metri quadrati di giardino addossati a una capanna di stuoia alla periferia di Lima. Pane e bellezza sono due momenti della gioia di vivere: si muore di fame e si muore di vuoto. L'alternativa spirituale non è tra beni di necessità e beni superiori: è tra l'io e l'altro, tra il culto del privato e lo spazio del solidale.


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    p a g i n A


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